246. Il sacerdote «oggi»1
Siamo in un tempo nuovo e si propone con insistenza la validità non solo di nuovi modi di presenza del sacerdote, ma addirittura di esistenza. Quanto più il mondo restringe e comprime il limite del divino, tanto maggiormente appare agli altri l’anacronismo della presenza del sacerdote e il sacerdote si interroga sulla sua funzione e sul modo di esercitarla. Siamo in una profonda crisi.
E in un certo senso è una cosa normale e naturale.
La grande trasformazione delle strutture sociali con le connesse modificazioni culturali e psicologiche coinvolge pure il clero come «categoria sociale».
Quale l’impostazione che ne si dà. Si dice: di mentalità e di formazione paternalistica, il clero è stato portato a costituirsi, nella società rurale prima e in quella medio-borghese poi, come una casta caratterizzata dalla nota di sacralità in una società sensibile al richiamo del sacro e in una società sempre più laica e laicistica. Di qui la crisi e il parlare di una «declericalizzazione» del prete o della «secolarizzazione» del prete.
Preti che parlano e dicono di sentirsi come dei «sopravvissuti» in un mondo che è andato avanti, che non sanno come inserirsi nel mondo di oggi, che si considerano inutili in una società che li tiene ai margini.
C’è stata una grande polemica e una grande discussione. In questi ultimi tempi si sono scritti più di cento volumi. La stampa ha fatto inchieste per suo conto e il pubblico si è dimostrato avido di conoscere le condizioni del prete di oggi, le reazioni ai tempi nuovi di questo uomo dalla figura complessa, che è un uomo ma diverso dagli altri, che sta nel mondo ma non è del mondo.
Si sono fatti dei sondaggi tra i fedeli e tra i preti stessi. Si è insistito particolarmente sul celibato, poiché oggi il sesso è di moda, e si è tirata la conclusione che la crisi del sacerdozio è data dal suo celibato, dalla sua solitudine.
Un discorso che non è vero, perché hanno la crisi anche i protestanti e gli ortodossi.
Come sarà il sacerdote di domani?
Sarà necessario «essenzializzare» i compiti e purificare la mentalità e il modo di operare del prete.
Si dice di mitizzare il prete. Ma egli non deve dimenticare la sua dimensione sacra.
Se si dissolve la casta, si ha da costruire la comunità sacerdotale. La comunità è l’opposto della casta: questa divide e chiude, quella associa e unisce nell’apertura alla unione con gli altri gruppi nella coscienza della comune umanità.
Il segno della casta è il privilegio, quello della comunità è la solidarietà e la disponibilità.
Sul piano storico-sociologico i vescovi hanno fatto parte a sé o hanno fatto parte con il clero.
Spesse volte si è potuto notare un notevole distacco tra il vescovo e il suo clero oltre che con i fedeli.
Paolo Vi ha parlato con profondità e finezza psicologica del «cuore» del vescovo e dell’amicizia con i suoi sacerdoti (Cfr Lumen Gentium, 28. 3552; Christus Dominus, 28. 647-6483; Presbyterorum Ordinis, 7).
La scoperta dell’auto-decisione e della auto-creazione mediante la capacità tecnica e scientifica, la penetrazione nelle leggi dello sviluppo storico e delle possibilità umane di auto-decisione ha portato il mondo in una situazione desacralizzata; cioè l’uomo non accetta e stima le cose perché su di esse si distende il velo del mistico sacrale, ma in quanto rappresentano per se stesse un valore assumibile nell’esperienza e nella crescita umana.
L’ordinazione sacerdotale non può più rappresentare la deputazione alla capacità di sacralizzare la realtà profana, così come il sacerdote non è più visto come lo stregone del villaggio che conferisce alle cose profane e peccaminose il loro valore sacro, purificandole dalla loro peccaminosa profanità.
Il profano è concetto pagano che viene completamente rovesciato dalla logica della Incarnazione, dato che il tempo è il corpo glorioso del Risorto, è il corpo formato da chi in Lui è innestato mediante la partecipazione battesimale al suo Mistero Pasquale.
Piuttosto la capacità di vivere la realtà della sua vita storica come realtà salvifica.
Delineata la nuova fisionomia del prete, resta da vedere le sue particolari attività.
Quello che conta è l’«incarnarsi», il che determina una scelta chiara e consapevole di vita.
La prima sensazione che si ha di fronte a molta nostra gente di oggi, soprattutto gli operai, è di trovarsi a disagio noi, e che siano ancora più a disagio loro.
La nostra vita, la nostra cultura, i nostri interessi, la nostra fede ci caratterizzano e ci separano dagli uomini. Ci riesce difficile percepire le sfumature del loro linguaggio, le componenti della vita di ogni giorno, cose semplici, lontane da schemi culturali, genuine e profondamente umane e in molti casi lontane da ciò che noi chiamiamo fede, religione.
Soprattutto con gli operai è la cultura che ci separa. L’operaio non ha cultura, non sa parlare, ragiona con le mani; noi con le nostre categorie. La vita dell’operaio è segnata dalla fatica fisica.
Chi ha condiviso la vita, ne sa qualcosa. È il provare fatica a riflettere. Il lavoro manuale prende per sé ciò che c’è di meglio nell’uomo, la maggior parte delle sue energie, frustrando spesso le doti morali e intellettuali. L’operaio in fabbrica non è più un uomo, è il numero tale o il pezzo tale dell’ingranaggio produttivo. Non c’è più «personalità».
In queste condizioni non si riesce più a pensare, a prendere coscienza della propria condizione. A questo punto tutto minaccia di essere compromesso: la dignità di queste persone, i loro valori, la loro fede, la famiglia. Quando si è spossati da un lavoro spersonalizzante, la cultura, la fede, la cura della famiglia diventano un lusso. È importante per noi entrare nella vita dei poveri di oggi.
È uno dei modi, forse fra i più radicali, di realizzare oggi il comandamento dell’amore. Come Cristo.
Lo vogliano o no, i preti di fatto appartengono a una classe: sono con coloro che comandano, che hanno i soldi, una cultura. Esistono le classi perché esiste la concentrazione del denaro, del potere, un certo tipo di cultura. E queste cose sono in mano a pochi mentre dovrebbero essere di tutti. Ci sono degli esclusi.
La lotta, lo scontro diventa inevitabile.
Sta a noi farci trovare dalla parte giusta, dalla parte di Cristo, dalla parte di coloro che soffrono, che non sanno nulla delle beatitudini, ma le vivono.
Il prete deve realizzare con gli uomini una comunione di vita. Vogliamo essere fedeli alle nostre origini, non sistematicamente sradicati dal mondo dei nostri simili, dalla loro condizione sociale e dal loro tipo di vita per essere immersi automaticamente in una data classe (Seminaristi, operai di Torino). Lo choc dei preti che andavano a lavorare. Prima i preti conoscevano il mondo operaio dal di fuori e la Chiesa dal di dentro. Al lavoro scoprivano a poco a poco il proletariato dal di dentro (sofferenza, ingiustizie, responsabilità, complicità), sperimentavano le ricchezze reali del lavoro e le seduzioni della lotta operaia; e vedevano la Chiesa dal di fuori, con gli occhi dei compagni di lavoro.
Uno choc, una ubriacatura. Il ruolo del prete – pensavano – è innanzitutto di fare la giustizia e la rivoluzione (in stretto contatto con i comunisti) e in seguito di annunciare il Vangelo. È la stessa che provò Gesù dopo la moltiplicazione dei pani (“Sii nostro Re”4), nel deserto, nel Getzemani, ma la rifiutò.
La lotta politica non è cattiva in sé, ma non è il ruolo del prete.
Tre linee:
a) Comunità di destini; lo sforzo di far camminare con un altro; abbandonare una condizione di rispetto e di tranquillità per entrare tra la gente e condividere la condizione operaia. Essere come loro. Ma fin dove spingere questa comunione? Evidentemente non si potrà mai essere in tutto uguali ai più poveri, se non altro perché questa condizione l’avremmo scelta e infine perché vi entreremmo con la nostra cultura (Sposare una donna per essere uguali è ridicolo).
Le differenze sono inevitabili.
Essere felici insieme, e sofferenti insieme, ma rispettando le differenze.
b) Abbandonare tutti i sistemi protettivi e scavalcare il muro. Fuori dalla conchiglia per farsi una spina dorsale.
Farsi una fede non più coordinata all’ambiente, ma nell’interno del cuore. Una colonna vertebrale interiore fatta di preghiera, di studio della Parola di Dio, di attenzione al Piano di Dio.
c) Valore delle équipes.
Maturità umana, equilibrio, affettività equilibrata; vivere al di fuori di schemi; disimborghesimento.
Partecipazione della Chiesa allo sforzo di liberazione degli operai.
Evangelizzare non è un’azione sociale, non è essere onesti, non è andare verso gli uomini, non è portare l’ordine delle cose. Tutte queste sono cose utili e necessarie, ma non sono attività evangelizzanti.
Evangelizzare è annunciare la salvezza che viene da Cristo, è testimonianza della nostra fede nella comunità. Attende da noi l’annuncio diretto del Vangelo.
Una volta: una Fede ereditata, con una maggioranza;
vi era una società di civiltà stabilita, società religiosa, cultura religiosa;
famiglia praticante;
si mantiene viva attraverso atteggiamenti collettivi che si esprimono nel culto liturgico e nella pratica religiosa;
è sostenuta dalla Parrocchia e istituzioni.
Oggi: una Fede, opzione personale, a cui perviene una minoranza;
in una civiltà tecnica, una società aconfessionale, una cultura pluralistica;
una famiglia più dispersiva;
questa fede si scopre attraverso una ricerca individuale e solitaria che si appoggia sulla parola di Dio e sulla conversione;
piccola comunità, intensificata catechesi.
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