160 - L' Inferno

160. L’Inferno

1. Verrà il giorno in cui la parola di Dio si farà sentire tra il pianto e lo stridore di denti: “Via da me, maledetti, andate nel fuoco eterno”1. Cristo ha formulato questo annuncio d’un supplizio inimmaginabile in diverse riprese. L’Inferno non l’hanno inventato né la Chiesa né i predicatori d’Esercizi né i cristiani. In alcuni passi decisi e precisi, il Vangelo ha delineato i contorni della spaventosa lotta al male (p. 72).

2. L’Inferno deve essere posto nell’insieme della Rivelazione, rischiarato da altri dogmi, perché non si devono falsare le prospettive. L’Inferno non è la verità centrale del Cristianesimo, partendo dalla quale tutto si organizzerebbe sulla terra nel timore e nel tremore.

La nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità hanno un fine solo: Dio posseduto, contemplato, amato eternamente. Il nostro orizzonte è la vita eterna nel Regno. Avviene però che ogni giorno l’uomo può rifiutare questo senso della vita, negare la tendenza del suo destino, non voler tornare a quel Dio da cui è venuto. Si limita perciò a se stesso preferendosi quindi a Dio.

Il dogma dell’infelicità eterna non è che il rovescio del dogma della Beatitudine senza fine. Per gli uomini in stato di grazia la vita eterna comincia sulla terra, ma per quelli che si pongono lentamente e continuamente contro Dio, anche la morte eterna comincia da quaggiù.

La linea misteriosa che separa la Città del Male dalla Città di Dio passa ad ogni istante per il cuore dell’uomo, secondo l’amore che ispira la sua vita. Il Cielo e l’Inferno sono già in mezzo a noi. Non si tratta di spiegare l’Inferno. La Sapienza di Dio e il suo Piano sfuggono alla misura delle nostre investigazioni, ma le parole che indicano il regno delle tenebre Cristo le ha pronunciate. Bisogna accoglierle con docilità, interrogarci di fronte ad esse, e pregare perché il Salvatore ci liberi dal Male (p. 8-9).

3. Certo l’Inferno è un mistero che non spetta assolutamente a noi di sondare. Noi siamo affatto incapaci di giudicare quale punizione debba essere inferta ai colpevoli e di stabilire i diritti della maestà e della misericordia divina. Ma neppure possiamo adattarci tranquillamente all’idea dell’Inferno.

San Tommaso afferma che il male non ha una propria essenza, che è non creato (nel senso che è una privazione d’essere), non dimostra forse che l’Inferno, il sommo dei mali, è anch’esso un increato, una privazione e non un cosmo? E questo non significa affatto che l’Inferno sia una benigna lacuna, un sonno riposante, una forma di annientamento, ma come il male in questo mondo, benché a un grado infinitamente più terribile, è rottura, disgregazione, disintegrazione. È veramente un fuoco preparato per il tormento dei maledetti, ma sono gli stessi maledetti che secernono questo fuoco con la loro ribellione (p. 59).

4. La città infernale si comincia a costruire partendo dall’uomo stesso quale vive sulla terra.

Noi vogliamo soltanto affermare che l’essenza dell’Inferno è innanzitutto la sofferenza d’essere privato, e per sempre, della capacità di amare. E tale fondamentale sofferenza è il dannato stesso che se l’è scelta durante la vita terrena ed essa comanda inesorabilmente la sua vita futura. Non è all’indomani della morte che si può incominciare ad amare. Chi ha vissuto nell’odio, la morte lo cristallizza per sempre nell’odio. Di qui la rabbia incoercibile di tutti contro tutti e contro Dio (p. 59-60).

5. Nella storia del pensiero umano tra le molteplici e diverse immagini che gli uomini e i loro poeti si sono formati dell’Inferno, due concezioni in modo particolare tra loro nettamente si distinguono, l’una di carattere giudiziario, l’altra invece che potrebbe dirsi di tendenza biologica. A noi pare che questa seconda sia più conforme allo spirito del Cristianesimo. Si deve dunque dire che la grande prospettiva escatologica del Giudizio Universale deve essere cancellata?

Niente sarebbe più impossibile per la fede, dal momento che il Giudizio del mondo da parte di Cristo è uno dei grandi annunci del messaggio proclamato dal Verbo. Ma sorpassando tutte le misere prospettive dei nostri concetti e delle nostre visioni, le due concezioni dell’Inferno si fondano qui misteriosamente insieme. Difatti il giudizio pronunciato da Cristo e il castigo annunziato dal Giudice, il quale è più intimo a noi della nostra stessa anima, non possono per nulla differire dal giudizio che l’uomo posto di fronte al Giudice pronuncia su se stesso (p. 60).

6. Sarebbe inutile e morboso attardarsi indefinitamente a pretendere di sondare l’insondabile. Il problema che suscita l’Inferno non è quello della conoscenza ma quello della salvezza. Noi che conosciamo il nome del vincitore della morte e dell’Inferno non abbiamo ricevuto da Lui il dono di spiegare i misteri, ma l’ordine di seguirlo attraverso le luci e le ombre della fede per la salvezza del mondo. Il giorno del giudizio non saremo interrogati intorno alla nostra erudizione anche teologica, ma si paleserà completamente il nostro cuore (p. 61).

7. Le prime pagine della Bibbia raccontano la creazione del mondo e descrivono il Paradiso, soggiorno beato in cui Dio pose la sua creatura previlegiata, fatta a sua immagine e somiglianza. L’ultima pagina dei Libri Sacri evoca lo splendore della Gerusalemme celeste in cui Dio sarà la beatitudine degli eletti: “Essi vedranno la sua faccia e porteranno in fronte il nome di Lui. Non vi sarà più notte, non avranno più bisogno della luce della lampada né di quella del sole perché il Signore li illuminerà; ed essi regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,4-5).

Tutta la Storia Sacra è compresa tra queste due vocazioni alla felicità e non ha senso se non in rapporto ad esse. È la storia dell’umanità soccombente alla tentazione del peccato, colpevole e contaminata, che la misericordia di Dio chiama al pentimento, lava dalle colpe e conduce alla dimora, la città o il regno celeste, per i meriti di Cristo Salvatore, dono ineffabile dell’amore divino. Omnis pagina, quaecumque aperitur, hanc caritatem sonat (Sant’Agostino3).

La nozione e il fatto dell’Inferno non si possono intender bene se non in funzione di questo dato fondamentale della carità divina, chiave di volta del governo provvidenziale di fronte alle creature intelligenti.

Dio ama gli uomini e chiede ed esige da essi il libero dono del loro cuore. Se si rifiutano di corrispondere al suo amore, ipse prior dilexit nos4, non può fare altro che sanzionare una rivolta così oltraggiosa alle premure della sua grazia. Il rigore della sua giustizia sarà commisurato con le liberalità della sua misericordia. L’Inferno quindi non ha senso se non è messo in correlazione con il Cielo (p. 65-66).

8. Passi del Nuovo Testamento.

Il primo: “Tu sei Pietro […] e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa” (Mt 16,18).

Porte dell’Inferno: potenza infernale. L’Inferno, prima di essere la dimora dei dannati, è la città del male, il regno di Satana. L’Inferno è il luogo dei demoni ai quali si uniranno gli uomini esclusi dal Paradiso (Mt 25,41).

È chiamato anche Tartaro: “Dio non perdonò agli angeli che avevano peccato, ma dopo averli precipitati nel Tartaro li confinò in abissi tenebrosi” (2Pt 2,4).

I demoni chiedono a Gesù di non ritornare nell’abisso (Lc 8,31).

Nell’Apocalisse l’Inferno è paragonato all’Abisso di cui Satana è l’angelo supremo e il re (Ap 9,11). Egli ne possiede le chiavi (Ap 11,7; 17,8) e quando l’apre per scatenare nel mondo i mali dell’Inferno “uscì un fumo dal pozzo come il fumo di una grande fornace e il sole e l’aria furono oscurati dal fumo del pozzo” (Ap 9,2). Dall’Abisso sale l’Anticristo, la Bestia (Ap 20,1-3) e la moltitudine dei demoni rappresentati dalle cavallette.

Geenna è il termine abituale di cui si serve il Signore (undici volte nei Sinottici) per designare il luogo di pena dei dannati.

Vi si cade:

a) Se si manca alla fraternità: “… e chi gli dice «pazzo» sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5,22); “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli. Perché avevo fame e non ecc…” (Mt 25,41).

b) Se si è ipocriti, cioè si fa mostra di essere religiosi ma si rifiutano gli insegnamenti divini: “… lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi” (Mt 23,15); “Serpenti, razza di vipere, come potete scampare al fuoco della Geenna?” (Mt 23,33); “Lo punirà con rigore (il servo) e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 24,51); “E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli ecc…” (Mt 11,23).

c) Se si crede alle minacce e si è più attaccati alla vita che a Dio. “Vi mostrerò invece chi dovete temere: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna” (Lc 12,5; cfr Mt 10,28).

d) Se non si ha il coraggio di romperla con tutte le occasioni. Il peccatore diventa suddito di Satana. Vita eterna o Inferno: “Se la tua mano destra […] è meglio entrare monco nella vita che andare con le due mani nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede […]. E se il tuo occhio, idem” (Mc 9,43-47); “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; e chi perderà la vita per causa mia, la salverà. Che serve all’uomo guadagnare il mondo, se perde l’anima? O che cosa può dare l’uomo in cambio della sua anima?” (Mt 16,25-26); “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 17,12).

La fine dei peccatori è «perdizione»: “Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione” (Gv 17,12); “La perdizione sarà la loro fine, perché essi che hanno come dio il loro ventre si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi” (Fil 3,19).

Perire è un termine tecnico che indica il castigo infernale ed è usato costantemente nella Bibbia nel senso di distruggere, scomparire, sopprimere, sterminare, annientare, uccidere, morire (da ‘abad5, \'Ǎḇaddōn che significa luogo di perdizione; Sheol).

È come se l’anima venisse uccisa poiché viene privata della vita divina. Di qui l’espressione «seconda morte» per indicare la perdita dell’anima.

“Beati e santi coloro che prendono parte alla prima resurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con Lui per mille anni” (Ap 20,6); “Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte” (Ap 2,11); “Questa è la seconda morte, lo stagno eterno” (Ap 20,14); “Per i vili e gli increduli […] è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte” (Ap 21,8).

Rovina e beata resurrezione si oppongono radicalmente.

“Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo resusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39); “Perché si adempisse la parola che egli aveva detto: Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato” (Gv 18,9).

“Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione” (Mt 7,13).

L’Inferno è un luogo di supplizio e d’angoscia (“Tu sei in mezzo ai tormenti”; Lc 16,25), dove sono gettati i “maledetti”. I detenuti sono strettamente legati, incapaci di dibattersi, di ribellarsi, di evadere.

È il castigo eterno (Mt 25,46) che san Matteo caratterizza in sei diverse riprese con la formula “… là ci sarà pianto e stridore di denti”: “Mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 8,12); “E li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 13,42; idem al v. 50); “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 22,13); “Lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano, e là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 24,51); “… e il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti” (Mt 25,30).

Come la luce è per gli eletti. I giusti brilleranno come il sole nel regno del Padre loro (Mt 13,42); così l’empio vive nelle tenebre fin da questo mondo: “Ma chi odia sua fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (1Gv 2,11). Nell’eternità tenebre fitte: “… a loro è riserbata l’oscurità delle tenebre” (2Pt 2,17); “… ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno” (Gd 1,13).

Il contrasto è lo stesso che vi è tra Cristo e Satana: “Quale rapporto […], quale unione tra la luce e le tenebre? Quale intesa tra Cristo e Beliar?” (2Cor 6,14); “È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre ecc…” (Col 1,13).

Il tormento del fuoco. “Perché ciascuno sarà salato con il fuoco” (Mc 9,49), “… sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5,22); “… avere due occhi ed essere gettato nella Geenna di fuoco” (Mt 18,9); “Alla consumazione dei secoli verranno gli angeli e separeranno gli empi dai giusti e getteranno quelli nella fornace di fuoco” (Mt 13,50); “Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo” (Ap 19,20); “E il diavolo che li aveva sedotti fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo” (Ap 20,10); “E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco” (Ap 20,15); “Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. È questa la seconda morte” (Ap 21,8).

“Ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e buttato nel fuoco” (San Giovanni Battista in Mt 3,10).

“Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 7,19); “La scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buoni frutti sarà tagliato e buttato nel fuoco” (san Giovanni Battista in Lc 3,9); “Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile” (idem in Mt 3,12); “… ma se produce pruni e spine, non ha alcun valore ed è prossima alla maledizione: sarà infine arsa dal fuoco!” (Eb 6,8); “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano” (Gv 15,6).

È un fuoco inestinguibile. “Il fuoco non si estingue” (Mc 9,41); “… nel fuoco eterno” (Mt 25,41); “… le pene di un fuoco eterno” (Gd 1,7); “Il fumo dei loro tormenti s’innalza per i secoli dei secoli, e non hanno riposo né giorno né notte gli adoratori della Bestia e della sua immagine” (Ap 14,11).

Un fuoco che brucia e fa soffrire. È una Geenna, cioè una riproduzione di quella valle dell’Hinnom in cui gli uomini venivano gettati vivi in una fornace. Essi sono torturati dalle fiamme (cfr Lc 16,24). Il fuoco si deve intendere in un senso reale e obiettivo, anche se la sua natura testa misteriosa. Il fuoco, assai raramente ricordato come castigo escatologico individuale prima di Gesù, diventa sul suo labbro la designazione per eccellenza dell’Inferno, la sua espressione più appropriata. Non è da dirsi tuttavia che si debba puramente e semplicemente identificare quel fuoco eterno con il fuoco che noi conosciamo. Si tratta di un fuoco di natura speciale, proprio dell’altro mondo, il quale tra le altre qualità ha quella di non spegnersi mai e di conservare invece di consumare e distruggere.

La punizione dei dannati è messa dalla Scrittura in relazione costante con la giustizia di Dio: “Chi non crede al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui” (cfr Gv 3,36); “Per la tua ostinazione e il tuo cuore impenitente tu ammassi un tesoro di collera per il giorno dell’ira e del giusto giudizio di Dio” (cfr Rm 2,5); Cristo “ci salva dall’ira ventura” (1Ts 1,10); “È terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Eb 10,31).

Ci sono molti gradi nei peccati gravi; così i supplizi infernali non saranno identici in intensità, ma proporzionati alle responsabilità di ciascuno.

“Ora quel servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche” (Lc 12,47-48). La responsabilità morale è in proporzione della conoscenza. Più luce uno ha ricevuto, più severo sarà il castigo: vapulabit multis6.

Il primo castigo dei peccatori sarà essere esclusi dal regno celeste. L’Inferno consiste nell’allontanamento da Dio, nell’assoluta e definitiva impossibilità di unirsi a Lui e vivere con Lui. “Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non vi riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete...»” (Lc 13,23-28). (p. 97-100).

9. Il peccato di debolezza è una via aperta al peccato di malizia; basta che il colpevole trascuri la grazia di Dio che gli è offerta, tergiversi con la propria coscienza e tenti di scusarsi di fronte ad essa. Basta poco per arrivare ad accettare il peccato, una volta commesso per debolezza, come un atto che si giustifica, che si scusa e che la ragione ben presto giudica preferibile a Dio. A partire da quel momento, nella colpa s’inserisce la malizia e tutto è da temere. Dio senza dubbio userà longanimità verso il figlio ribelle. Egli conosce tutte le risorse che ci sono ancora in lui, tutte le possibilità di amore che restano anche nel peccatore più accanito; non trascurerà nulla per salvare quell’anima. Ma sarebbe insensato contare su questa longanimità divina mentre la morte sta appostata ad ogni svolta della nostra strada e sappiamo che essa ci fisserà irrevocabilmente nella scelta del bene o del male che avremo fatto.

È pericolosa quella presunzione che vorrebbe attingere dalla infinita misericordia un pretesto per non uscire rapidamente dal peccato. Non possiamo farci impunemente beffe dell’amore, soprattutto quando si tratta di un Amore infinito. Verrà il momento in cui l’amore, dopo essere stato a lungo schernito, si ritirerà per sempre, lasciando il peccatore alla ostinazione. Da quel momento non c’è più rimedio al peccato. All’avversione definitiva della volontà per il Bene risponde la separazione senza fine del peccatore da Dio, e all’offesa moralmente infinita corrisponde un castigo limitato per la sua intensità, ma eterno per la sua durata. Dio non sarebbe Dio e non sarebbe l’Amore, se agisse diversamente. Appare dunque chiaro che l’anima, al momento dell’ingresso nell’eternità, si fissa irrevocabilmente nella scelta che ha fatto in questa vita. Se muore nella carità, il suo amore, tutto impregnato di grazia divina, si slancia irresistibilmente verso Dio; se muore nell’avversione a Dio, la sua volontà, priva della grazia, si fissa per sempre in quell’opposizione a Dio, e non le è più possibile tornare indietro. Allora ecco le conseguenze per l’anima eletta: un amore e una felicità senza fine; per l’anima reproba, un’eterna ostilità contro Dio e un castigo eterno (p. 199).

10. La pena del danno. È la prima conseguenza la definitiva separazione dell’anima da Dio, privata per sempre della visione e del godimento di Dio, a cui era chiamata e che dovevano costituire la sua perfetta beatitudine. È giudicata la pena più grave. L’anima si era liberamente separata da Dio che la chiamava alla partecipazione della sua vita divina; essa ha una perfetta consapevolezza d’aver perduto, insieme con il possesso di Dio, una felicità assoluta e senza limiti. Essa, che ha cercato la felicità con la passione spinta fino alla rivolta contro Dio, potrà rinunciarvi senza tristezza definitivamente?

Ha sempre voluto il suo proprio interesse e egoismo: vorrebbe soddisfarli ancora. Non ha amato che se stessa e ha spinto l’amore di sé fino al disprezzo di Dio. Quando si accorge che Dio solo sarebbe capace di soddisfare la sua sete di assoluto, prova la disperazione atroce perché è respinta.

Desidera Dio perché sa che in Dio vi sono l’essere, la vita, la bontà, la bellezza; tutte cose che ama dal più profondo della sua natura. Non si può consolare d’esserne privata per sempre.

Né potrà godere della contemplazione delle cose create sul piano dell’ordine puramente naturale. Il peccato non ha offeso soltanto il Dio della rivelazione, ha violato anche le leggi naturali essenziali che uniscono le creature al Creatore. Rifiutando l’amicizia divina, ha oltraggiato pure il Signore assoluto di tutte le cose.

Il peccato offende Dio totalmente sia nell’ordine naturale che soprannaturale e il peccatore non solo è privato della felicità e dell’amicizia divina, ma anche delle gioie che potrebbe recargli la conoscenza naturale di Dio per mezzo della creazione. Le creature sfuggono al dannato e non possono dargli più nessuna vera gioia. Dio gli sfugge in tutte le maniere in Se stesso e nella sua opera. Evidentemente il dannato odia Dio perché lo tiene così diviso da Lui; ma quest’odio è in un certo senso un amore a rovescio: è l’amante che perseguita l’essere sempre amato che gli sfugge. Non è l’odio che cerca di sfuggire il suo oggetto; è l’odio che non si consola di esserne sempre diviso. Tale odio d’amore è un omaggio involontario reso a Colui che è la Bellezza, la Vita, la Luce.

Tutto l’Inferno con il suo odio proclama la grandezza di Dio; l’Inferno è per la gloria dell’Amore infinito (p. 201).

11. La pena del senso. Perché tale pena? Perché il peccato non costituisce solo avversione a Dio, ma anche attaccamento illecito ai beni creati.

Il peccatore ha deviato l’ordine della creazione: si è servito delle creature per i suoi fini di godimento egoistico. Basta considerare gli effetti nel mondo di tutti i peccati d’orgoglio, di lussuria, di gelosia, di collera, di invidia, di odio.

Già quaggiù l’uomo non può non subire le conseguenze dei suoi atti e portare l’immensa sofferenza che le sue colpe hanno introdotto nel mondo. Ma si impone un altro castigo che consiste nel privarlo delle gioie anche legittime alla quali poteva pretendere.

Il dannato ostinato nel male non ha alcun rincrescimento della colpa. Dio è tenuto verso Se stesso di punirlo in proporzione del male compiuto e di mantenerlo in questo stato di pena per tutto il tempo che durerà la sua ostinazione, cioè per sempre.

Il più importante castigo è il fuoco eterno.

È un fuoco reale. Si chiama fuoco non perché si identifichi col nostro fuoco terreno, ma perché ha una certa analogia di sofferenza. È un essere creato da Dio e destinato alla punizione dei reprobi. Ha una doppia azione: sui dannati e sulle anime reprobe, l’altra sui corpi dopo la risurrezione.

Di per sé una realtà materiale non può influire sullo spirito se non come strumento della giustizia divina.

Altre pene:

a) accecamento dello spirito che non trova nella conoscenza della verità se non motivo di sofferenza;

b) rimorso delle colpe passate;

c) la disperazione perché egli sa che la dannazione è senza rimedio;

d) l’Inferno è la città dell’odio. Sono causa di sofferenza gli uni con gli altri (p. 205).

12. L’Inferno non appare così terribile, perché ciascuno se ne esclude con la speranza. È «l’altro» che si trova all’Inferno.

13. Se studiamo il peccato nel cuore dell’uomo, ci sembra che non ci sia nessuna colpa temporale così cosciente, così ostinata da meritare un castigo eterno.

Ma consideriamo quello che, di fatto, in seguito al peccato è divinamente accaduto: l’Incarnazione. Perché la Redenzione, che è stata così crudele, se l’offesa che essa ripara non fosse stata ugualmente tanto profonda? Ci deve essere una proporzione tra il prezzo del riscatto e l’abisso del peccato; noi conosciamo il primo dei due termini, il che ci permette di misurare il secondo.

La meditazione della Passione ci porta a credere alla grandezza del peccato. Che cosa significa la parola «Salvatore» se non che la grazia ci permette di sfuggire a un male eterno, il quale di diritto ci sarebbe dovuto per l’ingiustizia del peccato? (p. 238).

14. Resta sempre aperta la questione di sapere se e quanti ci sono che soffrono eternamente. Silenzio, mistero… C’è chi dice: “Credo che l’Inferno c’è, ma è vuoto”. Nondimeno si può citare la frase misteriosa che santa Gertrude aveva sentito dal Signore: “Né di Salomone né di Giuda ti dirò quello che ho fatto, perché non si abusi della mia misericordia”.

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