104. Don Bosco educatore
2 febbraio 1981
Parlare di don Bosco come maestro e modello di educatore significa parlare prima di tutto del suo grande cuore di sacerdote e di santo. Pressato da molte insistenze perché insegnasse il suo metodo, un giorno esclamò: “Il mio sistema, il mio sistema… Ma se non lo conosco nemmeno io! Io sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze richiedevano”1. Cioè don Bosco non pensò mai di teorizzare un vero e proprio metodo pedagogico.
A monte del suo metodo preventivo sta la sua spiritualità di sacerdote santo che ha amato i ragazzi fino a dare, goccia a goccia, tutto il suo tempo, tutte le sue energie, tutta la sua vita.
Vi è un legame stretto tra la sua ispirazione che creava atteggiamenti profondi nella sua persona e il suo metodo pedagogico e pastorale che guidava le modalità delle sue azioni e lo stile di presenza. È per questo che non è partito da una teoria astratta ma da un grande amore. E nell’amore fu un grande maestro e un grande pedagogista anche se non ridusse a forma scientifica le sue idee.
In che cosa consiste il suo metodo preventivo? Mettere i ragazzi nell’impossibilità di commettere le mancanze e rimproverava al sistema repressivo di aspettare che le mancanze sian commesse per correggerle dopo.
E c’è proprio modo di prevenire efficacemente dalla corruzione? Sì perché prima di tutto c’è Dio che ama i fanciulli e vuole renderli il campo della sua predilezione, dona loro una vita soprannaturale e li nutre con il Corpo e Sangue di Gesù, li perdona nella Confessione con un sorriso.
Don Bosco sa che l’uomo non salva l’uomo; la sostanza del suo ottimismo è la realtà della fede, è la certezza della fedeltà di Dio che dona sempre meraviglioso l’aiuto che ha promesso.
Di qui l’importanza assoluta che il santo don Bosco annetteva ai mezzi soprannaturali, perché lui mai dimenticava che i nostri ragazzi non sono solo delle creature umane ma dei figli di Dio in cui lo Spirito Santo, ossia l’amore onnipotente, dimora come in un tempio e vi agisce e vi opera come in una continua creazione.
Gli educatori si devono considerare dei semplici collaboratori a questo magnifico lavoro.
Ricordava don Bosco come ogni anima è costata tutto il tormento e il sangue di Cristo e quindi che bisogna essere ben sicuri che la Provvidenza divina nulla tralascia per salvare le anime. La molla segreta di tutta la sua vita, il motivo per cui aveva dato tutto, in una donazione sublime e continua era condensato in una frase della Scrittura di cui aveva fatto il suo motto: Da mihi animas, coetera tolle2.
Ecco perché insisteva tanto sull’istruzione, sul catechismo ai suoi allievi. La parola di Dio. Una religione a base puramente sentimentale non può mettere un freno alle passioni.
Diceva ad un suo collaboratore: “Tu ricordati bene che una delle mancanze della pedagogia moderna è quella di non volere che nell’educazione si parli delle massime eterne, soprattutto della morte e dell’inferno”. Don Bosco non è contento di una religiosità che restringe i suoi compiti a esteriorità passeggere e che, fermandosi a forme esteriori, snatura il carattere giovanile con la viltà dell’ipocrisia.
Ricordando san Paolo che ha parlato della vita spirituale come di una corsa allo stadio3, presenta l’ascesi cristiana come una gara entusiasmante di conquista.
Uno sforzo; ma non nella durezza e nel rigore.
Alla scuola di san Francesco di Sales vuole una devozione serena a amabile. Insegnare ai ragazzi che Gesù li ama ed è loro vicino, che commettere peccato è una cosa triste e avvilente. Non solo toglie la grazia ma rovina tutti gli slanci generosi e belli, e guasta la personalità incipiente.
Otteneva dei risultati meravigliosi. Una domenica della Quaresima 1955 don Bosco fa l’omelia ai suoi ragazzi. La lettura del giorno è presa da san Paolo (1Ts 4,3): “La volontà di Dio è che voi diventiate santi”; commenta: voi dovete approfittare della vostra situazione e diventare tali. Le sue parole, dette con la carica e la forza tipiche, colpiscono; ma uno dei ragazzi presenti lo va a trovare e pronuncia le parole decisive: “Ho capito: bisogna, posso, voglio diventare santo”.
Don Bosco ha fatto comprendere la gioia, la bellezza di abbandonarsi all’amore del Signore. Lo dirà quel ragazzo che in due anni diventerà san Domenico Savio: “Farmi santo vuol dire darmi tutto al Signore, per sempre al Signore”. Ha scoperto che la sua anima e quella dei compagni sono costate il sangue di Gesù Crocefisso e le lacrime della sua Madre. Il grande nemico è il peccato che ha provocato quel sangue e quelle lacrime e rischia di renderle inutili.
Don Bosco gli è vicino con la sua sapienza pedagogica di grande santo.
Domenico vorrebbe fare cose molto pesanti, penitenze e lunghe preghiere. Don Bosco modera e gli indica passo per passo la strada. E Domenico cresce santo in poco tempo, in una gioia che sarà una sua caratteristica; una gioia semplice, incantevole, serena, costante, affascinante, una gioia pasquale, quella di cui aveva parlato Gesù: “La mia gioia sia in voi”4.
San Domenico Savio dirà a chi gli chiedeva il programma della loro vita all’oratorio: “Noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri”. È questa la regola grande di don Bosco che non voleva mai tristi i suoi ragazzi. Li voleva nella gioia; per questo diceva: “Rimanete sempre in grazia e abituatevi a scoprire il bello attorno a voi”. Li abituava ad amare e ammirare la natura. Faceva loro notare lo scintillio delle stelle, la vista inattesa di un prato pieno di fiori, a coltivare il senso del mistero e della meraviglia che diventa senso di umiltà e di riconoscenza a Dio Creatore.
Li abituava a sentire la gioia della vita di famiglia, la gioia dell’affetto dei propri cari, il tepore del rimanere in casa nello scambio dei sentimenti e delle premure.
Don Bosco insegnava a trovare la gioia nell’amarsi scambievolmente di un amore umano e cristiano, la comunione dei santi, la gioia di sentirsi fratelli nel Signore perché “siamo membra gli uni degli altri”5.
È un’azione, un frutto dello Spirito Santo. Far capire ai ragazzi che ognuno di loro vale molto di più se messo insieme con gli altri che non isolati. I ragazzi hanno bisogno di affiatarsi con i loro compagni per essere veramente se stessi; hanno bisogno di vivere nell’amore fraterno per essere veramente figli di Dio. Non si è cristiani per sé soli. Il vero lievito della gioia è il volersi bene.
Diceva alle volte all’orecchio dei ragazzi: Devi essere “a+b-c”. Significa: allegro, più buono, meno cattivo.
Perché fossero nella gioia i ragazzi li voleva sempre attivi.
Insegnava a non lasciarsi mai andare all’ozio, un pessimo consigliere. Lasciare un ragazzo senza occupazione è darlo in mano al nemico, il demonio. Sono sue queste parole: “Il laccio principale che il demonio tende alla gioventù è l’ozio, sorgente funesta di tutti i vizi. Persuadetevi adunque che l’uomo è nato per il lavoro e quando desiste da esso è fuori dal suo centro e corre un grande rischio di offendere il Signore”.
Nell’aprile del 1864 a Torino don Bosco aveva appena terminato un corso di Esercizi Spirituali ai suoi ragazzi. Ne uscirono con una freschezza di gioia nel cuore. Ma, come spesso succede dopo gli Esercizi Spirituali, c’era stato un improvviso crollo della loro vita spirituale. Il demonio scacciato fuori aveva scoperto (come dice Gesù6) che la casa era pulita, spazzata, adorna ma vuota e allora con sette spiriti peggiori tentava di riprenderne possesso.
Don Bosco ebbe due sogni.
Raccontò: “La notte che precedeva il 3 aprile, mi pareva di stare dal balcone a guardare i ragazzi che si divertivano in cortile. All’improvviso vidi apparire un vasto lenzuolo bianco che si stese a coprire tutto il cortile: i ragazzi continuavano a giocare e a gridare. Poi vidi molti uccellacci e spaventosi corvi svolazzare sopra quel lenzuolo cercando un varco. Appena lo trovavano picchiavano addosso ai giovani e li beccavano. Ogni volta che raggiungevano i ragazzi ne facevano strage: a chi cavavano gli occhi; ad altri bucavano la lingua tanto da ridurla in frammenti; ad altri andavano beccando la fronte, a molti straziavano e laceravano il cuore. E, cosa strana, nessuno dei ragazzi feriti reagiva; tutti restavano come insensibili, non cercavano neppure di difendersi. Subito dopo udii un gemito corale, straziante, prolungato: i feriti dai corvi si agitavano, gridavano e si ritraevano lontano dagli altri. Mentre stavo ragionando su quello che vedevo, udii suonare alla porta e mi svegliai…”.
Dieci giorni dopo sognò: “Mi pareva di trovarmi presso la ringhiera. Di lassù vedevo i ragazzi feriti dai corvi. Ed ecco vidi un Personaggio con un flacone di balsamo, un medicinale meraviglioso, accompagnato da un individuo che teneva in mano un pannolino. I due pietosi samaritani cominciarono a medicare le piaghe dei feriti: appena spalmavano l’unguento, i feriti guarivano di colpo. Ne vidi alcuni però che all’avvicinarsi dei due prodigiosi infermieri si scostavano e fuggivano perché non volevano essere guariti. Io li conosco tutti e procurerò di sanare le loro ferite”.
Il Personaggio misterioso era Gesù; chi l’accompagnava era il sacerdote.
Quando i ragazzi sono piagati dal peccato che toglie loro la sanità e la gioia, occorre accompagnarli a Gesù che li guarisce. Se non si conducono, sopravviene la cosiddetta «stanchezza» o ferita da motivazione. Sotto l’impatto della colpa l’entusiasmo svanisce, non hanno più gusto del lavoro, sembra più semplice il rifugiarsi in una specie di fuga piuttosto che rafforzare la loro volontà. È una forma di cedimento e di crollo. I conflitti emotivi li spingono all’inazione e la loro profonda stanchezza diventa una specie di difesa del loro animo contro una situazione morale difficile e scabrosa.
Bisogna far conoscere ai ragazzi che Gesù è una dolce presenza. E così è aiuto e difesa la presenza dell’educatore. Don Bosco sente di rappresentare questo amore di Dio, di dover esprimere fedelmente e di incarnare concretamente l’amore salvifico per i suoi ragazzi; sente che la sua presenza è il mezzo immediato e tipico della sua santità, perché la sua presenza era una presenza mediatrice, «sacramentale», di trasparenza, una presenza religiosa nel senso pieno della parola, che supponeva l’unione con Dio, con Gesù vivo, con Maria vicina, ma anche la esprimeva e la provocava a svilupparsi sempre di più.
Da questo tipo di presenza è sorto il sistema preventivo, il quale può essere letto nella sua realtà più profonda: la santità vissuta di don Bosco tra i giovani. Ecco la sua paternità, che vive e raccomanda ai suoi collaboratori.
Fu un vero padre per i suoi ragazzi e per essi sacrificò tutto, anche la vita.
Attualmente vi è la contestazione della paternità nel mondo giovanile ribelle. Dal 1968 ci si ribella al padre politico, al padre culturale (i professori), al padre capitalista (i padroni), al padre religioso (i preti), al padre biologico (i genitori), e a Dio stesso, sotto il nome e la figura di Padre. Jean-Paul Sartre l’aveva teorizzato in un suo scritto: Les Mots.
Don Bosco al mondo di oggi presenta la figura dell’educatore come padre. Non sarebbe riuscito se non avesse avuto il cuore di padre. La sua vita manifesta una bontà che va oltre quella umana, che si appropria dei sentimenti stessi del cuore di Dio. La sua vita è un trattato completo della paternità, è ancora il suo grande messaggio. Tutti quelli che esercitano una paternità secondo la carne o secondo lo Spirito capiscono la ricchezza e lo splendore cristiano della loro paternità che esige una forte vicinanza con Dio.
Don Bosco fu padre ma non ebbe niente di paternalistico, cioè quando la paternità si viene a mescolare con il godimento egoistico, quello del dominio o quello della superiorità del benefattore sul beneficato.
Il principio informatore del sistema preventivo sta qui: il fondamento dell’amore.
Fece un obbligo ai suoi di non lasciare mai soli i ragazzi, di rimanere sempre con loro nello studio come nel divertimento, a pranzo come nei giochi. Non per sfiducia, non per pedanteria; per amore: per aiutarli.
Ai suoi tempi, l’arte dell’educazione era praticata da alcuni sotto l’ispirazione del Naturalismo pedagogico, che faceva capo alle dottrine ottimistiche di Rousseau, mentre altri si ispiravano ad un rigorismo giansenistico. Don Bosco prese in mano il Vangelo e lo applicò da santo. La carità e l’amore.
Il sistema preventivo non consiste solo nel non picchiare o maltrattare ma nel vivere con amore insieme ai ragazzi. L’educatore non deve rimanere in cattedra ma partecipare a tutta la vita e agli interessi. “Ognuno – diceva – procuri di farsi amare, se vuol farsi temere […]. Essendo amati in quelle cose che loro piacciono con il partecipare ai loro giochi, imparino a vedere l’amore in quelle cose che loro piacciono meno naturalmente: la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi”.
Con ciò don Bosco non aboliva ogni specie di castigo, ma solo che fosse scelto con saggezza e adeguato al fine che si voleva ottenere; il castigo non tanto in un danno o dolore positivo quanto piuttosto in una privazione di benevolenza da parte dell’educatore. Educare vuol dire dare fiducia.
Don Bosco otteneva tanta fiducia perché l’accordava pienamente: “Mi basta che siate giovani perché vi ami” ripeteva loro e faceva capire che nella loro generosità poneva ogni fiducia. Coloro che lo seguivano più da vicino li educava e allenava all’audacia di san Paolo: “Posso tutto in Colui che mi dà forza”7.
Il leader mediocre, a chi gli propone una nuova impresa, domanda sospettoso: “E perché?”; il capo di valore invece incoraggia così: “E perché no?”. Don Bosco, fascinoso leader dei giovani, pieno di fiducia nelle loro capacità di realizzazione, insegnava loro la meravigliosa arte di saldare la bontà con il coraggio. Il coraggio senza la bontà rende delinquenti; la bontà senza il coraggio rende deboli. La bontà e il coraggio fan vivere in pieno la giovinezza.
Don Bosco con sant’Agostino8 diceva: “O giovani, volete rimanere giovani? Seguite Cristo”.
E, in particolare, cosa direbbe ai nostri giovani, che cosa direbbe agli educatori di dire?
1) Ricordate ai giovani il senso della loro esistenza. Il nostro mondo, perdendo la fede, ha perduto il senso dell’esistenza. Buttano via la vita propria e altrui con leggerezza e indifferenza.
Ricordate – ci direbbe – che il problema non è come vivere, ma perché vivere. Tanti filosofi dicono ai giovani: “Tu sei il frutto del caso. La vita sbocca nel nulla”. Don Bosco ricorderebbe: “La vostra vita è cosa preziosissima e grande. Viene da Dio e va verso di Lui. Gesù Cristo ci ha salvati. Questa vostra vita, unica, che tenete nelle vostre mani, conducetela bene. La vita ci è data come una strada da percorrere verso la gioia eterna e come un impegno di costruzione della storia del mondo, da far riuscire insieme. La vita ci è data per amare e servire Dio come Padre e gli altri come fratelli”.
Don Bosco ci direbbe ancora di ripetere alla gioventù che diventi libera; per amare veramente bisogna essere liberi. Direbbe di imparare a pensare e ad agire con la propria testa, e con la propria vedere senza subire tutti i condizionamenti che pone la nostra società, senza i condizionamenti che pone all’interno l’egoismo, l’orgoglio, la sensualità; tutte cose che ci impediscono di saper amare e di saper servire. Solo così resisteranno alla società dei consumi, alle opinioni di moda. Solo così diventeranno se stessi.
Direbbe loro che abbiano l’umiltà di farsi aiutare; senza una vera devozione non è possibile riuscire. San Domenico Savio diceva: “I miei amici saranno Gesù e Maria”. Gesù è il Figlio di Dio che si è fatto uno di noi per essere vicino a noi. L’entusiasmo per la sua meravigliosa Persona.
Oh, guardino a Maria perché hanno bisogno della presenza di questa tenerissima madre. Delinquenze, ribellione, nevrosi, psicopatie, atteggiamenti antisociali vengono da una mancanza di amore nella grande maggioranza o da una instabilità emotiva derivata dal non aver incontrato la «Tutta Luce», la «Tutta Pura», la «Tutta bella», che è Maria. A ogni ragazzo è indispensabile il sorriso della Madonna. Se si riesce a farglielo capire, fosse solo per un istante, tutta la vita ne resta illuminata.
Perché il sorriso di Maria è un sorriso di bontà, di tenerezza, di misericordia, cioè di amore.
2) Insegnare loro di vedere l’aiuto prezioso che possono avere nei loro educatori, genitori, maestri, insegnanti. Devono avere in loro una vera fiducia. Devono amarli e aprirsi al dialogo con loro.
3) Che si aprano alla vera amicizia. L’amicizia è uno strumento meraviglioso di crescita personale.
Mettersi insieme per fare qualche cosa che vale.
E a noi educatori che cosa direbbe?
Di sentire profondamente la nostra dignità e il nostro compito impegnativo, il più complicato che esiste, senza lasciarci prendere dalla sfiducia, dalla stanchezza, dall’avvilimento, dalle interferenze stonate. I ragazzi devono capire che noi vogliamo bene non per quello che fanno o per quello che non fanno, ma per quello che sono. Disapproviamo quello che di sbagliato fanno, ma apprezziamo quello che loro sono e abbiamo fiducia che possano diventare veramente validi secondo le loro qualità.
Termino con un episodio. Un giorno don Bosco va dal barbiere. Appena dentro, nota un garzone ancora bambino; inizia subito la conversazione. Educare vuol dire dare fiducia e aver fiducia e don Bosco offre subito la sua fiducia: “Bravo bambino; voglio proprio che sia tu a farmi la barba”. Interviene il padrone: “Per carità, Reverendo, non si arrischi. Questo ragazzo è appena capace di radere la barba ai cani”. Don Bosco: “Se non fa la prova, non imparerà mai…”. “Lo farò esercitare sulla pelle di un altro”; “Oh bello! La mia barba è forse più preziosa di quella di un altro? Del resto, guardi che io mi chiamo Bosch, che in piemontese vuol dire «legno». Quindi la mia barba è di legno. Purché il nostro amico non mi tagli il naso, il resto non conta!”.
Sotto le mani inesperte e tremanti don Bosco deve rimanere e trattenere ora il pianto e ora il riso, poi nello specchio ammira sulla propria faccia una bella carta geografica. Dà una buona mancia al suo barbiere e si congratula con lui: “Bravo, diventerai un famoso barbiere”.
La domenica seguente Carlino9 già fa parte dell’Oratorio. La sua vita sarà segnata: diventerà una bravissima persona e realizzerà tutte le sue qualità.
Quante cose potranno succedere anche a noi, che ci costeranno dolore o ci muoveranno al riso; anche la nostra anima potrà assomigliarsi alla faccia di don Bosco. Ma val la pena: è la nostra grande missione.
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