251. Salmo 48
25 febbraio 1981
Il Salmo sottolinea la relatività dei beni della terra e come è illusorio confidare in essi. Vi è tutta una teologia sulla ricchezza e la povertà.
È venuto Gesù a insegnarci come dobbiamo considerare le ricchezze: “Dove è il tuo cuore ivi è il tuo tesoro”1; “Non accumulate tesori sulla terra dove ecc...”2; “Che cosa giova all’uomo guadagnare ecc...”3; “Beati i poveri in spirito ecc...”4. Noi diciamo allora che non c’è solo per un cristiano la virtù della castità che deve essere amata e osservata, c’è pure la virtù della giustizia da realizzare e promuovere insieme alla carità.
“Dio - dice la Gaudium et Spes (69) - ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, essendo guida la giustizia, assecondando la carità”. “Dovere di ogni uomo, dovere impellente del cristiano è di considerare il superfluo con la misura della necessità altrui e di ben vigilare perché l’amministrazione e la distribuzione dei beni creati venga posta a vantaggio di tutti” (Giovanni XXIII5). Recentemente Giovanni Paolo II nelle Filippine ha detto: “Qui a Tondo, ed in altre parti di questa terra, ci sono tanti poveri e in loro vedo i poveri in spirito che Gesù chiama beati. I poveri in spirito sono coloro che tengono i loro occhi su Dio ed i loro cuori aperti alla sua azione divina. Essi accettano il dono della vita come un dono che viene dall’Alto e lo apprezzano perché viene da Dio. […]. Essere poveri in ispirito non significa disinteressarsi dei problemi della comunità, e nessuno ha un più acuto senso della giustizia della gente povera che soffre le ingiustizie. […]. La prima beatitudine indica un sentiero che ciascun individuo deve percorrere. Essa dice a coloro che vivono in una povertà materiale che la loro dignità deve essere difesa, che i loro inviolabili diritti umani devono essere salvaguardati e protetti. […]. Dice al ricco, che gode del benessere materiale o che accumula una parte spropositata di beni materiali, che l’uomo è grande non per ciò che possiede, ma per ciò che è; non per ciò che ha ma per ciò che divide con gli altri. Il povero in ispirito è l’uomo ricco che non chiude il suo cuore, ma affronta le intollerabili situazioni che perpetuano la povertà e la miseria di tanti costantemente affamati e privati delle loro legittime possibilità di crescere e sviluppare il loro potenziale umano. […]. Povero in ispirito è l’uomo ricco che non si concede riposo fino a che un suo fratello o una sua sorella è avviluppato nell’ingiustizia e nell’impotenza”6 (18 febbraio 1981).
Resta però ben fermo che lo spirito di distacco e di povertà è una virtù che deve essere conquistata da ognuno nell’intimo della sua anima. Non può fermarsi a certi atteggiamenti esteriori o alla ipocrisia di dire delle parole.
Il Salmo ricorda “il sepolcro”7, dice dunque che la vita futura è legata a come sappiamo amministrare i beni della vita presente. Parlare molto e professare la stima per la povertà ma poi condurre una vita più comoda di quelli ai quali si predica è pura ipocrisia.
Diceva uno scrittore moderno8: “Mai la povertà evangelica ha avuto tanto successo librario come oggi; ma mai però come oggi si ha l’impressione che la povertà sia una nostalgia più che una volontà effettiva di realizzarla, tanto che potremmo affermare facendo un confronto che la povertà rappresenta per il clima della vita spirituale moderna ciò che l’ideale della pace rappresenta per la sensibilità dei popoli in genere: un’aspirazione sinceramente sentita ma che si adatta molto bene a modi di agire che non sono sempre coerenti con questa aspirazione”.
Oggi si parla molto di povertà, e quando si parla molto di una cosa, è facile diventare vittime della moda e così snaturarne o anche solo comprometterne la vera natura.
Resta vero che lo spirito di povertà è la grande chiamata dello Spirito Santo alle anime particolarmente in questo tempo. La Chiesa oggi si trova davanti alla vocazione della povertà di Gesù. Dobbiamo sempre richiamarci alle parole del Signore che è necessario per entrare nel regno l’amore alla povertà. Gesù vi insiste: “«In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». A queste parole i discepoli furono costernati” (Mt 19,23-25).
Quali le ragioni.
Il denaro trasforma chi lo possiede e diventa un padrone che costringe all’egoismo. “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona”9. La divinità della ricchezza.
Dà l’esagerata sicurezza e fiducia in se stessi e non ci si accorge che la vita è effimera e tutto dipende da Dio: “Stolto, questa notte morirai”10.
Il possesso delle cose crea ostacoli difficilmente superabili. Si è invischiati. Inoltre il possedere rende orgogliosi e vuole dominare sugli altri con tutte le conseguenze: asservire gli altri, credere di avere sempre ragione, arrivare a una specie di esaltazione (“Gli altri hanno bisogno di me, la loro vita e il loro benessere dipendono da me).
Il ricco perciò deve vedersi in una posizione sfavorevole e pericolosa. Bisogna allora a noi un’educazione allo spirito di povertà.
Si è poveri nella costante disposizione alla rinuncia che ci fa liberi. Rifiutare la tirannia del denaro e considerarlo solo un mezzo. Non lasciarci strumentalizzare, avere una gerarchia di valori sempre precisa e ricontrollarsi perché altrimenti non possiamo usarlo senza essere usati, senza entrare per forza nel giro.
Convertire tutte le cose a Dio. Ricordarsi che ognuno sarà giudicato sulla fedeltà con cui ha amministrato il suo dono: il servitore fedele e prudente riceverà dal suo padrone ricompensa proporzionata, (Mt 24,45). Bisogna porre le proprie risorse a disposizione subordinandole alla giustizia e alla carità.
Non esiste vera povertà senza un dono effettivo. Non c’è spirito di povertà senza le opere. La povertà va vista come sequela di Gesù. La povertà, nel suo insegnamento, è in funzione di quello spogliamento interiore che ci pone disponibili alla azione di Dio e perciò permeabili alla salvezza, e che solo in questa tensione verso la comunione la povertà ha il suo senso.
E deve tendere alla comunione con gli uomini. Diventa quella che si dice koinonia11.
Non contrasta con il Vangelo che vi siano dei ricchi: l’inaccettabile e lo scandalo è che ci sia chi ha tutto accanto a chi non ha niente e muore di fame. Povertà allora è accettare e adempiere la legge della fraternità universale. È un prendere sul serio la legge suprema della carità. È mettere l’uomo al di sopra delle cose e il fratello al di sopra dei propri beni. È vivere distaccati dalle cose perché si aderisce nell’amore alla persona del prossimo.
Ancora, avere il senso apostolico della povertà, fare della propria vita non un uso egoistico ma strumento di testimonianza.
Ed è proprio in questo distacco che si realizza la vera serenità del cristiano: un distacco gioioso, un porre tutto in valori che non tramontano. “Dove è il tuo tesoro ivi è il tuo cuore”12.
Diceva una volta un usuraio a sant’Ambrogio: “Ma, allora, che cosa pretenderesti? Che io dia in uso il mio denaro senza riceverne un guadagno?”. “Non sia mai, non dico questo; anzi, io voglio che tu ne ritragga un interesse cospicuo, molto più alto del solito. Voglio, difatti, che al posto di oro tu lucri addirittura il Paradiso”.
Bisogna rompere tutti i fili segreti che ci legano ai comodi, agli interessi, alla vanagloria, ai piaceri. Basta dire a Gesù che noi di fatto vogliamo seguirlo e servirlo. Stacchiamoci dalla terra, dal nostro egoismo e dal nostro amor proprio. Perdiamoci in Cristo e, perdendoci in Lui, guadagnarci l’eternità. Stacchiamoci dalla pigrizia e dagli interessi mondani, e un atto di amore, un sacrificio accettato, un valore sofferto, una rinuncia per gli altri ci fanno acquistare un cuore grande che non vuole restare prigioniero delle cose ma che sale ogni giorno nella santa libertà a cui Gesù ci invita.
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