251. Salmo 37
9 aprile 1980
Il Salmo esprime l’angoscia di chi ha peccato e sente la mano di Dio su di lui. La descrizione è forte e plastica. Si assomiglia alla paurosa sofferenza di chi, malato, non ha più forze e si sente in una solitudine di abbandono.
La tentazione è terribile: Dio mi perdonerà? Il suo perdono sarà totale? Mi restituirà la sua amicizia? È lo stesso interrogativo di chi, infermo, si sente “afflitto e sfinito all’estremo”1, le forze lo abbandonano e si spegne la luce degli occhi.
La risposte è sicura e luminosa: Dio risponde. “In te spero, o Signore!”2.
Vi è un modo di piangere i peccati che stanca, rende inattivi e ferma. I fallimenti che si susseguono ad altri fallimenti, il rompersi inesorabile di propositi che sembrano solidissimi porta alla sfiducia e all’amarezza. La desolazione prende l’anima e dopo essersi pentiti non si è più robusti ma più avviliti.
Il Salmo ci avverte del vero dolore che non deve ridursi a una parata funebre ma ci deve far conoscere meglio Dio e la sua infinita misericordia e donare una conoscenza più serena e equilibrata di noi stessi. Quando si è sperimentata la bontà del Signore, la riconoscenza in noi si fa amore forte e generoso.
Allora avviene anche una nuova visione delle cose che si ha, appunto, attraverso le nostre lacrime. Allora si diventa più prudenti e più saggi, si valutano meglio le situazioni e le persone. Il vero pentimento edifica e non deprime, è coefficiente di una vita forte e donata fino in fondo.
Occorre insistere sul pentimento: certamente, ma sul vero pentimento, non sul pentimento che è rabbia di un orgoglio ferito e sconfitto. Il pentimento che sa umiliarsi e persuadersi che è possibile la vittoria, ma non con le nostre forze, ma andando sempre da Gesù, perché Lui solo può vincere, e vuole vincere perché ci ama ed è sempre pronto a prestarci tutto l’aiuto possibile. Lui ci ama e non esclude nessun peccatore dalla via della sua tenerezza e dalla via della santità.
Nessuna colpa pone l’uomo in uno stato di paralisi se nel Cuore del Salvatore si trova il perdono. Da peccatori a santi. Questa è la sua onnipotenza, questa è la sua immensa bontà.
“Perché io sto per cadere e ho sempre innanzi la mia pena”3. La sicurezza non è della sola purificazione, ma è della sua assicurazione per il futuro, della sua vigilanza, della sua attenzione perché il bambino non si faccia male.
Anzi, Lui apre la strada perché il bambino sventato si faccia saggio, impari il cammino e cresca e salga verso le vette della santità. Ecco, noi dobbiamo credere alla santità. Noi abbiamo bisogno di santità nella Chiesa.
Noi dobbiamo credere a Dio che non abbandona, a Dio che nei momenti più difficili e cruciali della storia ha moltiplicato i suoi santi, i suoi grandi santi. Le riforme vanno bene e vanno bene anche certe forme di contestazione, ma niente si farà se non vengono tanti santi.
Ritorna la preghiera di Santa Giovanna d’Arco in Peguy: “Mio Dio, se i santi e le sante non sono stati ancora abbastanza, inviatene altri, inviatene quanti ne bastano, inviatene tanti finché il nemico non si stanchi. Noi li seguiremo, mio Dio. Faremo tutto ciò che vorrete. Faremo tutto ciò che vorranno. Faremo tutto ciò che ci diranno da parte vostra. Noi siamo vostri fedeli; inviateci i vostri santi. Se ci inviaste, se solamente voleste inviarci una delle vostre sante”4.
La santità vera: alla quale noi stessi siamo chiamati nonostante i nostri peccati, quella santità che è lo scopo unico della vita, della missione che nella vita stessa dobbiamo compiere se amiamo veramente gli altri, se vogliamo efficacemente collaborare al bene del mondo. Fa più un santo che un numero grande di mediocri.
La grande carenza sta proprio qui. Abbiamo bisogno di santi; il mondo langue perché non ha dei santi numerosi. Vi sono troppi oggi che contestano, che si erigono a maestri e a teologi, che vogliono insegnare a tutti, al Papa e ai Vescovi. Ma il nostro bisogno sono i santi che contestano se stessi e lavorano nel servizio crescendo nell’amore e diffondendo l’amore.
Prima di riformare gli altri, dobbiamo riformare noi stessi e porci fedeli alla Chiesa e docili alle sue direttive. Abbiamo bisogno di santi. Leggiamo una pagina del Concilio (Lumen Gentium, 40): “Il Signore Gesù, Maestro e Modello divino di ogni perfezione, a tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato quella santità di vita, di cui Egli stesso è autore e perfezionatore: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste». Mandò infatti a tutti lo Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il cuore, con tutta l\'anima, con tutta la mente, con tutte le forze, e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro. I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. […]. È chiaro dunque a tutti che i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità”.
La santità perciò ricercata nell’intimità e nel segreto della nostra anima senza clamori esterni.
Un segno sicuro della santità è questa umiltà per cui si è veli ai propri occhi e si cerca con tutti gli accorgimenti di nascondere quello che Dio ha profuso. In questo totale abbandono a Dio, di cui parla il Salmo, in questa dipendenza trepida: “Non abbandonarmi”5. La santità vera è questo permettere a Dio di invadere continuamente la nostra anima, di fare tutto quello che vuole senza frapporgli nessun ostacolo. Non sono i grandi gesti esterni occasionali che fanno la santità. È lo svuotamento della nostra volontà propria, cioè del nostro egoismo, che permette allo Spirito il lavoro di santità. Ogni momento è per la santità: è una scelta della volontà di preferire Lui, la sua parola, la sua vita, il suo amore. È rinuncia e conquista.
Gli Angeli e i demoni erano della stessa natura; è stata questione di un «sì» o di un «no» e sono cambiati per tutta l’eternità. Noi che siamo nel tempo dobbiamo, momento per momento, in tutta la vita, fino all’ultimo, pronunciare il «sì» al suo progetto. Ci si santifica vivendo così in pienezza e dando alle medesime cose di ogni giorno un senso nuovo, una nuova direzione interiore anche alle cose più insignificanti. Tutto deve essere in tal senso straordinario.
L’abitudine è una legge che vale solo per chi si sottrae al dinamismo della volontà di Dio. Chi è continuamente a contatto con la volontà di Dio ogni giorno è nuovo, ed ogni sua azione è nuova perché è compiuta da un nuovo contatto con la volontà di Dio. Dobbiamo avere quel senso di distacco dalle cose, che non è indifferenza ma capacità di dare a ogni cosa, ad ogni gesto, il suo significato. Solo così sfuggiamo a quello che il mondo chiama l’assurdo quotidiano perché uniti a Dio nella collaborazione al suo piano misericordioso di salvezza. Anche noi siamo non solo interessati, ma parte viva: Dio ci vuole con Sé, “Adempio nel mio corpo ciò che manca alla Passione del Cristo”6. È qui il segreto della pienezza che dobbiamo vivere, della gioia che non tramonta.
È triste chi si attacca alle cose e sa che le cose passano, che tutto è vanità e tutto è insicuro e, se fosse sicuro, non darebbe che noia. I momenti di tristezza possono venire quando non si è pienamente abbandonati a Dio. Più uno è santo, più è contento di una felicità incontenibile.
Non vi è nulla di più bello di Dio, e Dio non passa e non tramonta mai. Dio non può esserci tolto da nessuna forza umana, da nessun cataclisma.
Ecco perché il Salmo termina con: “Signore mia salvezza”7. Nell’adesione nostra piena al Vangelo, al Vangelo quale è stato compreso e vissuto nella Chiesa, troveremo la ricchezza vera della nostra esistenza e la lotta contro le nostre malsane passioni, le costanti dell’ascensione nella preghiera, nell’amore di servizio del prossimo, nell’umiltà, nella pratica generosità di ogni giorno.
L’amore alla Croce di Cristo distruggerà il nostro peccato e ravviverà ogni giorno la nostra speranza.
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