253. Le tre età della Vita Spirituale
1. Spiritualmente l’uomo è veramente adulto solo se è passato nella sua anima da un atteggiamento egocentrico o espansivo ma in vista di un’autorealizzazione a un possesso di sé e delle proprie risorse rivolte verso il dono. È adulto solo se le decisioni della sua vita vengono dallo spirito, non dagli impulsi somatici o esteriori, se ha integrato le sue tendenze all’io con un principio spirituale di vita, con una finalità.
È programma di umanesimo teologale, morale dominata dalla carità, virtù del fine, e dalla prudenza, virtù dei mezzi. È il programma del sacerdozio regale, o della regalità spirituale, che consiste nell’offrirsi e donarsi e per questo nel possedersi e dominarsi, nell’essere veramente re del proprio dominio per farne un regno di Dio. E quando l’adulto possiede se stesso può fare integralmente ciò che non lo possono il bambino e l’adolescente. L’adulto è veramente qualcuno; non è soltanto ciò che lo fanno il suo corpo, i suoi genitori, il suo ambiente: egli stesso è il soggetto creatore delle relazioni alle quali è capace di dare la loro verità.
Egli è, può essere pienamente responsabile; è qualcuno a cui si può fare appello e su cui si può contare. È capace di tenere il suo posto nel proprio ambiente, nell’opera che deve compiere, nel cammino della storia, del mondo e della Chiesa. È capace di occupare seriamente un posto modesto, di assumere la propria parte di un lavoro a lunga scadenza, di evitare le impazienze e di resistere.
L’educazione a una vita adulta si farà in grande misura con la scoperta del nostro posto esatto nel mondo e nella Chiesa, scoperta seguita da corrispondenti impegni. Non impegni sublimi, ambiziosi e totali, ma reali derivanti da convinzioni provate, da una conoscenza vera di noi stessi e dello stato del mondo e della Chiesa.
Il bambino dipende, ha confidenza e abbandono: è l’età in cui la fede è facile. La scoperta delle proprie forze, che è caratteristica dell’adolescente, lo allontana da questa ricerca dei sostegni e, poiché acquista le forze separandosi, reagisce contro il suo ambiente familiare e più generalmente contro ogni autorità che avesse la pretesa di imporsi a lui, a meno che essa non gli sembri utile a quel gioco di autorealizzazione che è la sua più profonda preoccupazione. È l’età della vita in gruppo.
L’adulto assume da solo le responsabilità della vita. Lo fa per forza degli avvenimenti e non vi è più nessuno che gli dica ciò che bisogna fare. L’adulto può essere preso dal sentimento della propria potenza demiurgica, della propria sufficienza di auto-creatore. Uomini che si sono affermati, che si sono fatti una posizione, conserveranno difficilmente il sentimento di dipendenza e di infantile fiducia che è essenziale all’anima religiosa. A più forte ragione, si troveranno nell’impossibilità di credere alla presentazione un poco semplicistica dei problemi religiosi che si incontra con frequenza. Essi affermano che si tratta di cose buone per le donne ed i bambini.
Realizzare il carattere adulto e virile della fede. Il progresso della vita consiste nel rendere se stessi completamente veri, criticamente veri in rapporto a un gran numero di scelte fatte o accettate globalmente all’inizio. Non sono mai stati più uniti come sposi che il giorno del Matrimonio, ma venticinque anni di fedeltà, di partecipazione comune di gioie e difficoltà rendono più realmente sposi.
La fede ha una specie di convivenza naturale con lo spirito del bambino, egli vive continuamente di una fede. Ma che pericolo per la religione restare infantili.
2. Essere giovani. La giovinezza è prima di tutto abbondanza, esuberanza di vita. Vi è dove vi sono riserve di forze prorompenti, non intaccate, non ancora impegnate. È la vita che sale in una speranza vicina.
Dopo, nell’età, si succederanno altri valori di esperienza, di pace, di contemplazione. (“Quando si invecchia tutto se ne va, ma Dio viene”; Bazin1).
Ancora, nella giovinezza: slancio di gioia, irrequietezza, si crede alla forza della verità, dell’amicizia, dell’amore. Una certa ignoranza della prudenza e della diplomazia. I giovani sono capaci di disprezzare, di indignazione, di odio e si donano con violenza a ciò che credono vero; di qui il loro esclusivismo. Disprezzano i particolari meschini, gli atteggiamenti studiati. Nessun conformismo, nessuna tradizione. Bisogno di donarsi, di offrirsi, (il giovane ricco perdette la giovinezza dell’anima).
Al contrario, è vecchia l’anima che è gretta, che si accascia e si piega nella disillusione. La vecchiaia dell’anima è un disincantamento, un ripiegarsi del cuore e dello spirito, un’incapacità di apertura e di adattamento, un realismo gretto, sensibile solo alle comodità dell’esistenza.
Giovinezza o vecchiaia dell’anima sono giovinezza o vecchiaia del cuore, e il cuore ha l’età di ciò che ama. “Noi abbiamo l’età dei nostri peccati” (Mauriac2).
L’anima non è giovane o vecchia; essa per se stessa è fuori dal tempo, è la medesima alla sera di una vita molto pesante che al mattino del nostro battesimo. Le nostre azioni derivano da noi, ma esse ci formano, mettono in noi disposizioni, creano una inclinazione, una spinta a giudicare e ad agire in un certo senso. Formano «uno spirito», «una mentalità». Alcuni tratti così costruiti diventano dominanti, formano il carattere. Le cose penetrano in noi, entrano nella nostra vita. Attaccare il cuore ad un oggetto di questo mondo per possederlo e goderne, cessiamo di avere l’anima di un bambino (povera e libera), smettiamo la capacità di donarsi e di essere disponibili.
La preoccupazione del guadagno e del piacere rovina tutte le vite umane. La condizione di «possessori» rovina la giovinezza dell’anima. Il nemico è il verbo «avere»: ci impoverisce e ci diminuisce.
Gioiosa mancanza di preoccupazioni, il disprezzo delle carriere facili e dei comodi compromessi, la facoltà di essere conquistati e di donarsi. Chi è possessore soddisfatto di cose mediocri ha perduto l’atteggiamento essenziale della giovinezza: l’apertura dell’anima ai grandi ideali che meritano veramente il dono entusiasta di sé. Quaerite, o juvenes, Christum, ut juvenes maneatis (Sant’Agostino3). (Da Congar, Le Vie4, pag. 337 sq.)
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