L’educazione della volontà
25 gennaio 1982
L’autorità è il servizio dei servizi. Nel ragazzo bisogna formare l’uomo e il cristiano, aiutarlo a realizzarsi. Perché se vuole, e la sua volontà diventa forte, riuscirà a vincere le difficoltà inevitabili della vita e a realizzare con la sua personalità la sua felicità.
L’amore di chi educa deve essere intelligente e perciò realistico.
Non è un buon amore quello che concede tutto e solleva da qualsiasi ostacolo. Rende il suo ragazzo fiacco e indolente, incapace di sostenere gli urti, debole di fronte alle tentazioni e ai pericoli.
L’autorità evidentemente non è per l’esercizio della superiorità, per non avere contrasti, per disporre liberamente. No, è proprio per il servizio per il loro bene, per renderli forti, e per renderli docili alle sollecitazioni e agli impulsi della grazia. Tutto lo studio del loro carattere, tutte le attenzioni e gli accorgimenti avranno questo scopo. Soprattutto il mezzo meraviglioso della preghiera con la quale ottenere sempre più grazie fortissime dal Padre dei lumi e della misericordia.
Procediamo percorrendo le età.
Cominciamo dall’inizio. Si resta stupiti come una parola che imparano presto e che usano frequentemente sia il «no». Pare che in certi periodi non faccia che rispondere «no».
Viene in casa una persona che è gentile e buona, davanti alla quale si desidererebbe fare bella figura: è proprio allora che i «no» si moltiplicano. «No» al saluto, «no» ai complimenti, «no» ai dolci, «no» a tutto. I genitori sono mortificati e si trovano su le spine.
Ma non è che non abbiano saputo educarlo e non gli abbiano insegnato i rapporti con gli altri. Ha imparato prima di tutte questa parola, e non ha imparato con altrettanta facilità il «sì». Ma non c’è da allarmarsi. Verso i tre anni il bambino conquista l’io, si sente soggetto.
Nel «no» esprime la sua difesa verso una cosa strana che non capisce, che avviene di nuovo o all’improvviso. Entra nella sua strategia di difesa.
Per dire il «sì» gli occorre una maggiore maturazione, il saper distinguere le cose, il saper vedere quelle che valgono di più. È dunque più facile il respingere in blocco che assumersi la responsabilità di accettare.
Si tratta allora della pazienza di capirlo e di aiutarlo. È un po’ alla volta il sollevarlo in braccio perché arrivi in alto.
È proprio di chi ha autorità dare sicurezza. Il bambino si deve sentire sicuro e fiducioso nell’acconsentire a ciò che gli è proposto. I suoi «sì» diventano una conquista dell’educatore. È un clima profondamente affettivo che bisogna creare. Il bambino che si sente amato e seguito un po’ alla volta capirà che non si può sottostare al capriccio - al suo capriccio -, conoscerà i suoi limiti. Si faranno notare a lui al momento opportuno.
Gradualmente si svilupperà il suo senso critico anche verso se stesso. Gli si farà capire il valore di scegliere bene, che rinunciare a certe cose vale la pena, perché se ne conquistano delle maggiori. Bisogna abituarli allo sforzo, a vincere la pigrizia, alla facile accettazione di ciò che si presenta. Che è giusto fare dei sacrifici.
Crescendo si presenteranno quelli che sono esigiti dalle necessità, dalle particolari condizioni della famiglia, dalle malattie, dalle relazioni con gli altri. È doveroso parlarne loro e insinuare l’idea del dovere. Un dovere-amore, cioè un dono. I bambini amano donare e sono felici di donare. Bisogna insegnare loro che non vi sono solo delle cose - dei giochi - da donare, ma vi sono delle cose ancora più preziose per Gesù e per gli altri.
Con una azione affettuosa bisogna far prendere l’abitudine di ciò che si vorrà più tardi. Con perseveranza, con spirito di sacrificio, insistendo senza opprimere, con intelligenza, con fiducia, senza leggerezza ma neanche con avvilimento e rassegnazione.
Insisto su questi casi, perché mi sembra che in molti casi siamo davanti a dei rassegnati che periodicamente hanno delle esplosioni di collera e ricorrono a dei castighi che si rivelano inefficaci e controproducenti.
Il bambino diventa fanciullo e comincia a rendersi conto di ciò che fa, ed è capace di decidere e di volere. Allora fermezza, ma non durezza, rigore esagerato, contro i quali si infrangono i movimenti spontanei del fanciullo. Il fanciullo agisce e collabora alla sua educazione.
Non bisogna passare dalle carezze e dallo scherzo alla severità.
Nessuna ironia e grida inconsulte. Non lasciarsi guidare dall’impulso dei nervi. Non obbligare a ubbidire immediatamente e passivamente. Non abusare con una ininterrotta litania di proibizioni. Non permettere che si discutano gli ordini; talvolta si possono dare i motivi ragionevoli. Non abusare delle punizioni. Evitare assolutamente incresciosi contrasti tra i genitori o tra questi e i maestri.
Non cose irragionevoli o superiori all’età. Non criticare i maestri davanti ai figli. Non ferire l’amor proprio del ragazzo prendendolo in giro e non ascoltando i suoi ragionamenti. Non trattarlo sempre da bambino piccolo, ma farlo partecipare alle cose di famiglia. Trattarlo con calma, con affetto moderato e guidarlo gradualmente a manifestazioni esterne di vita religiosa.
Sapere ciò che si vuole esigere e volerlo con fermezza. Saper valutare le sue forze fisiche e morali e graduare i suoi effetti. Fargli comprendere che è capace a fare molto e bene.
Unione perfetta tra i genitori. Grande sincerità e lealtà per guadagnare tutta la confidenza. Sorvegliarlo con tatto e cautela, facendogli credito per sviluppare la sua personalità.
Capire che il ragazzo non è un uomo in miniatura, ma un ragazzo, e perciò comandare cose possibili e realizzabili.
Coltivare più che mai il dolce e forte vincolo della confidenza, che dovrà essere messa a base del rispetto. Dare loro il senso della responsabilità personale e sociale. Sviluppare lo spirito di iniziativa. Deve diventare capace d’imporsi lui stesso delle limitazioni, convinto che la vita è un insieme di diritti e di doveri, di libertà e di restrizioni. Soprattutto bisogna evitare di essere ingiusti, non veri: eccessivamente rigidi ed esigenti, esageratamente facili ad accontentare e a lodare.
I primi scoraggiano gli altri, i secondi non stimolano e sono permissivi.
Il bambino si è sforzato per essere buono: “No, non lo sei stato. Ci vuole altro per dirsi buoni”. Scuola: idem. Non si è mai contenti: tanto vale essere cattivi o non studiare. Riconoscere il merito. Dare soddisfazioni. I ragazzi sentono tanto la giustizia.
Più facile invece adesso è il lodare di continuo, dimostrarsi entusiasti e abituare i ragazzi al premio e alla lode che non si sono meritati.
Non abituare i bambini a non essere mai contenti di nulla. A tavola niente gli piace: “Come la vuoi? Ancora?”, e poi: “Se non vuoi questo, c’è quest’altro”. Non dovrebbe neanche passare per la mente che si possano criticare i cibi e rifiutarli. Devono essere abituati a mangiare solo per appetito. Ma l’esempio è dei genitori che si lamentano. Anche loro si abituano brontoloni. Obbedienza, ditale. Carità, compito1.
Nell’educazione della volontà bisogna distinguere: un esercizio positivo - energia dell’azione -, e un altro prevalentemente passivo, ascetico. Nel primo caso si esercita nella pratica delle cose, nel secondo vincendo ostacoli, imparando a privarsi, resistendo agli stimoli. L’ostacolo maggiore che si incontra è la passività favorita dall’ambiente: televisione, cinema, prevalente educazione visiva, confort. Sono un grave handicap se non si usano con sobrietà e soprattutto se non si prepara lo spettatore a non stare del tutto passivo.
La mamma si mette al lavoro mentre il bambino gioca col ditale; state attenti al metodo.
Lui si mette sull’altolà per impuntarsi proprio a modo. Ha capito. Guarda la mamma che si è seduta al tavolino di lavoro, e seguita a giocare con il ditale. La mamma riprende l’esposizione della supplica: “Oh! Adesso il mio bambino è proprio bravo… La sua mamma gli dice una cosa e lui la fa subito. Vedi, gioia? Devo fare un bel grembiulino per te. Guarda quanto è bello”. La «gioia» non la guarda affatto. Veramente il gioco del ditale lo rallegra pochino; anzi, comincia perfino ad annoiarlo, ma ormai è impegnato in una protesta d’onore e ci vuol pazienza.
Intanto la mamma prosegue: “Dunque per fare il grembiulino occorrono diverse cose. Prima l’ago. Dov’è l’ago? Eccolo. Poi il filo. Ed ora? Occorre una cosa. Mi occorre, indovina? Dillo tu, tu sì che lo sai”. Lui asciutto: “Io no”. Lei, carezzevole: “Ma sì che lo sai. Ah, birichino. Fai per ridere, eh! Eccolo lì quello che mi occorre, l’hai in mano… Adesso me lo dai”. “Io no”; “Oh, sicuro che me lo dai. Prendine un altro. Un altro, vedi, non mi va bene come questo; me lo ha regalato il babbo. Via, fa’ questo piacere alla tua cara mamma”. Un’alzata di spalle all’indirizzo della cara mammina. “Ma come? E il grembiulino?”, “Non me ne importa niente”; “Oh, non è vero”, “Sì, è vero”. “Sfacciato”, “Sfacciata tu”. La mamma lascia andare uno schiaffo alla cara «gioia» e cerca un altro ditale. “Non rispondevo così a mia madre. Eppure ne ho messo della pazienza”.
Altri tempi? Altri genitori. I figli obbedienti e rispettosi ci sono ancora e sono là dove i genitori sanno farsi rispettare e obbedire. E per farsi obbedire occorrono poche parole e quella dolce fermezza alla quale non si resiste.
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