Quaderno 13 - Caelum regula mea

QUADERNO 13 Caelum regula mea!1

1 “Il cielo è la mia regola”; titolo attribuito da don Pietro.

1. Per essere casa di Dio. Ubi caput reclinet “Non sa dove posare il capo” (Mt 8,20)2

I. Come ci vuole Egli cerca un’anima che diventi la sua casa: 1. ma vuole riposarsi in un amore forte e vigilante; 2. in silenzio, non vi deve essere rumore. 3. Vuole un’anima ospitale e sacrificata, 4. un’anima che sia contenta di possedere Lui e basta. 5. Che sia contenta anche se Lui tace, e sembra immobile. Purtroppo sono poche queste anime: non hanno la fede di crederlo presente, attivo, divino, quando sembra che dorma. 6. Vuole un’anima forte ma nello stesso tempo pieghevole, soave, docile, come il cuscino della barca.

II. Ostacoli Noi «invece» siamo pieni di noi stessi, rozzi, duri, pungenti, senza dolcezza. Tutti a sussulti e a scosse: non possiamo lasciarlo riposare. Il bene e il male, tutto ci agita. Abbiamo desideri di bene troppo umani; sogniamo ideali splendidi, programmi di santità meravigliosi, ma non attraverso il suo valore. E presto tutto sfuma lasciando disinganno, ferita, irritazione, disprezzo non cristiano.

III. Modo Dobbiamo far sì che la nostra anima sia casa di raccoglimento: 1. considerandola come un santuario, rispetto sommo tutto penetrato d’amore (mansionem apud eum faciemus3). Quindi raccoglimento che è un atto di fede. 2. Tenendola in silenzio, ma anche in attesa perché non si veglia il Signore come un morto ma come un risorto glorioso, che ha un’aurora che è come un mezzogiorno. Il cuore infiammato di desideri. Un raccoglimento dunque composto di silenzio, di attesa, di amore; di amore che adora e che ringrazia. Sgombrare il cuore da tutte le sollecitudini inutili e ingombranti, dalle affezioni disordinate e prepotenti, dai sentimenti volgari e grossolani. Concentrare e fondere tutti gli amori in uno solo. Evitare l’anarchia interiore, la confusione e il disordine degli affetti.

2 Le presenti riflessioni, unitamente a quelle contenute nel Quaderno 14, sono tratte con puntuale aderenza dal libro “La preghiera vissuta” di Pierre Charles, in cui il gesuita commenta novantanove passi della Sacra Scrittura. 3 “… prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). IV. Vantaggi del raccoglimento Desiderio di meritare la benedizione eterna: hospes eram, et collegistis me4. Accogliendo lui, ritroviamo noi stessi. Il riposo che diamo a Lui diventa il nostro riposo. Quando c’è il forte, tutto è in calma: in pace sunt ea quae possidet5. Conclusione – preghiera “Tibi sine te placere non possimus”6 dà le disposizioni. Accogli l’anima che ti vuole accogliere. Restare l’uno nell’altro prigionieri dello stesso amore. Fa’ che non abbiamo nessun desiderio. Che preferiamo Te, a tutti i tuoi doni. Da’ spirito di fede da considerare un favore speciale e una gioia l’averti anche se sembrerà che tu stia in noi come nel sepolcro muto e immobile.

2. La preghiera - colloquio. Caenabo cum illo7 (Ap 3,20)

Famigliarità: come durante una cena che si prolunga dolcemente nelle ore tranquille e silenziose della notte. Tenere confidenze, caste intimità. Dobbiamo impararlo a conoscere così il Cristo che riposa e porta la pace. Come a Emmaus, come nel cenacolo (januis clausis8), come a Betania.

1. Che cosa porteremo noi. È vero siamo poveri e mendici. Ma possiamo offrirgli le occupazioni di ogni giorno fatte nella volontà del Padre Celeste. Meus cibus est, ut faciam voluntatem eius, qui misit me9 (Gv 4,34). Atti di rassegnazione, dolcezza, coraggio, abnegazione, docilità, distacco. Virtù umili e malferme spuntate nei poveri solchi dell’anima. Come un pane di orzo, i due pesci. Egli accetta tutto. Egli moltiplica10. Deve essere un’offerta sincera e totale. Egli accetta tale amore anche se è solo un amore-resto in quanto parte della vita fu già data al demonio e all’egoismo. Partem piscis assi11 (Lc 24,42).

4 “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). 5 “… ciò che possiede è al sicuro” (Lc 11,21). 6 “… senza di Te non possiamo piacerti” (Cfr MISSA TRIDENTINA, Dominica XVIII post Pentecosten, Oratio). 7 “Cenerò con lui” (Ap 3,20). 8 “… a porte chiuse” (Gv 20,26). 9 “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato”. 10 Cfr Gv 6,9-12. 11 “… una porzione di pesce arrostito”. 2. Quello che egli porta. Porta la sua conversazione, la luce e il calore della sua parola. Troppo spesso la preghiera non è che un parlare di noi e delle nostre cose. No! Non siamo soggetti Exteres. Dolcemente, confidenzialmente Gesù dirà quello che prova, che desidera, che rimpiange, quello che ha fatto e quello che si propone di fare. E noi come la Maddalena. Dirà della sua vita in noi, dei suoi sforzi e della sua strategia per conquistarci, come non abbia mai rinunciato a perseguitarci per farci suoi. Parlerà dei suoi disegni nelle anime, delle sue amarezze, dei suoi desideri, et illas oportet me adducere12 (Gv 10,16).

3. Allora vediamo la nostra povera vita umana in una grande luce, nulla di profano, in essa tutto parla del suo amore, una conquista divina. Accetteremo tutto, non ci lamenteremo più di nulla; lo stesso ricordo delle colpe sarà dolce poiché il Redentore l’ha santificato. Semper et ubique gratias agere!13. Allora comprenderemo il problema dell’apostolato. Pregheremo perché siano mandati operai e le nostre mani diverranno impazienti. Sentiremo il dovere della riparazione. Vigilate et orate14.

Conclusione. Mentre in Cielo gli danno gloria gli Angeli e i Santi Egli si intrattiene in casa nostra, è in casa del Pubblicano che Egli dimora come se tutta la gloria del Cielo fosse nulla e noi soli fossimo tutto per Lui. Ma un velo si squarcia. È la Cena eterna, in regno Patris, il colloquio dell’anima col suo Dio continua faccia a faccia.

3. Dio ci ama: noi siamo suoi. Et Galilaeus es!15 (Mc 14,70)

1. Gesù ama fortemente le sue anime. Il suo amore è forte e segna tutto quello che possiede con un’impronta indelebile, con un suggello di eternità. Anche se ci si allontana da Lui, anche se per debolezza o malizia si va tra i nemici, l’anima conserva il portamento, pronuncia parole, ripete gesti imparati alla sua scuola. Fuori di casa propria si rimane sempre stranieri. Da Lui non possiamo staccarcene non solo impunemente, ma neppure totalmente.

2. Di fronte a così tenace amore è:

12 “… anche quelle io devo guidare”. 13 “Sempre e in ogni luogo rendere grazie!”. 14 “Vegliate e pregate” (Mc 14,38). 15 “… sei Galileo!” (Mc 14,70). riattaccarci con nuovo vincolo, scoprire nuovo amore gratuito, comprendere la forza mirabile del suo amore, alimentare la compunzione e la confidenza, comprendere che se anche è brutalmente respinto non si allontana mai del tutto, comprendere che tiene viva nel fondo cieco delle anime una scintilla per una risurrezione luminosa.

3. Con le nostre stesse paludi noi testimoniamo che siamo suoi. Quando si rimanda di essere tutti suoi, quando si invoca un domani ipotetico è dire che presto o tardi sarebbe venuto il suo trionfo, è riconoscere il debito anche se non si vuole subito il pagamento. Ci allontaniamo con fare distratto volgendo lontano lo sguardo perché sappiamo che se incontriamo il vostro sguardo dobbiamo metterci in ginocchio, o Signore. Facciamo chiasso, parliamo ad alta voce, ridiamo forte, manteniamo nel nostro interno rumore continuo e opprimente, per non udire la sua chiamata, il suo lamento, i suoi rimproveri. Come i bimbi che gridano nel buio per far vedere che non hanno paura! Tutte queste viltà, industrie, manovre, raggiri tradiscono il discepolo che ha vergogna di sé e non può distruggere l’impronta divina ricevuta, né sfuggire alle forti attrattive dell’amore che vuole salvarlo.

4. Questo ci deve dare la vera valutazione di noi stessi. Non si è disgustato di noi neppure quando le debolezze ci hanno spogliato di tutta la dignità di uomini. Perché? Quia amasti me fecisti me amabilem16. Tutte le mie miserie, tutto concorre a mostrare il suo amore che pone in me quel che mi deve rendere amabile, il suo amore infinito da cui non si può fuggire. Dobbiamo imparare a giudicarci come ci giudica Lui, a non spezzare la canna, a non spegnere con impazienza e dispetti il lucignolo. Trattarci con rispetto e amore per cagione di Lui e di quello che ha messo in noi. Il disprezzo solo per quello che ci vuole emancipare da Lui.

Conclusione. Una pisside anche se profanata è sempre un oggetto destinato al servizio di Dio e il suo posto è il tabernacolo. Tutte le nostre profanazioni non possono fare che Dio non sia il nostro Signore sovrano e i suoi diritti supremi non sono stati diminuiti dai rifiuti ostinati e dalle ribellioni. Noi siamo suoi, dal Battesimo, e prima ancora da tutta l’eternità in cui ci ha eletti.

4. Il continuo bisogno dell’assistenza divina. Pone pignus pro me juxta Te!17 (Gb 17,3)

16 “Poiché mi hai amato, mi hai reso amabile” (Sant’Agostino). 1. Abbiamo bisogno di stare vicino a Dio. Siamo come bambini che bisogna sostenere ed aiutare in tutto, che mutano in pericolo di morte e in formidabili nemici gli oggetti anche più utili come il coltello. Abbiamo bisogno di essere educati. Sapere prendere il coltello per il manico e non per la lama, cioè saper prendere le tribolazioni con rassegnazione. Sapersi servire di tutte le occasioni e di tutti gli eventi senza averne danno e rovina. Resistere alla seduzione di quanto brilla. Usare di quello che riscalda con prudenza e misura. Soffrire senza farci del male. Godere senza compromettersi in nulla.

2. Spesso siamo come bambini storditi e pazzerelli. Abbiamo bisogno di sorveglianza e di freno. Non possiamo stare a lungo soli, dobbiamo sentirci addosso lo sguardo di chi ci ama per non lasciarci andare a fantasie assurde, a sciocchezze contraddittorie, ad azioni e gesti senza senso. Siamo incapaci di resistere agli impulsi improvvisi dell’istinto. Appena tornati dalla preghiera cadiamo in impazienze ridicole, in moti d’ira, in parole mordaci, ecc... ecc... senza che possiamo rendercene ragione. Cambiamo di umore se si annuvola il cielo, e lasciamo cadere tutti i propositi per un capriccio di pigrizia.

3. Voler esser ben vicini a Lui. a. Vicini come le nostre cosucce umili e materiali le quali per così dire prolungano le nostra dita e ci danno modo di scrivere, che ci appoggiano, che fissano il ricordo delle cose che dimentichiamo. Così ci fosse dato di prolungare l’azione del Signore facendoci strumenti docili. Che Lui potesse avere fiducia in noi e servirsi di tutto quanto possediamo senza doverci chiedere se siamo contenti, e senza temere di trovare qualche opposizione. Dio ha bisogno di collaboratori, non vuole fare da solo l’opera di Redenzione del mondo. b. Vicini come l’amico intimo al quale si confidano le cose più segrete e le speranze più care. Non siamo degni di conoscere i suoi pensieri, i suoi voti, i suoi desideri. Ma questa intimità è l’unico modo per renderci meno miserabili.

Conclusione. Egli ci stringe con un vincolo misterioso. Noi dobbiamo possedere Lui, perché privi di tutto. Noi dobbiamo gettarci verso di Lui con tutta la forza della nostra miseria e tutto il peso della nostra infermità. Non ci guarirà o libererà subito: potremmo credere che Egli non ci sia indispensabile. Ma ci aiuta sempre, come la luce che ogni giorno ritorna. La nostra indigenza ci aiuta a conoscerlo meglio. Ogni nostro bene è stare

vicino a Lui. Ogni infedeltà è allontanarsi da Lui. Se stiamo al nostro posto tutto, anche la morte, diventa merito e gloria. Iuxta te!18 Il Paradiso non sarà altra cosa!

5. La presenza di Dio. Rabbi, ubi habitas?19 (Gv 1,38)

Il vero fedele non si accontenta di un incontro alla sfuggita, vuole poterlo trovare e restare con Lui. Ma non sapremmo dove sta se Lui non ce lo indicasse. Egli è via e termine, porta e casa, principio e fine di tutto.

1. Egli dimora in mezzo di noi. Il mondo intero è pieno della sua invisibile presenza. Poiché tutto ha origine dalla sua grazia misericordiosa. Ogni pensiero onesto e puro, ogni pentimento sincero e forte vengono da Lui. Previene le mie iniziative e conferisce loro il valore: la nostra libera volontà, per la sua presenza e il suo concorso, ci vuole salvi tutti. Illumina il nostro intelletto e mi fa capire la luce della verità.

2. Dimora come in un santuario prediletto nell’anima dei suoi Santi, dei suoi devoti, di tutti quelli che si sono lasciati penetrare dal suo spirito. Rispettarlo in queste anime, avere gioia nel contemplarlo in silenzio nei cuori interamente suoi, i teofori, i cristofori.

3. Si trova in tutte le piccole occasioni di ben operare e di ben soffrire. Si trova in queste umili cose come nelle ostie consacrate e sotto le speci di una contrarietà fortuita, di un visitatore importuno, di una malattia. Fatica, sacrificio, ubbidienza è presente moralmente. Siamo ciechi e spesso lasciamo sfuggire le occasioni. Non lo riconosciamo nell’umiltà delle cose, e non lo ritroviamo nella prosa santificante dei nostri doveri quotidiani. Egli è in noi, nel nostro prossimo, nelle vicende della vita, nelle necessità, nelle fatiche, nei patimenti, nei sacrifici.

4. Non abita, è assente dove c’è la volontà propria, la volontà di egoismo, l’io invadente e indocile, provocante e insolente, simulatore e diffidente. Il suo amore onnipotente è obbligato a fermarsi dinanzi alla viltà cosciente, alla falsa indipendenza.

5. Ci vuole ab omni proprietate evacuatus, liberi da ogni attacco a noi stessi. Nessuna parte impenetrabile alla sua azione, che possa fare in noi come Gli pare perché anche quaggiù sono molte le mansioni. Conclusione – Preghiera: Facilmente siamo alunni distratti e che dimenticano. Signore ripetici ogni giorno questa lezione della tua presenza. Che possiamo vedere oltre l’illusione grossolana dei sensi. Aumenta l’amore e il rispetto fino al giorno in cui quando lì torneremo a ripetere ubi habitas, ci spalancherai il Paradiso.

6. La vera Compunzione. Verba delictorum meorum20 (Sal 21,2)

Anche i peccati, poiché il Signore dà il perdono, hanno un messaggio d’amore da trasmettere, un vangelo di redenzione.

1. Vi è una cattiva compunzione. Pensare, meditare, piangere sui peccati sì, ma non deve sfibrare l’animo, paralizzarlo, rendere pusillanime. Ciò avviene quando ci si riduce a constatare delle rovine, a constatare disastri irreparabili, a vedere ogni tappa della vita che finisce in una disfatta vergognosa, ogni sforzo che si spezza fin da principio. Questo accascia e dopo non si è più forti, ma soltanto più desolati e amareggiati. Fare ogni giorno tale pellegrinaggio disgusta e prostra. Diventa una parata funebre, il rimescolare un pantano che puzza. La compunzione non deve ridursi a un impasto di cenere, a un bitume acre e puzzolente, tristezza solitaria su ciò che non si potrà mai rifare o distruggere. La compunzione che deve essere il cibo del cristiano non può essere una cosa dura, triste, snervante, consigliera di scoraggiamento e di intima afflizione. 2. La vera compunzione. È la chiave della conoscenza di Dio. Le nostre colpe passate sono altrettante strade che ci conducono al Cristo Redentore, attraverso ad esse ci è venuto o ci verrà il suo perdono. Ogni stella è una via luminosa, ogni colpa fu un sentiero misterioso battuto dalla misericordia divina per venire fino a noi. Piangere «in due», comprendere un amore trascurato. L’amore che redime non si comprende che piangendo. Allora sì la compunzione intenerisce e fortifica. L’amore si rafforza con la riparazione, ha bisogno di rimpianto, di confessione, di pentimento. L’amore che si sente perdonato diventa forte come la morte e i nostri peccati debbono essere un nuovo legame che ci stringe più fortemente a Dio, funiculus triplex21. Ciò che si è mandato a male è la Redenzione; se vogliamo pentirci dobbiamo dunque ricorrere a Lui. Non stare solitari finché le lagrime ci hanno resi degni di Lui, ma persuadersi che senza di Lui non si può riparare o riconquistare nulla, e il primo passo è della sua grazia che previene. Allora pentirsi è dolce e soave. Non passeggiata solitaria e malinconica in mezzo a sepolcri, ma pellegrinaggio d’amore in compagnia di Lui. Possiamo esaminare con attenzione il passato, trovare tante colpe, ma non cercheremo attenuanti, anzi, non saremo in pena. Ogni fallo è una prova magnifica ed evidente del suo amore, quasi una reliquia del suo generoso perdono. Di qui si spiega il bisogno tanto cristiano (il mondo dice morbosità) di verità che umilia, di confessione ripetuta, di esami di coscienza. La compunzione è una divina rivelatrice, ci presenta in Dio il consolatore.

Conclusione. Ripetere il mea culpa sia cosa dolce come l’assicurazione del suo amore, come un pegno della sua misericordia infinita. Noli flere22: confortare23, consolamini populum meum24 (Is 40,1). Solo Lui può confortarci interamente che solo ha voluto soffrire e morire per tutto quello che ci ha resi colpevoli.

7. La santificazione della fatica. Fatigatus ex itinere25 (Gv 4,6)

Per rassomigliarci a Gesù non dobbiamo cessare di essere uomini o cambiare le condizioni di vita. Basta non essere malamente. Gesù ha santificato le più umili vicende della nostra vita, ha preso per sé la fragilità della nostra sostanza. Ha esperimentato tutta la nostra stanchezza e questa è diventata cosa di Dio.

1. La povera stanchezza umana è considerata come uno stupido ostacolo tra l’anima e Dio. È considerata impedimento alla preghiera, ritardo allo impeto dello zelo, nemica del bene. Particolarmente la spossatezza dei giorni pieni di fatiche, che si impadronisce di tutto il nostro essere, si sembra macchine inerti, ridotti a uno stato di prostrazione e di sonnolenza che muove a pietà.

2. Eppure non è un ostacolo. Non è necessario per presentarsi davanti a Lui di avere mente sveglia, volontà pronta e slanciata, occhi sfavillanti; non è necessario uscire dalla cerchia della debolezza umana o fingere di ignorarne l’esistenza mentendo o prendendo una maschera.

22 “Non piangere” (Lc 7,13). 23 Nella NOVA VULGATA: “Et fratri suo dicet: Confortare – E al suo fratello dice: Coraggio” (Is 41,6). 24 “Consolate, consolate il mio popolo” (Is 40,1). 3. Basta essere uomini per assomigliarsi al Figlio dell’uomo. Gesù ha veramente conosciuto la stanchezza col suo peso, noia, umiliazione. Quando non ne posso più anche allora mi posso dire simile a Lui. La stanchezza cristiana è un valore di sacramento mistico, perché ci rende più santi e in essa vi è tuttora qualcosa di Gesù. Spesso non sappiamo che26 offrire al Signore perché tutte le nostre cose sembrano indegne di Lui. Ma la nostra povertà ci deve divenire cara. Niente è degno se non lo ha reso tale lui. Dobbiamo offrirgli le infermità, le stanchezze, le lunghe spossatezze, gli assopimenti profondi. Nei suoi turiboli, habens thuribulum aureum27 (Ap 8,3), come omaggio perpetuo e silenzioso gettiamo ogni nostra debolezza fisica, odor mortis28 (Cor 2,16), in profumo di eternità.

4. La nostra povera stanchezza che ci umilia, ruba i pensieri nella mente e le parole sul labbro, stanchezza fatta di ebetismo doloroso, di malinconia ribelle, di snervamento e d’impotenza, accettata in sua compagnia, per suo amore, con rassegnazione, senza amarezza e impazienza, ha tanta virtù da renderci simili a Lui. La nostra povertà ci fa conquistare il Regno di Dio. Offrire dunque al mattino, offrire alla sera, sacrificium vespertinum, matutinum. Offrire quando tutto intorno a noi ci abbandonerà e il corpo sarà così stanco e logoro che verrà la morte. Dopo aver percorso le varie strade di quaggiù e aver camminato a lungo, quando saremo sfiniti e sarà venuta l’ora nostra, l’ora sua che ci tiene nascosta, si ricordi il Signore che anche Lui ha sofferto e ha preso tutte le nostre miserie.

Conclusione. Amiamo la stanchezza buona, pesante che Lui ha santificato. Il Santo Curato di Ars godeva con tutto il fervore del suo spirito che il suo corpo si estenuava, che le forze gli venivano meno, che la vita gli sfuggiva e si consumava nella pesante fatica. Mutare il gemito in un santo Alleluia!

8. La confidenza in Dio. Lecythus olei29 (3Re 17,1630)

1. Molto facile è la diffidenza. Tanti discepoli suoi l’hanno e ogni slancio vitale verso Dio è arrestato nel punto stesso in cui sta per formarsi. Siamo scoraggiati, pusillanimi.

2. Questo perché pretendiamo fondare la pace dell’anima nostra e l’esito delle nostre imprese su un sostegno fragile e vacillante, cioè sul giudizio naturale che noi facciamo delle nostre forze e dei nostri meriti.

26 Che cosa. 27 “… reggendo un turibolo d’oro”. 28 Nella NOVA VULGATA: “… odor ex morte – odore di morte” (2Cor 2,16). 29 “… l’orcio dell’olio” (1Re 17,13). Ci interroghiamo con ansia piena d’angoscia: a) vogliamo sapere di quante riserve di energia possiamo disporre; b) ci esaminiamo attentamente per ben conoscerci e non essere traditi dalle apparenze; c) perdiamo un gran tempo nel calcolare quello che avremmo dovuto fare e quello che forse potremo sperare d’aver occasione di fare più tardi. Sopra questi calcoli e ragionamenti poniamo la nostra sicurezza.

3. La nostra speranza deve essere fondata invece non su le nostre forze, ma sulla Sua bontà, quos dedisti mihi, non perdidi ex ipsis quemquam31 (Gv 18,9). La nostra certezza e sicurezza dalla fede. La benedizione di Elia rimase invisibile, l’ampolla d’olio rimase in apparenza nelle condizioni di prima. Ma quelle poche gocce versate si rinnovellavano secondo il bisogno. Così il Signore: ogni giorno ci concede la misura di grazia che ci abbisogna senza mai permettere che noi la sentiamo nella sua pienezza e per sempre. La sicurezza grossolana del possesso di grandi tesori accumulati, del contadino dai granai pieni, la confidenza sicura del proprietario non hanno che fare con lo spirito di fede32. Vorremmo sentire che siamo forti, ricchi e potenti, che abbiamo la cassaforte di Dio alla nostra portata, che non dipendiamo da alcuno e da nulla, che possiamo dormire tranquilli lontani da ogni rischio. Stimiamo la miglior condizione quella del proprietario. E vogliamo la stima degli altri non tanto per superbia, quanto per debolezza. Per avere un nuovo motivo di crederci sicuri.

4. Rimettiamo l’anima nostra e la sua sicurezza nelle mani del Giudice nostro, si diffonderà in noi grande pace, ci sentiremo sollevati da un peso grave e inutile. La nostra confidenza consiste essenzialmente in una dipendenza continua. Ad ogni occasione ci darà la misura di grazia opportuna, la goccia d’olio necessaria. Questo sentirci continuamente sostenuti senza diventare mai capaci di camminare da noi, questo sentirci nutriti senza cessar mai d’aver fame, è sentirci legati a Dio per mezzo d’una cosa che intimamente e profondamente ci appartiene: la nostra povertà, il nostro nulla. Questa povertà assoluta che viene continuamente riparata e mai soppressa dalla grazia del Signore compie in noi la Redenzione e ci fa comprendere quanto a noi sia necessario il Signore. Lo debbo conoscere per essere convinto che Egli non si dimenticherà più di quello che ha fatto oggi e che la sua misericordia non cambia mai. Questa è santa letizia e la mia confidenza in Dio diventa un atto di

31 “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato” (Gv 18,9). 32 Lc 12,16-21. adorazione e la mia gioia un omaggio. Scio enim, cui credidi33 (2Tm 1,12). All’origine di tutto quello che siamo, mettiamo la parola grazia e basterà per vincere ogni diffidenza.

9. La santificazione delle piccole cose. Colligite fragmenta34 (Gv 6,12)

Non c’è cosa piccola agli occhi d’un vero amore. Le «cose piccole» sono sante agli occhi della fede, e chi le guarda con occhio superbo si condanna a rimanere sempre in basso privo delle delicatezze dell’amore divino.

1. Sono il tesoro nascosto: sono l’intera nostra vita che si sminuzza in tanti brevi istanti; sono tutto il nostro coraggio che la volontà divide in tante piccole azioni che si succedono senza fine; sono le gocce della grazia divina, stillae super gramina35 (Dt 32,2), i frammenti del Santo Sacrificio ecc... La messe è fatta di covoni, questi di spighe, le spighe di piccoli grani.

2. La cura delle piccole cose non deve però ridursi a una pura meccanica di esattezza. È fatica senza compenso, lavoro lungo e penoso finché tutta l’attenzione concentrata nel lavoro ci renderà regolati e passivi come una ruota d’ingranaggio per avere la soddisfazione di poter dire ogni sera: tutto è a posto, numerato, verificato, possiamo dormire tranquilli? No, bisogna andare più avanti.

3. Deve essere un omaggio di fedeltà e la soddisfazione di un gran bisogno d’amore. Dobbiamo lavorare sotto i suoi occhi ed è nostro collaboratore ed amico. Ci previene con la sua grazia e l’esattezza non è che la docile fedeltà nel corrispondere alle sue ispirazioni. Lui ci ama come siamo e nulla di noi Gli è indifferente. Per questo tutto acquista importanza, deve essere santificato, deve rispondere al suo desiderio ed essere un omaggio. Modo di camminare, portamento, gesti, espressione del volto, accento della voce: si interessa di tutto e un nostro difetto lo fa soffrire perché è di una persona amata. Sono cose che Egli desidera da noi: sono condiscendenze che possiamo e dobbiamo offrirgli. Non minuzie dunque ma prove delicate di fedeltà. Crediamo all’amore che ci porta e che quest’amore ci abbraccia tutto quanto siamo e ci prende quali siamo, ma vuole trasformarci interamente.

33 “… so infatti in chi ho posto la mia fede” (2Tm 1,12). 34 “Raccogliete i pezzi avanzati” (Gv 6,12). 35 “… come scroscio sull’erba” (Dt 32,2). Conclusione. Evitare la pusillanimità che si restringe e si ripiega su se stessa, e la falsa libertà di spirito che sdegna i frammenti del dono di Dio. Non dire mai: non è nulla, non è una gran cosa. Nel suo amore non bisogna porre un limite a quello che si deve. Desiderare il suo regno puramente e semplicemente. Del resto Egli non esige nulla da noi soli. L’impresa è comune. Egli non è uno spettatore: lavora insieme con noi. Lavoriamo dunque insieme; la nostra miseria ci diventerà dolce e feconda e non avendo nulla di nostro saremo tutti suoi.

10. La religione incontro personale. Singulis manus imponens36 (Lc 4,40)

Li ha risanati tutti con questo gesto di benevolenza e di misericordia, non avevano altro motivo per essere beneficati che le loro miserie e bisogno. Tutti, e quelli che l’imploravano a voce alta e quelli che lo miravano muti… ecc… tutti. Singulis: per ciascuno attenzione, gesto di benedizione.

1. Ancora passa vicino alle anime inferme, a ciascuna di esse. Si è fermato dinanzi a me solo occupandosi delle mie miserie e posando proprio sul mio capo le sue mani.

2. La religione non deve rimanere qualcosa di vago e da praticarsi collettivamente. Non ci dobbiamo considerare in una folla anonima, né pensare alle parole e alle promesse di Gesù così in generale.

3. La religione deve essere un’intima esperienza, il senso di una presenza misteriosa: proprio a noi in particolare il Signore si rivolge. Viene a noi, i suoi occhi su di noi. Lui il Dio terribile, ma anche il Redentore che dà la vita. Come il novello sacerdote comprende che il semplice contatto delle mani del Vescovo opera in lui un mutamento totale: non più libera disposizione di sé, ma segna tutte le sue azioni e desideri, tutto in lui deve essere sacerdotale. Così tutto nell’anima deve essere cristiano. Lui ed io: non sono un’unità perduta in mezzo a una moltitudine. Anche il prossimo in Lui. Lui tutto per me. E la mia volta durerà senza fine. Stare per sempre dinanzi a Lui e fare sparire tutte le fatuità esteriori, le convenzioni che hanno fatto credere che Lui non si interessasse di me se non in generale quasi in blocco con tutti gli altri uomini quaggiù. Essere al suo servizio, il suo sguardo su di me che faccia crollare tutti i miei idoli. Povero paralitico che guarisca, povero che benefichi. Voglio essere sulla vostra strada, o Signore, per potervi incontrare. Solo voi potete rendermi degno di voi. Sicut oculi servorum ecc…37.

36 “… imponendo su ciascuno le mani” (Lc 4,40). 37 “… come gli occhi dei servi” (Sal 123 [122], 2).

11. Il lavoro della grazia in noi. Dum nescit ille38 (Mc 4,27)

Molte volte l’anima è piena di mille cure inutili e se ne va la pace serena della fede. Se si va avanti o no e quanto si vale davanti a Dio.

1. Avere grande attenzione per non lasciar cadere i doni di Dio ma non opprimere l’anima e snervarla in una ansietà troppo umana. Evitare gli eccessi: o eccessiva mollezza o preoccupazione troppo accesa che stanca o rovina.

2. Il Regno dei Cieli è come un seme che caduto si sviluppa e cresce fino alla messe. Ultro terra fructificat primum herbam, deinde spicam, deinde plenum frumentum in spica39 (Mc 4,28).

3. Bisogna avere più fiducia nell’efficacia della azione soprannaturale di Dio. Allora la cooperazione alla grazia sarebbe libera dall’ansietà, e dall’impazienza. Basta stare vicino a Lui, collaborare con la sua grazia. Nella vita Dio solo è la forza e deve essere il termine.

4. Non ci sono industrie umane capaci di prendere il posto della grazia: il nostro ingegno e la nostra astuzia non possono fare meglio di Dio e passare innanzi alla sua volontà. La nostra santificazione è un’accettazione non un’offerta. È Dio il primo che comincia, che previene. Il primo nostro atto è di ringraziare.

5. Quello che ha fatto in noi lo continuerà. È il Padre di famiglia che mette da parte i tesori, che custodisce i nostri meriti e ce li fa acquistare. A noi il desiderio d’onorarlo sempre di più, di amarlo, di non possedere nulla come cosa propria, specialmente in fatto di virtù, e di scorgere Lui solo in tutto quello che siamo e che facciamo. Lui solo può renderci sopportabili a noi stessi e impedire che le nostre virtù siano per noi ragione di profondo disgusto. Le ameremo invece perché troveremo in esse le sue reliquie, la sua opera, il suo amore, perché Lui le ha seminate in noi. Le mortificazioni, preghiere, lacrime, speranze le ameremo perché sono manipoli della sua messe.

6. Nessun bisogno dunque di rassicurarci se le virtù progrediscono. Basta sforzarsi di essere sempre docili alla sua grazia, confidare nel suo amore perché il lavoro non è nostro ma comune, di tutte e due.

38 “… come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,27). 39 “Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga”. Vedremo poi nell’eternità con certezza e rigore quello che soltanto allora sarà ragione della nostra pace e gloria. Non confondere le virtù con la coscienza di esse. Saper far credito a Lui. Pensare piuttosto a Lui che a noi, alla sua gloria che alla nostra utilità, ai suoi benefici che ai nostri meriti. Perché i nostri meriti sono i suoi doni e la nostra utilità forma la sua gloria. Coronando nostra merita, coronas tua dona40.

7. Questa purezza d’intenzione è uno spogliamento che ci rende beati, è povertà spirituale, oblio di noi stessi: essere incapaci di pensare a noi e di noi fuorché in Dio e per Dio. Contentarsi della luce che viene da Lui e non starcene inerti e in ozio, ma moderare l’istinto di indipendenza sottomettendo tutta la nostra attività al suo volere e collaborando con Lui con tutte le nostre forze. Essere discepoli in tutto e non essere più altro che fedeli. Docilità operosa, abbandono assoluto.

12. La santificazione del ricordo del passato. Unde et memores41

1. Siamo troppo terreni anche in questo. Ce ne serviamo del passato solo per scuotere la sonnolenza del presente o per evadere dalla odiosità del momento. Oppure per divertirmi o per rimpiangere, distrarmi, dar pascolo alla tristezza, sostenere le ambizioni, distendere le mie speranze o rinchiudermi in una diffidenza pusillanime. Tutto come non ne dovessi dare conto e non dipendesse che da me e non riguardasse altri che me.

2. Ma anche il passato appartiene al Signore. I ricordi reliquie della sua luce, del suo amore e della sua grazia non sono forse cose sante? Noi facciamo come il Re di Babilonia coi vasi sacri42. Bisogna ricordare in modo degno di Lui, esercitare questa funzione da cristiani. Il passato che vive in noi va considerato come un dono del suo amore e tenero pegno della sua predilezione. Egli l’ha visto, sopportato e perdonato. Non possiamo allora isolare dall’azione del Verbo un solo istante dell’esistenza. Egli è il testis fidelis43 e si trova all’origine di tutte le cose. I ricordi devono essere una via che conduce a Dio, e Dio a noi: un lungo colloquio, un inno di ringraziamento.

40 Cfr Praefatio de Sanctis I: “Eorum coronando merita, tua dona coronas – il loro trionfo celebra i doni della tua misericordia”. Il richiamo è a SANT’AGOSTINO: “Tunc Deus coronabit, non tam merita tua, quam dona sua - Allora Dio premierà non tanto i tuoi meriti, quanto i suoi doni” (Sermone 170,10). 41 “Anche noi ricordando…” (Cfr MISSA TRIDENTINA, Canone). 42 Cfr Dn 1,2. 43 “… testimone vero” (Pr 14,5). 3. Noi siamo troppo affrettati, perduti nel presente troppo breve. Dobbiamo ricordare il passato non già come cosa che non è più, come rovina irreparabile, sogno svanito, felicità perduta, ma piuttosto come cosa che si perpetua, come tesoro custodito dall’amico fedele e che non ha mai cessato di appartenerci in ogni istante. Non ricordo terreno e umano; ma tutto in Lui che possiede la pienezza delle grazie, che tutto conserva con la virtù della sua parola, che è luce eterna e immutabile. Noi non abbiamo perduto nulla.

4. Farci una memoria consacrata come un tempio, divina e santa, penetrata da uno spirito di grazia e che non viva fuorché dei benefici ricevuti. La memoria sia sua non nostra. Non ci parli mai più che di Lui e ci renda capaci di esercitare la funzione di lode, il mestiere di fedeli, la parte di eterni adoratori. Sia solo Lui l’oggetto dei nostri ricordi, Lui e le sue grazie che hanno prevenuto nel bene e perdonato nel male.

5. Il ricordo del passato ci restituirà a un facile raccoglimento; comprenderemo il «sicut erat in principio» e sentiremo che il Signore ci avvolge da tutte le parti e nulla è perduto di quanto si appoggia a Lui. Ricorderemo quanto siamo costati, comprenderemo quale tesoro divino rappresentiamo e in una umiltà senza limiti troveremo una forza irresistibile. Ci sentiremo grandi per Lui e l’opera sua e faremo tutto, in memoria di Lui.

13. Le contraddizioni del nostro io. Rumor multitudinis44

1. Quando ognuno di noi chiede a se stesso quale può essere il suo vero nome, forse lo trova nella risposta dell’indemoniato: legione, quia multi sumus45 (Mc 5,3). Non uno, ma molti, moltitudine confusa e irrequieta, strana anarchia di tendenze contraddittorie. Questo ci impedisce di penetrare in fondo a noi stessi ed esaminare il sottosuolo della nostra vita. Sappiamo di trovarci esseri bizzarri e sospetti.

2. Il personaggio dell’insincerità è il primo. È machiavellico, freddamente egoista, studiato, nemico della franchezza serena e della schietta sincerità, ama tergiversare, dissimulare, nascondersi.

3. Il personaggio dell’ira è il secondo.

44 Il clamore della moltitudine. 45 “Legione, perché siamo molti” (Mc 5,3). Un essere violento e irascibile, insorge contro gli ostacoli, non può sopportare la minima contrarietà e sotto il velo della cortesia nasconde tutto un ribollimento di cattivo umore e di collera. Lo spirito confuso e turbolento dei due Boanerges46 si agita e rumoreggia in noi.

4. Il personaggio della pigrizia è il terzo. Un essere impastato di pigrizia e di languore, pieno di sonno e di ozio; che trova sempre nuovi motivi per rimandare a più tardi la fatica e scaricarla sugli altri, sfiorare alla superficie i doveri, scettico e sdegnoso di sforzo.

5. E c’è anche il personaggio della bontà. Un essere buono e di retto sentire che volentieri giunge le mani per piangere i peccati, per invocare Dio, che lo ha sempre cercato e volentieri avrebbe sacrificato cento volte più di quello che gli ha offerto. Stentiamo a riconoscerlo in noi perché molti altri si affannavano a smentirlo, molti altri volgari e maligni lo soppiantavano relegandolo nell’ombra. Eppure la speranza di essere totalmente suoi, la convinzione di avere assoluto bisogno di Lui c’è sempre stata in fondo.

6. Saremo dunque sempre caos? Dio che ha creato tutto in un’armonia e proporzione perfetta non potrà stabilire equilibrio nel nostro cuore? La risposta del Signore è evidente. Vocavi te nomine tuo, meus es tu47 (Is 43,1). Dice il Signore: tu mi appartieni, sei mio. Meus. L’unica maniera di possederci sarà di non appartenere più a noi stessi. Uscire interamente da noi stessi per passare in Lui è la sola via da tenere per non mai separarci da noi stessi, per sfuggire a questa dispersione di forze interiori che ci uccide e per acquistare nella vita un significato e un valore. Diamo a Dio tutta la libertà, perché dove ancora comandiamo noi vi domina l’agitazione. La felicità in Paradiso consisterà nel non possederci che possedendo Lui, nel non conoscerci e amarci che vedendo e amando Lui. Cominciamo da questa terra.

14. L’imitazione di Cristo. Et enarrentur mirabilia tua48 (Eccl 36,10)

1. Le anime sono specchio delle perfezioni di Gesù? Sono molto meno e infinitamente di più d’uno specchio. Sono meno: perché una creatura non può riprodurre la infinita perfezione divina. È di più perché uno specchio non può spiegare, sviluppare e amplificare l’oggetto di cui si limita a riprodurre

46 Cfr Mc 3,17: “Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali Gesù diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono”. 47 “… ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni”. 48 “… e si narrino le tue meraviglie” (Sir 36,10). semplicemente l’immagine superficiale e l’oggetto non viene più intimamente conosciuto.

2. Un’anima deve amplificare, sviluppare e spiegare la perfezione di Gesù Cristo. Deve specchiare Gesù come i fiori sono lo specchio del sole. I fiori non riflettono direttamente il sole; eppure non c’è un solo dei loro colori che non venga dall’unica sua luce. Se vogliamo dunque sapere quello che si contiene in questa semplice luce bianca non basterà riprodurre un’immagine sterile, moltiplicarla nello specchio, bisognerà interrogare tutto quello che risplende e si colora quaggiù.

3. Gesù è il sole: le anime sante sono come il prisma soprannaturale attraverso al quale passa la perfezione divina per distendersi in variazioni infinite. Ciascuna deve manifestare un colore e narrare e spiegare e sviluppare la ricchezza di Gesù. Quanto fu impossibile nei limiti del suo corpo mortale Egli lo fa e lo farà nel suo corpo mistico. E le parole che non ha pronunciato, la grazia dello Spirito le farà dire agli Apostoli e quello che non ha curato Lui lo farà curare. Venendo tra noi non ha potuto che essere un individuo in mezzo alla moltitudine. Nessun uomo può essere senz’altro l’umanità. Fu «un» uomo; non ha rifiutato limitazione alcuna impostagli dall’Incarnazione. Era uomo non donna; è morto giovane, non ha conosciuto vecchiaia, non era né soldato, né marinaio ecc... ecc… Aveva una determinata statura, accento, modo di fare, di camminare ecc... ecc... Era uno di noi e si chiamava Gesù, come altri avevano nome Andrea ecc... Non era donna e non ha conosciuto l’amore forte che una madre porta ai suoi figli, eppure nel sacrificio delle madri cristiane noi troviamo qualcosa di Gesù, del suo Spirito e l’effetto della sua grazia. Quello che non potuto fare Lui, lo fa nel corpo mistico. Tutti i colori sono da Lui. Non è stato soldato: eppure nell’eroismo di chi combatte per una santa causa vediamo Lui. Non è stato vecchio: eppure veneriamo nel vecchio qualcosa di Cristo. Egli manifesta un aspetto della sua pienezza di meriti e ci racconta una parte del suo mistero. Cristo non cessa di operare e di manifestarsi.

4. Tutti i nostri doveri si riassumono in uno: imitare Cristo in cui si trova la pienezza della perfezione divina. Ma come imitare? Non riprodurre semplicemente, ma operare in quella maniera che Egli avrebbe fatto se si fosse trovato nelle condizioni e nei luoghi ove noi ci troviamo: è accostarsi il più possibile alla sua azione, restare docili così al suo Spirito che Egli possa in noi e per mezzo di noi perfezionare l’opera sua e risplendere in tutta la nostra vita. 15. La Fede. Cognoscunt me meae49 (Gv 10,14)

1. Si può conoscere Gesù in tanto in quanto gli si appartiene. La vita eterna consiste nel conoscere Lui e nell’essere posseduti da Lui. Coloro che non lo vogliono si condannano a non conoscerlo e a pronunciare stoltezze. Conoscerlo è riconoscerlo ovunque Egli si trova. Qui è il germe e lo sviluppo della vita di fede. Sapere per convinzione divina che è nella Santa Chiesa e che non si trova che là. Ci si prepara nel mistero della fede la visione della gloria.

2. La fede è un dono di Dio; ma nessuno ne è escluso, tutti sono chiamati. È un dono accettato ma possiamo anche spezzarla, tamquam vas figuli50 (Sal 2,9), o farla morire lentamente come pianta che inaridisce. Un gesto brutale o una lunga indolenza che la fa perdere quasi a nostra insaputa a poco a poco.

3. La fede disprezzata dalla superbia dei falsi sapienti è in tutti i suoi elementi un dono celeste che viene dal Padre di ogni Verità, cioè è un’azione immediata di Dio in me. Non basta immaginare che sia una convinzione naturale più o meno radicata base di una vita onesta. Non basta considerarla con occhio distratto dimenticando praticamente il suo scopo e la sua natura. Dobbiamo sentirci onorati non per motivi umani, ma per la convinzione che Cristo è Dio, che la Chiesa è vera, è in noi l’opera dello Spirito Santo, l’impronta d’un amore eterno. Bisogna ringraziare Dio non solo del Battesimo e della professione cristiana, ma del semplice dono della fede attuale, di possedere quella certezza che porta alla salute.

4. Questa fede anche solo teorica, questa adesione soprannaturale alla verità di Cristo non è possibile senza di Lui. Sono le sue pecore che lo conoscono, sono i servi vigilanti, sono i cuori attenti e costanti che meritano di sentire i suoi passi. Senza volerlo, noi non crediamo. Ma per quanto ci sforziamo, non potremo senza la sua grazia formare di Lui un giudizio vero e giusto, né potremo mai conoscerlo. Perché Dio solo conosce se stesso nel suo mistero: gli Angeli e gli uomini non possono partecipare a questa conoscenza se non a misura che diventano una cosa sola con Dio. Nessuna forza concreta può arrivare fino a Lui: per formare una sola cosa bisogna che Egli ci prenda e ci unisca a Lui. Iniziativa divina del tutto gratuita: e questo inizio della salute è la grazia fede.

49 “Le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14). 50 “… come vasi d’argilla” (Sal 2,9). 5. Non abbiamo il diritto perciò di servirci dell’intelligenza come se non appartenesse che a me. Essa è consacrata dalla fede. L’offerta delle nostre opere esteriori non è la sola gradita a Dio. La nostra mente e le nostre convinzioni non sono cose puramente naturali. Dio le vuole per sé e le vuole dirigere. La nostra mente non è facoltà laica e profezia ma campo seminato di frumento divino.

6. Evitare maniere di pensare: sentimento, accondiscendenze paure o audacie. Non avere paura della Verità perché equivale a mettere in dubbio la presenza di Dio nella nostra intelligenza. Non fare servire le verità ai nostri capricci o pregiudizi: si esporrebbe Gesù incatenato agli insulti della plebe. Essere molto orgogliosi e molto umili nella propria fede e nelle proprie opere. Perché non siamo che strumenti nelle mani di Dio, e nulla si fa che non sia allo stesso tempo di Dio. La fede è veramente l’origine di tutti i beni e la prima di tutte le virtù: perché la vita deve passare nel cercare Gesù e l’eternità nel possederlo. La fede nulla distrugge in noi, non si oppone alle conquiste della scienza, non ci costringe ad essere sempre bambini, non pretende che ci accechiamo per non vedere. Ma acuisce in modo soprannaturale le nostre facoltà e ci rende capaci di vedere con Dio e come Dio stesso e ci rivela l’Invisibile.

16. L’uso delle creature. Propter nos51

1. Non c’è alcun ostacolo per trovare Dio. Tutte le cose ci servono, sono fatte apposta. È il fondamento di Sant’Ignazione. Omnia propter nos. Non solo: Non ci si deve rendere schiavi di alcuna cosa, ma bisogna essere pronti e servirsi di ogni cosa. La nostra azione si deve estendere quanto il volere di Dio. L’indifferenza esige tutto questo rigore di volontà serena e questo abbandono così ricco quanto Dio stesso. Le parole «propter nos» segnano come un sigillo di fratellanza tutto quanto esiste quaggiù a cominciare dal mio corpo e dall’anima mia fino al polipaio delle profondità sottomarine, al microbo misterioso delle malattie contagiose, fino alla morte, alla calunnia, all’oblio e all’impotenza assoluta. Reliqua omnia; tutto è mezzo per andare a Dio. Un ostacolo definitivo non esiste assolutamente, anche quello che sembrerebbe in fondo è un mezzo utile.

2. Tutto è mezzo, anche quello che pare si opponga direttamente al nostro bene. Le nostre virtù si arrampicano sopra i nostri difetti come l’edera su per i muri.

51 Cfr Simbolo Niceno-Costantinopolitano: “… per quem omnia facta sunt. Qui propter nos homines… – per mezzo di Lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini…”. Le difficoltà, le contraddizioni interne, le lotte quotidiane sono le condizioni necessarie del nostro progresso: esse sole c’insegnano a riflettere e ci rendono uomini maturi. Né il nostro passato, né la miseria presente; portas mortis, et seras pariter, Salvator noster dirupit52. Né via sbarrata, né guado invalicabile, solo delle resistenze che servono per farci camminare più sicuri come gli argini di un fiume. Il nemico fu vinto e il suo regno distrutto. Confidite53.

3. Nulla vi è dunque da distruggere nell’opera di Dio tutto potendo e dovendo servire a nostra utilità. Anche dalle colpe, come dai trucioli e segatura rifiuto. La distruzione non potrà che essere apparente, provvisoria. Il vero e l’eterno è nell’abundantius54.

4. Ma noi siamo lontani dalla sapienza calma e serena di Dio. Vi è spesso in noi una esasperazione puerile e pagana contro quanto crediamo ostacolo al bene. Mentre sia il bel tempo che la pioggia, tutto ha del buono. La sanità e la malattia, gli sciocchi e i savi, gli importuni e gli amici, tutti sono apportatori di ricchezze che il Signore ha preparato per noi e per mezzo loro ci fa pervenire con le loro mani invisibili o cortesi o brutali. Le antiche impazienze, i difetti ereditati ecc..., quel poco che siamo e quel poco che abbiamo fatto, tutto è mezzo e non altro che mezzo, tutto è come una miniera da sfruttare, un segreto da scoprire, una sorgente da far zampillare; in deserto aquae55 (Is 35,6). Noi non ci pensiamo e come il popolo infedele mormoriamo, ci lamentiamo e non ci muoviamo. Non rimpiangere le cose volute o permesse da Dio ma cambiarle in speranza e carità invece di lasciarle come muffa parassita che invade tutto. Mutare i rimpianti in amore previdente, servirsi delle proprie colpe come di una lezione redentrice; tutto quello che esiste, omnia vestra sunt56 (1Cor 3,22). Funda nos in pace57.

17. La Comunione dei Santi. Communicantes58. Tutti insieme come un uomo solo

52 “Il nostro Salvatore spezzò le porte della morte e allo stesso modo i chiavistelli” (Cfr BREVIARIUM ROMANUM, Sabato Santo, Mattutino nel Secondo Notturno, Primo responsorio Recessit pastor noster). 53 “Confidate”. 54 “di più”. 55 “… scaturiranno acque nel deserto”. 56 “… tutto è vostro”. 57 “Donaci la pace” (Cfr PREGHIERA Ave Maris Stella). 58 “Uniti in comunione” (Cfr MISSA TRIDENTINA, Canone). Questa parola è la ragione della nostra speranza e il principio della vita eterna.

1. Io non sono solo, non si applica il «Vae soli»59 (Eccl 4,10). Tra me e i Santi del Signore corrono dei legami invisibili per cui partecipo a tutti i loro beni e ne godo come fossero miei. Non sono un essere sconosciuto, un rifiuto gettato lontano senza appoggio e senza tutela, ma tutto il mio essere soprannaturale mi riunisce alla famiglia divina, istorum et omnium sanctorum60. Non v’è cosa che mi appartenga esclusivamente. Tutti insieme gli amici di Dio non formano che una sola cosa. Unità di anime nel possedere le ricchezze della grazia.

2. E non solo coi defunti, ma con tutti gli amici di Dio sulla terra. Sono strumenti di Dio tutti quelli di cui si è servito per raggiungermi, ai quali senza saperlo vado debitore di ogni mio bene. Devo venerare i miei genitori. Ma dove sono quelli che mi furono padri nell’ordine della grazia? Sono stato battezzato; perché non sono nato pagano? Per quali invisibili influssi è avvenuto questo? Quella vecchierella e quella giovinetta inferme sono forse loro che con la corona offerta alle intenzioni del Signore mi hanno ottenuto tale grazia o di vincere nei momenti difficili. Ad ogni momento contraiamo di fronte a tutta la Chiesa un debito infinito. Il lichene non sa quello che deve alla roccia e l’edera all’albero.

3. Quale slancio di carità ci deve dare la Comunione dei Santi! Non vivere più per noi ma per servire gli altri. Perché gli altri sono miei creditori. Se sono sacerdote, forse quel vecchio cieco, se ottengo frutti nell’apostolato forse la preghiera di un bimbo. Le fila dei nostri destini soprannaturali s’incrociano come i fili di un tessuto.

4. Il Signore non ci vuole manifestare i nostri benefattori perché possiamo guardare con riconoscenza tutti. Però vediamo che nell’ordine soprannaturale Dio fa dipendere il bene dei sapienti dagli ignoranti, degli adulti dai bambini, dei capi dai sottomessi, dei celebri dagli oscuri. Il Signore ha voluto poggiare (come piramide su la punta) la Chiesa su la Madonna, donna oscura divenuta Regina. A Gerusalemme: Senex puerum portabat: puer autem senem regebat61. I ricchi (San Clemente) sono sostenuti spiritualmente dai poveri perché si comunichino quanto ciascuno possiede e possano mutualmente dirsi «grazie», e ciascuno si senta debitore di tutto a tutti.

59 “Guai invece a chi è solo” (Qo 4,10). 60 “… per questi e per tutti i santi” (Cfr MISSA TRIDENTINA, Seconda preghiera di Offertorio Súscipe, sancta Trínitas). 61: “Il vecchio portava il bambino, ma in realtà il bambino reggeva il vecchio” (Cfr BREVIARIUM ROMANUM, Presentazione del Signore al Tempio, Primi Vespri, Antifona al Magnificat). Nessun rancore anche verso quelli che ci hanno fatto del male perché non sappiamo di quanti benefici occulti essi stessi ci hanno ricolmato. I vivi aiutati dai morti; gli inciviliti dai selvaggi; gli impudici dai vergini. Custodire nel cuore la riconoscenza.

18. La devozione alla Madonna. Sancta Dei Genitrix62

1. Chi nella Chiesa si è dimostrato freddo verso la Santa Vergine è stato sempre a ragione sospettato come eretico. Non dobbiamo arrossire della tenerezza verso di Lei. Si accusa che vi è della debolezza femminile e si dice che un animo virile e forte non si può adattare a certe pose quasi infantili che la devozione a Maria esige e rende necessarie in tutta la vita. Alcuni senza idee chiare cadono in esitazioni o errori e la loro pietà non più appoggiata sulla verità diventa facilmente un’esaltazione morbosa e una pratica puramente esteriore.

2. Nelle opere di Dio niente è caduco: la sua grazia non invecchia e le virtù che essa ispira non conoscono tramonto. Quindi anche l’anima cristiana conserva certe qualità che si direbbero incompatibili. Nel fanciullo vi è la forza dell’adulto e in questi la freschezza dell’infanzia. Nisi […] efficiamini63. Balbettare? No. Ma considerarci quali veramente siamo. Noi abbiamo ancora sempre bisogno di una Madre. La nascita fisica non è che il primo anello di una lunga catena: di nascita in nascita (mente che si sveglia, volontà che comincia a operare, ecc…) fino alla nascita eterna. E nell’ordine della grazia noi siamo ancora in fasce. Questo è stato capito come per istinto della pietà cristiana. Basta conoscerci, essere sinceri, far tacere la nostra superbia menzognera per metterci ai piedi della Madre.

3. Inoltre questa devozione tiene viva nella Chiesa lo spirito di famiglia. Non c’è distinzione tra dotto, virtuoso, debole, ecc... Siamo tutti figli. Un solo popolo, una condizione comune, una stessa famiglia. Per una mamma non c’è che essere figli. 4. 5. Quanto la Madonna versa nella Chiesa: quanta calma e purezza. Ha conservato nei vecchi guerrieri l’ingenuità infantile. La Madonna protettrice dei moribondi, la Consolata, l’Ausiliatrice. Da ut fiam per Mariam tua dignus gratia64. È per Maria che si va a Gesù. Si è dato a noi nelle braccia di Maria.

62 “Santa Madre di Dio” (Cfr Litanie Lauretane). 63 “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini…” (Mt 18,3). 64 “Concedi che io diventi per mezzo di Maria degno della tua grazia”. Maria ha gran parte nella Redenzione. Chiedere la grazia di restare nella Chiesa non come letterati o filosofi o eroi, ma semplicemente come figli amanti della Mamma Celeste.

19. Le mani giunte. Manibus junctis

1. Quando la mente non sa più pregare, le labbra possono articolare delle parole e con ciò stesso qualche parte di noi appartiene ancora a Dio. Quando la noia o la stanchezza o l’incapacità di parlare ci colgono, ci resta sempre l’ultima risorsa di pregare con l’atto riverente della nostra persona e di offrire a Dio il nostro gesto esteriore.

2. Molti si vergognano delle mani giunte e non vogliono essere ritenuti devoti ingenui. Vanno cercando dei metodi più complicati. Ma per pregare bene basta conformare al gesto esteriore il sentimento interiore. A Taide non diedero per precetto che volgersi a Oriente e dire Tu qui plasmasti me, miserere mei65.

3. Ma è proprio vero che non dicono niente le mani giunte dei piccoli fanciulli, di quelli che fanno la Prima Comunione, degli operai, degli sposi, dei nostri morti? Le mani giunte sono un gesto pieno di lezioni meravigliose che noi dobbiamo propagare come una buona novella. Anche se non aggiungiamo parola siamo come l’infermo la cui miseria è tanto grande che sono inutili le parole. Sono le mani del prigioniero, di chi non vuole più fare resistenza, sono le mani della dolcezza, della docilità. Ci uniscono a Dio nel compimento dei suoi disegni e di cui Egli si serve oggi per lavorare, per benedire, per confortare, per assolvere, per rialzare, per combattere. Lui il Padrone, noi i prigionieri nelle sue mani. Riporre tutto in Lui, perché ci custodisca. Così ci libereremo da ogni tiranno. Nell’Ordinazione sacerdotale il Vescovo prende tra le sue mani le mani giunte del consacrato e chiede ubbidienza. Promitto, risponde. Così ogni giorno a noi Gesù. Promettere rispetto e ubbidienza senza lamenti, mormorazioni, debolezze, languore, di chi si è sottomesso spontaneamente ed è lieto di servire.

20. Noi creature di Dio. Opus manuum tuarum66 (Is 64,7)

65 Santa Taide, dopo la conversione, si ritirò in convento e per tre anni digiunò pregando con queste parole: “Tu, che mi hai creata, abbi pietà di me”. L’occhio che vede tutto non può vedere se stesso o l’altro occhio suo vicino. Così le verità che abbiamo più vicine sono quelle che consideriamo meno volentieri e più difficilmente. Così è della verità della creazione.

1. Io so che il Signore mi ha creato: è così evidente che la verità mi si è fatta tanto famigliare che non provo più impressione nel meditarla. So questo come so il mio nome, ma non mi ci fermo.

2. La mia creazione non è un fatto accaduto in un tempo che non è più, ma è un fatto permanente. La creazione è la condizione continua della mia esistenza, per ogni momento, il tempo non concorre per nulla, né l’abitudine di essere potrà mai emanciparci dal Creatore. Non è un dono fattoci una volta per sempre e che domanda solo un po’ di riconoscenza: invece è una eterna dipendenza sempre in atto. Come l’eco dipende dalla parola e il riflesso dalla luce. Noi siamo nelle sue mani che continuamente ci stanno lavorando. Come il vasaio che plasma l’argilla secondo un suo disegno. Il mio essere è fatto da Lui. La docilità è perciò come la trama di tutte le altre virtù, e come il respiro della nostra vita soprannaturale e non si può dare altro vero male fuori del non volere dipendere. Non volere dipendere è per la creatura, per quanto sta in mano sua, come un gettarsi nella morte, distruggersi; come l’eco che cesserebbe di esistere nel momento stesso che non volesse ripetere il suono, rinunzierebbe allora di essere eco e cesserebbe di essere quello che era.

3. Invece questa semplicità di ubbidire non ci è abituale. Troviamo in noi volontà superbe e capricci importuni. Le mani divine ci apparvero talora un po’ dure o troppo esigenti e ci lasciamo cadere come acqua. Quasi che la nostra libertà non avesse per condizione indispensabile la sottomissione di tutto il mio essere alla legge divina; come se potessimo dirci veramente liberi cessando di essere quello che siamo, introducendo nella nostra natura l’anarchia, il caos e la dissonanza.

4. Come regolarci? non secondo le impressioni del momento ma secondo la norma suprema cioè i primi principi della vita soprannaturale: amare le mani divine che mi stanno creando senza interruzione. E sperare sempre quando agisce la Provvidenza sia nella prosperità che nel dolore, a destra o a sinistra, nella notte e nel pericolo, in hoc ego sperabo67 (Sal 26,3). Non abbandonare mai la mano creatrice; la nostra volontà sia là dove non può non essere la mia natura; essere con tutto l’affetto quello che sono nella mia essenza. La nostra vera nobiltà ci viene solo da Dio. Vi è sicurezza, difesa e neppure la morte può qualcosa.

5. Chiedere al Signore il gusto della docilità e la sete della dipendenza, leale e robusta. È il presupposto di ogni vero vigore come la dipendenza della radice dal suolo e delle foglie dal ramo. Al momento preciso in cui

67 “… anche allora ho fiducia” (Sal 27 [26], 3). la foglia si stacca diventa emancipata, libera ma anche morta e va in polvere. Così fa il peccato e l’orgoglio.

21. La riconoscenza a Dio. Semper et ubique68

1. In ogni tempo e in ogni luogo il sentimento della riconoscenza. Noi non sappiamo quanto dobbiamo a Dio e quanta luce e vigoria verrebbe alla nostra vita da una continua riconoscenza. Ma quale il motivo? Nos tibi, sta in queste due parole. Noi a lui, quanto dobbiamo!

2. Ci ha tanto perdonato: non riusciremmo a ricordare quanto. Abbiamo bisogno della misericordia come le alghe dell’oceano. Ci ha salvato dalla morte.

3. Ha frenato, arrestato le nostre follie e agitazioni e ha impedito che operassimo senza giudizio e senza scopo. Ci ha fatto sentire di avere un padrone.

4. Ha cooperato efficacemente a tutte le nostre opere buone e nelle soprannaturali ha preso l’iniziativa. È al principio di ogni nostro merito. Ci ha chiamati, guardati, visitati, consolati, accarezzati; ci ha fatto capire la preziosità della Croce.

5. E non solo per me, ma ringraziare per tutto quello che fa in tutti i cristiani. Per i torrenti di carità dei discepoli, per le meraviglie del creato e delle anime, perché per sua grazia il mondo non è tutto perduto, perché tutti quelli che ci stanno attorno non cercano la nostra rovina (quali istinti senza la grazia!). Ringraziare per quelli che sacrificando tutto vanno per la salvezza delle anime: per gli Apostoli che ha messo a nostro servizio, e per tutto quello che non vediamo. Per tutto quello che è stato fatto nei secoli scorsi e per quello che farà in avvenire, per la luce dei Superiori, per tutto il processo misterioso che la Provvidenza sta attuando nella storia del mondo.

6. Fino all’ultimo respiro e qualunque siano le infermità morali e fisiche, nella sconfitta, nel trionfo, nella monotonia, semper et ubique. Cessare sarebbe un’apostasia.

68 “Vere dignum et iustum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine, sancte Pater, omnípotens ætérne Deus – È veramente cosa buona e giusta nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno” (Cfr Inizio di ogni Prefazio). 22. La voce del Signore in noi. Vox Domini69 (Sal 28,3)

1. La voce del Signore non si può sentire che nel deserto non perché timida, ma perché profonda in noi, e solo la solitudine ci può condurre fino nel nostro interno. Che cosa sentiamo? L’incrociarsi di varie voci, quasi vocem turbae magnae70.

2. La prima cosa dunque che comprendiamo è che noi non siamo soli, ma siamo come delle gocce in una corrente immensa, quella dell’opera di Dio. E tutte le voci sono di Lui. Perché Gesù si serve dei Santi Patroni, di San Pietro e di tutti i missionari.

3. Ascoltando le voci del Cristianesimo dei secoli passati ecco, io capisco la mia nobiltà: siamo gli eredi, i continuatori. I Santi continuano in noi il loro lavoro.

4. Ascoltiamo poi la voce dei piccoli, degli orfani, dei ciechi, di tutti quelli che aspettano conforto. Noi dobbiamo interessarci di loro, avere le virtù che possono confortarli: dolcezza, energia, pietà, generosità. Amarli tutti e riconoscerli prima che abbiano parlato.

5. Ascoltiamo la voce di quelli che ci faranno del male. Il Signore per mezzo della loro voce ci domanda già di perdonarli in anticipo.

6. Ascoltiamo la voce di tutti quelli che ci hanno beneficato fin dall’infanzia. Sono stati i messaggeri e gli strumenti dell’Amore Redentore. Ci fa bene sapere d’essere amati ed è confortante riconoscere con umiltà che siamo debitori un po’ a tutti quanti vissero con noi.

7. Troviamo la voce del Signore soprattutto in noi, al fondo dell’anima nostra santificata dalla grazia in cui Egli parla come un Padrone e come un bisognoso. Come Samuele la conosciamo. E nei momenti di tentazione si è fatta sentire fedele e calma per mezzo della sua legge, dei Superiori o della nostra ragione riflessa.

8. Voce del Pastore che si udirà nel silenzio di tutte le altre quando ci chiamerà nella sera della vita. Amarla dunque ora, perché non ci faccia paura nell’ultima chiamata. Auditor … Verbi71 (Gc 1,23); e che obbedisce, oboedit.

69 “La voce del Signore” (Sal 29 [28], 3). 70 “… come una voce di una folla immensa” (Ap 19,6). 71 “Se uno ascolta la Parola” (Gc 1,23). 23. La conformità al volere di Dio. Amen

1. Da molto gli uomini la ripetono: Patriarchi, Israeliti, Gesù, gli Apostoli, e risuonerà in Cielo come sintesi di tutte le adorazioni degli eletti.

2. Noi non ne abbiamo compreso il significato e non abbiamo imparato ad amarla, a servircene per calmare le ribellioni, per nostra difesa, per sfuggire alla dispersione, al rammarico, alla morte stessa. Quando i fedeli la pronunciano in Chiesa, accettano, ratificano il latino del Sacerdote anche senza conoscerlo. È confidenza bellissima, illimitata nella Chiesa di Dio: sono sicuri che il Sacerdote non può domandare se non cose utili all’eterna salvezza, sono fiduciosi nella Provvidenza.

3. La nostra vita dovrebbe essere un Amen continuato e completo. La perfezione non consiste nell’operare cose peregrine ma nell’essere retti cioè adattarsi a tutti i voleri divini e non operare che per collaborare col Maestro. Un Amen che non si strappi mai, sempre pieghevole e forte. Racchiudere tutta la vita in un Amen. Sulla tomba sarà l’estremo addio della Chiesa dopo il requiescat in pace72.

4. L’Amen dissipa tutte le querele e tutte le esigenze e riempie l’anima di serenità radiosa. Un grande foglio bianco, in fondo un Amen, e presentare questo foglio dell’esistenza a Dio. Dalle disgrazie è così tolta l’amarezza. Dalle gioie il pericolo di uscir di strada, di dimenticarsi o di addormentarsi in esse.

5. Amen anticipato per tutto il volere di Dio, per lo scacco improvviso, per le lunghe calamità, per i disinganni noiosi di ogni giorno, per il treno arrivato tardi, per la pioggia e il sereno, per l’insonnia, la stanchezza, i calori o i ghiacci, per i compagni impazienti, negligenti ecc...

6. Quando la preghiera ci diventerà difficile e non avremo nuove formule, e tutto intorno si farà triste, senza ispirazione, spoglio e oscuro, invece d’andare lontano in prestito di Teorie balzane o di frasi inebrianti, prendiamo la testa fra le mani e sforziamoci di dire dal più profondo del cuore un semplice Amen. Amen breve come la verità, parola franca, luminosa e robusta. Con lei scompare ogni resistenza, ci sottomettiamo, cessiamo di appartenere a noi stessi. Dall’Amen di trionfo fino a quello bagnato di lagrime che chiude il Pie Jesu73. Basta questa piccola parola a far spuntare in noi le virtù.

7. Nella formula battesimale manca l’Amen, perché tutta la vita sia la risposta semplice e completa alla grazia che ci è venuta incontro prima

72 “… riposi in pace”. 73 Cfr GABRIEL FAURÈ, Requiem, Op. 48, n. 4. ancora che avessimo coscienza di esistere, perché tutta la vita sia un Amen.

24. La presenza di Gesù nella Chiesa. Ego vadam74

1. Il Signore disse che era meglio se ne andasse e che questo doveva recare ai suoi una grande consolazione. Non era meglio che il legislatore e il maestro di verità rimanesse perché non fossero dimenticate le sue parole e i suoi esempi? Eppure lo disse, expedit vobis75 Era perché scendesse lo Spirito Santo e su tutta la terra, in ogni luogo e tempo, con la medesima facilità si potesse divenire suoi discepoli. Prima lo udivano solo là in Galilea dove parlava e gli ultimi delle turbe lo sentivano solo in confuso. Era il privilegio di un piccolo numero mentre è l’unico necessario e la vita indispensabile di tutte le anime, di tutti i secoli, di tutte le nazioni. Era meglio dunque la sua presenza invisibile e la sua voce che si fa udire in fines terrae76.

2. La Chiesa continua la vita di Gesù. Ed è cattolica, universale nella sua parola e nei sacramenti. Quando rimette i peccati, è Gesù che assolve, senza che ci sia bisogno di sfondare il tetto come il paralitico. Ognuno può dirsi contemporaneo di Gesù. La pietà è vedere dove lui è presente. Appartiene a tutti, parla a tutti, illumina tutti per lo Spirito Santo. Il fondamento della vita interiore è sapere che è presente e opera nel suo gregge. Il fondamento della carità è conoscere che partecipando tutti dei suoi doni sotto l’azione della medesima grazia adottati dal medesimo Spirito noi non siamo più una moltitudine disgregata, ma formiamo una cosa sola con Lui. La Chiesa non esegue semplicemente un mandato sotto l’impulso dello Spirito Santo ma è Gesù stesso che continua l’opera sua, il suo potere, le sue parole.

3. Dobbiamo avere dunque per questa azione dello Spirito Santo il rispetto e la riverenza che avrei avuto per la presenza visibile del Verbo Incarnato. Incominciare ad amare lo Spirito e a vederne le opere meravigliose. Il grande vincolo dell’unità cattolica, il Paraclito che ci consola, che infonde la grazia, che ci rende presente il nostro Redentore, ci scopre le infinite ricchezze dell’opera sua e la pienezza delle sue perfezioni, che distrugge il passato e ricolma l’intervallo dei secoli per farci cominciare

74 “… che io me ne vada” (Gv 16,7). 75 “È bene per voi…” (Gv 16,7). 76 Nella NOVA VULGATA: “Usque ad ultimum terrae – … fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). fin d’ora nella Chiesa la visione del Paradiso. Ed ora comprendiamo perché nelle litanie dei Santi si invoca Gesù Cristo per la sua Ammirabile Ascensione e perché gli Angeli abbiano detto agli Apostoli di non cercare più Gesù che aveva conquistato i loro cuori77.

25. La preghiera vocale. Os meum annuntiabit78 (Sal 70,15)

1. La preghiera vocale è una forma inferiore di orazione, un’attività di natura assai volgare, un esercizio da principiante che i perfetti hanno il diritto e il dovere di limitare e di trascurare? Muovere le labbra e dire delle parole per commuovere il Signore non è un’anticaglia buona per i tempi andati, in cui i nostri antenati erano ancora pagani? Recitare cinquanta volte in un quarto d’ora l’Ave Maria non è forse imitare i monaci dell’Asia che borbottano le loro preghiere vocali materialmente senza riflessione?

2. La preghiera vocale è cosa umile, sì, ma è vera preghiera. Vera di tutta la verità della nostra condizione umana. E appunto perché vera fa regnare nella vita l’ardore, la pace, la giustizia. Quando arriva la sera e siamo stanchi, la mente è stanca: non è possibile salire a delle considerazioni o a delle contemplazioni. Ci rimane poveri pellegrini di prendere la corona: dirò delle parole. Come facemmo la prima volta e l’ultima quando saremo agonizzanti. Invece di tentare inutilmente pose sublimi riconosciamo il nostro stato. Così nei momenti di distrazione, sulla nave, in tram, per non perdere contatto col Signore, ripeteremo delle parole, delle invocazioni che sono come razzi luminosi e ci impediscono di smarrirci. Preghiera dei poveri, preghiera della turba, preghiera cattolica, preghiera eterna che riveste l’anima come di un’uniforme e che ci parlava come hanno fatto i nostri padri.

3. Ave Maria. Non aggiungeremo nulla. Come lo si ripete e lo si canta da secoli nella Chiesa. Tutti e sempre l’hanno recitata come facciamo noi (i soldati prima della battaglia, nei Santuari, nei cimiteri ecc…) e continuando questa immortale tradizione noi ci troviamo «in fila» con tutti i viventi e i defunti intorno a Maria Santissima. Il soldato è bello nella sua uniforme: non se la è scelta lui, a capriccio, gliel’ha imposta la patria; egli non appartiene più a una famiglia, non è più ricco o povero, dotto o ignorante: è il soldato. In lui si scorge tutta la nazione: è di tutti e per tutti, superiore a se stessi, perché sono di servizio per la patria. Così: Quando noi recitiamo il Pater, i Salmi ecc… tutte le preghiere conservateci dalla Chiesa nella perfetta somiglianza delle formule, io

77 Cfr At 1,11. 78 “La mia bocca racconterà” (Sal 70 [71], 15). non appartengo più a questa famiglia, a questo secolo ecc… io divento semplicemente il cristiano comandato in servizio per la gloria di Dio.

4. Scompaia la superbia e le nostre idee e le nostre frasi ci appaiano anguste e opprimenti, l’anima diventa cattolica. Voglia il Signore che quando ci verrà a prendere la nostra devozione sia vestita di questa uniforme che ci abbia reso simili a tutti i suoi servitori.

26. Le distrazioni nella preghiera. Omnia opera Domini, Domino!79

1. In tutti i tempi i cristiani che pregano sono tormentati dalle distrazioni, come gli Egiziani dalle zanzare. E c’è merito anche se il nemico sembra così minuscolo. Difficilissimo è liberarsi dalle piccole schiavitù, come è l’inerzia della immaginazione che ubbidisce a tutti gli impulsi che vengono dal di fuori. Quanto più un difetto è leggero, tanto meno è facile a correggersi. Si addomesticano le pantere, ma le mosche no. Facile lo scoraggiamento e la desolazione per quelli che ritengono così che la loro preghiera non conti nulla.

2. Come fare? Vi è una strada che attraverso tutte le creature ci porta a Dio. Mirare a fondo le cose, l’opera del Verbo, in tutte vi è il cantico di lode. Il Benedicite del Sacerdote che ritorna dall’altare (nomina uccelli, pesci, balene, inondazioni ecc…) raccoglie nei suoi versetti tutta l’opera del Verbo. Tale preghiera dovrebbe essere di tutti perché accoglie tutto e tutti. Non una riserva, non una restrizione: sfuggono solo coloro che volontariamente si tirano in disparte.

3. Solo la passione disordinata è cosa cattiva perché ci impedisce di vedere la realtà delle cose, perché ne abusa cioè le distoglie dal loro vero fine. Invitare a riunirsi a noi in preghiera tutte le creature. Santificare le distrazioni presentandole al Signore. Non saremmo più distratti da nessuna cosa.

4. Disgraziatamente le cose hanno su di noi una strana seduzione. Le distrazioni non sono solo l’incontrarsi con l’opera di Dio, ma nell’arrestarsi all’esteriorità delle cose senza penetrare nell’intimo. Noi vediamo tutto quello che ci sta intorno come se noi ne fossimo il centro. Se invece le vedessimo aggirarsi intorno al Principe vivente d’ogni cosa, intorno al Verbo Redentore, allora la nostra visione diventerebbe una preghiera piena di ammirazione. Se si pensa a una statua non è impossibile pensare a chi l’ha scolpita.

79 “(Benedite), opere tutte del Signore, il Signore” (Dan 3,57). 5. Anzi arrivare a trasformare la preghiera. Raccontare al Signore le nostre lunghe storie, tutto quello che ci occupa e ci dà fastidio. Se la nostra orazione invece di sfiorare la vita o anche entrare in essa, diventasse la nostra stessa vita che sente di essere sostenuta e guidata da Lui.

6. L’ultima parola che ci dicono le cose è parola che ci unisce all’opera divina. Ciascuno ha la sua parte nella grande opera che si svolge quaggiù. E la terra, questa nostra santa terra, che il Signore ha amato e ha visitato, che ha formato nei millenni, e che è nostra dimora perché Lui ci ha posti, dobbiamo amarla potentemente, gelosamente, di un amore che ci esalta e santifica e illumina perché viene da Lui, e nell’amarla lo ritroviamo e gli rassomigliamo. Benedicat terra Dominum, … terrae80.

27. Il Raccoglimento. Oculis clausis81

1. Le ore più importanti non82 state quelle spese nel parlare o nell’operare, ma quelle del silenzio. Nel silenzio l’anima prepara le risoluzioni; si determinano le disgregazioni, si temprano i caratteri inalterabilmente fedeli. In fondo ad ogni anima c’è un asilo che nessuna affezione riesce a penetrare o violenza potrà forzare. Nessuno può volere o amare o vivere per noi. La responsabilità delle azioni ci appartiene esclusivamente e contro tutte le apparenze ciascuno di noi vive solo, muore solo, pecca solo, e solo si converte.

2. Solo Dio è nella nostra intimità con la sua presenza invisibile. Quando ci crediamo soli, vediamo che la solitudine è impossibile. Colui che ci ha creati e che ci ha redenti si interessa, sorveglia, dirige e collabora. Noi siamo totalmente pervasi, occupati da Dio, non possiamo sfuggire dalle sue mani: quando chiudiamo gli occhi per non vederlo più, Egli non cessa di essere in noi.

3. L’anima che prega si raccoglie, cioè ritrova se stessa, riunisce le sue forze, si strappa a tutte le fatuità che la vogliono dominare, a tutte le mani importune e a tutti i desideri ostinati, cose tutte che la riducono in pezzi e le impediscono di essere quello che veramente è. Per raccogliersi chiudere gli occhi, per vedere tutto senza essere accecati da nulla. È un gesto tradizionale. Per pregare non fare altro, se le parole son troppo pesanti per le labbra e se non si trova nulla da dire a Colui che è la Verità. Occhi chiusi come chi ha l’annunzio di gioie inattese, come chi ha

80 “Benedica la terra il Signore…” (Cfr Dn 3,74). 81 “… ad occhi chiusi”. 82 Sono state. lutti troppo profondi per piangere, come i servitori di Dio che dormono nella pace.

4. Poter vivere così in un raccoglimento che non sia fatto di ignoranza o di inerzia, ma di concentrazione ardente e di luce interiore. L’opera di Dio per eccellenza è quella che si svolge nel segreto dell’anima e le ore di silenzio sono le ore di colloquio amoroso con Dio. Ogni volta che siamo entrati in noi stessi lo abbiamo trovato che ci aspettava. Tutto in noi lo ricorda e ci parla di Lui. La nostra vita è una sua conquista e in noi vi sono le tracce del suo amore e le reliquie della sua Incarnazione. Siamo una cosa santa per tutto quello che ha benedetto e consacrato in noi.

5. Perché i sogni stupidi, le preoccupazioni, le impazienze vengono così spesso a cacciarci di casa nostra? Perché la maggior parte dei nostri giorni passa in una sorta di sonnambulismo strano in cui i nostri movimenti non ci appartengono e i discorsi non contengono che parole vuote? Non viviamo che superficialmente. Il nostro cenacolo interno è profanato. L’infedele ha posto piede in Gerusalemme.

6. Occhi chiusi: sarà l’ultimo gesto della vita. Dirigersi alla sola luce dell’Agnello. Lucerna eius est Agnus83 (Ap 21,23). Il raccoglimento mi farà stimare la fede e mi guarirà dalle mie frenesie. Abbandonarci e confidarci alle cure di un padre. Verrà il giorno della pace. Ma non ci turberà solo se avremo compreso che nulla ci manca e non avremo permesso che i nostri desideri vadano oltre il suo volere.

28. I lontani. Surgam et ibo ad Patrem84

1. Il problema dei lontani. Interessano il Padre. Si fa più festa per il ritorno di uno di loro che per la perseveranza dei novantanove85. E noi come li dobbiamo trattare per evitare la dura severità dei farisei e la compiacenza degli scettici? La diffidenza è un dovere?

2. Tutti hanno una vocazione soprannaturale. Tutti sono sollecitati da Dio verso la luce: Dio s’affatica dentro di loro, che mette un limite al dilagare del loro egoismo, che custodisce in essi la scintilla sotto la cenere. Dio è l’amico, il Redentore degli infedeli, il Padre dei poveri, l’amico dei peccatori. Dobbiamo considerare costoro dunque come un popolo in cammino verso un termine che esso ignora ma che conosce, alla

83 “… sua lampada è l’Agnello”. 84 “Mi alzerò, andrò da mio padre” (Lc 15,18). giustizia. Amare il genere umano cui apparteniamo e offrire per lui le nostre sofferenze. Dice l’Apostolo che cercano il Signore: vuol dire dunque che la sua grazia li accompagna e che è meno lontano di quello che si pensa. Dio sta preparando i popoli d’Africa e d’Asia affinché un giorno lo conoscano e nelle loro strane religioni vi è qualcosa ancora del surgam et ibo. Dio ha organizzato un completo servizio di salute eterna per l’uomo dalle distribuzioni progressive della verità fino alla manifestazione con la sua venuta. I primi riflessi della luce sono dentro la notte.

3. Avere una vera compassione per le anime, non disprezzare mai alcun peccatore. Avere un ardente zelo per la grande impresa al di là delle frontiere visibili della Chiesa. Ci sia leggero ogni sacrificio per la propagazione della fede, perché è condurre le pecore al buon Pastore, è cooperare con Gesù che soffre e cerca con tutto lo sforzo della sua grazia di trionfare sulla debolezza umana. Bandire dal portamento e dal giudizio l’orgoglio. Essi sono un popolo vostro, o Signore, sono la vostra conquista di domani. E neppure condannare coloro che maliziosamente si danno al male. Non possiamo condannarli prima che il Signore li abbia condannati. Tutti gli uomini che incontreremo nel cammino, nelle grandi città ecc… ci parlano di Dio, buoni dipendono direttamente da Lui, cattivi inducono a pensare al Padre male abbandonato che li aspetta.

29. Avere profonde virtù. Radicati in ipso86 (Col 2,7)

1. Come la radice, verso il centro, nascosta per servire, tanto più attaccata quanto più vecchia. Verso la profondità di Dio, nella Verità e Giustizia, sempre più attaccati all’Eterno. Il nostro terreno è ben capace di farci vivere.

2. La radice non può scegliersi il terreno. La Provvidenza ci ha posti in un terreno pieno di succhi. Noi lo ignoriamo o trascuriamo, ci rifiutiamo di metter radice in impegni poco graditi, in mezzo a persone capricciose, in un dovere austero e difficile. Non abbiamo imparato l’arte di afferrarci alle asprezze delle rocce, di infiorare le rovine e di fruttificare in ogni luogo, con la docilità che si fa amare e con l’amore che si nasconde. Deperiamo perché non sappiamo abbandonarci. Ci mettiamo al lavoro per qualche momento quasi provvisoriamente, strisciamo nel terreno, non osiamo gettarci a capo fitto, con uno slancio che darebbe forza e vigore ad ogni nostra azione e ci fisserebbe in ipso. Ci rifiutiamo di porre la nostra stabilità, il nostro progresso, l’avvenire, la felicità, tutto il nostro essere in Dio solo. Facendo tutte queste riserve, deperiamo e veniamo meno. 3. Dobbiamo amare il nostro terreno proprio perché è nostro. Ogni pianta ha il suo terreno e si vale di quello. La Provvidenza ci ha segnato il posto in cui dobbiamo vivere. Radicati in immensa bontà e con la grazia-linfa.

4. Noi forse per lungo tempo ci siamo radicati in noi stessi: ed è cosa ben ridicola. Credendo di essere noi stessi il nostro terreno e di non aver bisogno né di Dio né degli altri per diventare quello che vogliamo; che Dio avesse assistito da lontano e che tutti gli altri mi fossero solo dei vicini o al più dei modelli o emuli di virtù. Invece il terreno dove dobbiamo mettere radice è tutto imbevuto dei loro esempi e virtù, e dalla Chiesa è venuta tutta l’energia e le grazie di salute.

5. Attaccarsi a Dio con un amore indefettibile, con una vera fame di tutto il nostro essere. La fame della radice che va errando sotto terra e deve trovare ciò che le manca anche a costo di morire. E tutto deve essere messo per unirsi a Lui e penetrare sempre più addentro nella Verità.

6. Ci perdiamo in cose secondarie come per far crescere la pianta si debba tirare le foglie. Badiamo a procurarci una vita esternamente corretta, senza mettere l’anima in un totale abbandono nel Signore. Non abbiamo mai intrapresa questa educazione delle radici. Essere giusti, sinceri, onesti anche quando nessuno ci può vedere, avere gran cura della ragione intima che muove, badare non tanto all’esteriorità ma a quella interna principio e rigenerazione dell’altra. Tutto può cambiare paese, occupazioni ecc..., ma la radice eterna, in ipso, è la fede ed è la carità. Ora è radice piccola insidiata anche dai buoni che vogliono strappare la zizzania, che il Signore la custodisca e la faccia crescere. E quando avremo bisogno di maggiori virtù, ricordare di penetrare più profondamente in Lui e dipendere più intimamente. Tra il terreno e la pianta vi deve essere un perfetto scambio.

30. La preghiera in ginocchio. Positis … genibus87 (At 7,60)

1. Gli uomini non amano troppo la Verità: dinanzi ad essa fuggono, come i bambini dei selvaggi nella foresta. Dobbiamo sentirci stanchi di fuggire dinanzi alla Verità. Talvolta abbiamo una strategia puerile per conservare la libertà della fantasia e del capriccio, e sfuggire la disciplina e la tutela salutare.

2. Basta! Lasciamoci conquistare, non nascondiamoci e non fuggiamo più. In ginocchio! Come il popolo devoto sta in ginocchio e quando le idee e le parole mancano supplisce così.

3. Lasciamo prendere: come potremmo fuggire con un peso di iniquità e di errori che abbiamo. Idoli, braccia cariche di false divinità, un cuore dominato da affetti disordinati. Ecco la prima liberazione. Signore liberateci da noi stessi. In ginocchio: gli animali in Oriente in ginocchio vengono liberati dal loro peso.

4. In ginocchio! perché è il modo per conquistare il suo cuore: è un gesto che non avvilisce, dice solo la verità. I flagelli per i ricchi mercanti88, ma per chi è inginocchiato c’è la protezione della sua misericordia e lo sguardo suo è promessa di risurrezione. In ginocchio si diventa quasi padroni del Signore, la creatura trionfa.

5. In ginocchio domandiamo non privilegi, non ricchezze, non d’essere liberati dal dovere o dai grandi pesi della vita. Non domandiamo che ci sia accorciata la giornata di fatiche e di godercela mentre altri soffre e muore; non di non invecchiare, di risparmiarci le rovine e tempeste. Accettare tutto quello che appartiene al noioso mestiere di uomo e portare una parte del fardello comune. Preghiamo invece di essere liberati dal male che è in noi: libera nos a malo! Male che sempre rivive in noi.

6. Dio non ci libererà di un tratto: la miseria è condizione delle nostre virtù e le nostre forze soprannaturali crescono e ingigantiscono nel combattimento quotidiano. Non di essere trasformati in un istante con un miracolo, ma di essere protetti contro noi stessi infermi fin dalla nascita con volontà ferita e stolta che si contraddice senza saperne la ragione e fugge da Dio senza sapere dove vada e cambia continuamente senza sapere quel che si voglia. Disgusto per il bene, continuo desiderio del male. E il Signore quando ci vedrà in ginocchio pieni di peccati e incapaci di parola si ricorderà di essere il Redentore e che non possiamo fare a meno di Lui perché di nostro non c’è che il nulla.

31. La Comunione. In finem89 (Gv 13,1)

1. L’Eucarestia è il centro della vita cristiana, centro cui tutto tende e da cui tutto prende origine. Nella Chiesa contro i Protestanti si affermò con vigore la presenza di Gesù nell’Eucaristia, ma alcuni a forza di sentire ripetere questo credettero che lo scopo principale del Sacramento era la presenza. Gesù presente per essere presente. 2. La Comunione venne considerata come una visita regale, che quindi concessa ogni giorno perde del suo splendore e del suo valore. Le Comunioni si fecero rare. Si diede la massima importanza a quanto poteva rendere meno indegno il fedele. Al primo posto passarono le norme circa il portamento esteriore, l’abito, la decenza interna e esterna, e perciò intere categorie di fedeli vennero escluse dalla frequenza perché male in arnese. E poi approfittare di quei momenti per presentare dopo i complimenti il foglio delle domande e di conservare a visita terminata un ricordo riconoscente.

3. Invece l’Eucarestia è prima di tutto il Sacramento in cui opera immediatamente Gesù: vi si trova presente per lavorare. Ogni sacramento opera in modo invisibile quello che significa in modo visibile e l’Eucarestia non è un simbolo ma è pane, cioè nutre. E, viceversa dell’ordinario, chi mangia sarà mutato e assimilato dal cibo.

4. Quindi fare la Comunione quando si vuole. Il nutrimento perde la sua forza quando è un bisogno? Dovremmo forse metterci a tavola più di rado sotto pretesto di non rendere il pasto una cerimonia troppo volgare? L’Eucarestia è essenzialmente cibo: chi si comunica si persuade non già che ne è degno ma che ne ha un gran bisogno. Il nutrimento non è una ricompensa, ma rimedio anticipato contro la morte: è la riserva, l’aiuto senza di che l’anima perirebbe fatalmente.

5. Non presentare molte domande, ma offrire a Gesù un largo campo di lavoro. Siano pur brevi i complimenti ma la docilità sia senza riserve e la preghiera: praesta meae menti de te vivere90.

6. Gesù viene per trasformarci intimamente. Invece di perderci in formule vuote e sentimentali, amiamo la Verità e lasciamoci formare a sua immagine. Nulla è più terribile della Verità quando vuole penetrare nella nostra vita perché ci toglie tutto d’un tratto e con un solo gesto ogni nostro potere su noi stessi costringendoci a servire Dio. 7. Gesù viene per trasformarci interamente. È l’Amore e nulla è più esigente di un amore vero, sostanziale, che non si può ingannare, ne addormentare. Attraxi te91. Lasciamo entrare liberamente questo amore dominatore assoluto, geloso, forte come la morte e vedremo che operaio indefesso, vedremo che lascerà sussistere delle nostre mediocrità, egoismi e pigrizia volontaria.

8. Gesù è quello che deve venire, ci sarà il suo giudizio senza appello. Vuole che viviamo nell’aspettativa senza fermarci nelle cose che passano come se fossero definitive ma desiderando di andare sempre più innanzi.

90 “Concedi al mio spirito di vivere di Te” (Cfr SAN TOMMASO D’AQUINO, Adoro Te devote). 91 Cfr Os 2,16. 9. Sarebbe più comodo ricevere Gesù come ospite e non volere da Lui che favori. Docilità ci vuole migliore di tutte le frasi ampollose. Quid me vis facere?92. Lavorare insieme a Gesù ed è il frutto più prezioso.

10. È cibo: non dunque prepara anime come oratori riccamente addobbati ma far spuntare in loro la fame e la sete della giustizia, eccitando in esse l’appetito delle cose divine, in invisibilium amorem rapiamur93. Prepara in noi quel vuoto profondo e salutare che la pienezza di Gesù verrà a colmare.

32. Il nostro corpo. Obsequium servitutis94

1. Per piacere a Dio non è necessario che ci mutiamo in un altro essere. L’uomo è un animale dotato di ragione. È un animale: è verissimo benché la parola sia un po’ dura nella sua semplicità. Il Signore ha voluto essere adorato e amato da questo animale ragionevole. Gli uomini avranno una devozione e serviranno il Signore in modo conforme alla loro natura. Non c’è da scandalizzarsi. Alzeranno la voce con grazia, piangeranno, rimarranno in silenzio, con le braccia in croce, si muoveranno, faranno gesti vari: cuoceranno mattoni e faranno case in onore di Dio; faranno gran rumore e suoneranno strumenti per manifestare la gioia.

2. Di tutti questi movimenti, musiche ecc... si formerà la liturgia. E chi può trovare in questo di che offendersi o sorriderne? Non abbiamo diritto di mostrarci uomini? Perché mostrare disprezzo o scandalo quando il popolo scende per le vie in processione o va in pellegrinaggio, quando canta ecc…?

3. La Chiesa rispetta tutto quello che appartiene al corpo. Anche il corpo è cosa santa perché il Signore ha divinizzato gli animali ragionevoli e perché il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Il corpo che soffre e che geme (il corpo dei martiri!) è strumento di meriti. Il Signore si è occupato dei corpi dei suoi santi (corpo di Mosé). La bocca degli Apostoli e dei predicatori, il braccio dei crociati: al suo servizio tutto il nostro corpo.

4. Purtroppo la sapienza di Dio è spesso oltraggiata. Si passa facilmente all’eccesso opposto della grossolana concupiscenza. Amare il corpo per tanti vuol dire goderne con avidità, considerarlo come un fine supremo ed eccitare in esso tutte le voglie più disordinate. Un siffatto amore

92 “Cosa vuoi che io faccia?” (At 22,10). 93 “… siamo rapiti all’amore delle cose invisibili” (Cfr Praefatio de Nativitate Domini). 94 “… l’omaggio del mio ministero” (Cfr MISSA TRIDENTINA, Pláceat Tibi, sancta Trínitas, Preghiera del sacerdote al termine della Messa). equivale ad un gran disprezzo. L’amore vero è fatto di stima e di riserbo pudico; teme di profanare quello che tocca, come con un cristallo. Vuol dire rispettarlo per quanto deve soffrire e per quanto sta preparando per noi, è il lavoratore. Vuol dire che è infermo fin dal primo peccato e che, nonostante le sue ferite, deve riconquistare ciò che ha perduto finché sarà anche lui rivestito di gloria.

5. Conclusione – preghiera: Accettate, o Signore, l’omaggio nostro di servitù. Abbiate compassione della nostra infermità, dei nostri mezzucci, pitture, statue, basiliche, capanne, canti, musiche. Voi che ci avete fatti non avrete che della tenerezza per tutti questi corpi che furono riscattati col sacrificio del vostro divino corpo.

33. La santificazione nell’ordinario. Pretiosa margarita95 (Mt 13,46)

1. La santità non consiste nelle cose straordinarie. È vero è un tesoro, ma tesoro già trovato, che non si deve cercare nella notte. Tutte le parti (non è come un protagonista) sono necessarie. Per operare ottimamente non è necessario uscire dal proprio posto. Ma noi comprendiamo poco questo e nella vita dei santi noi ci sentiamo attirati dal meraviglioso.

2. Communia non communiter96 (San Giovanni Berchmans): certo. Ma attenti a non capire male questo principio. Se si mette ugual cura a tutte le cose e non si bada all’importanza relativa delle cose, è facile restare affogati in mille minuzie e nel non mutare mai nulla l’anima diventa rigida e meccanica.

3. a) La santità non consiste nell’esagerazione, ma nel sapersi adattare con facilità a ogni sorta di doveri. b) Non mette allo stesso livello tutte le cose, ma dà ad ognuna ciò che si merita. c) Conserva nei suoi giudizi teorici tutte le gradazioni. d) Nell’esecuzione pratica si adatta a tutte le circostanze del caso e del momento. e) Lieta e posata nei passaggi e negli ostacoli si adatta, cioè ubbidisce e procede innanzi non secondo una norma personale imposta rigidamente alle cose, ma con una sottomissione intelligente e pura alla legge che Dio medesimo ha dato loro.

4. Adattarsi vuol dire essere distaccati da se stessi, accettare il lavoro ripugnante, la ricreazione allegra, la guerra senza sognare sempre

95 “… una perla di grande valore” (Mt 13,46). 96 “Le cose ordinarie, ma non in modo ordinario”. combattimenti, la pace senza spaventarsi quando suona improvvisa l’ora della lotta. Chi si adatta dipende ed è per questo che non è di nostro gusto. Il nostro modello è Gesù che visse sempre soggetto. Fare di noi uno strumento docile ai voleri di Dio.

5. In questo modo si trae profitto di tutto, non si è schiavi di nulla, si conserva la freschezza di spirito, una serena perspicacia, un vivo interesse per l’opera di Dio.

6. Mettere dunque la santità dove Dio la mette per noi. Nel vivere in questa camera d’estate e d’inverno, senza lamentarmi, nel compiere il nostro dovere, nel sorridere agli importuni, nel conservare il cuore senza amarezze e senza impazienze, nel sacrificarci per il bene di tutti, nel non pensare sempre a giudicare noi stessi come se fossimo una cosa molto rara e come se un piccolo nostro incomodo dovesse turbare l’equilibrio delle costellazioni celesti.

7. Il nostro dovere non si potrà mai dire meschino o prosastico. Viene da Dio e perciò è divino, è quella pietra rara simile al regno dei Cieli. Non è necessario che imitiamo alcuno, basta che non cessiamo di essere noi stessi, non distruggendoci nel correre dietro a fantasie insensate. Basta che siamo ben adattati ai valori della Provvidenza senza riserve e senza resistenze.

34. La generosità col Signore. Fracto alabastro97 (Mc 14,3)

1. È necessario imparare la scienza del dono perfetto. Poiché tutta la vita ha da offrirsi, nei pensieri, parole e azioni, non compiremo il nostro dovere a) Chi offre al suo Dio otto invece che dieci, non è ancora giunto a metà della sua offerta. b) Chi offre mormorando con viso triste e animo gretto è lontano dalla perfezione. Non conosce l’arte di arricchire, né quella di spogliarsi. Si mostra un fanciullo anche se è vecchio.

2. I peccatori ritornati a Dio ci sorpasseranno nel Cielo. È dal loro pentimento che dobbiamo imparare. Dalla peccatrice che entra nella casa dove è a convito Gesù sfidando le occhiate maliziose, lo sguardo severo, offre le sue lagrime e spezza il vaso d’alabastro. Non versa a goccia a goccia, no; sentite il colpo secco – fracto alabastro – come di un oggetto che va in frantumi. Versa tutto insieme il profumo. Ecco il gesto; il solo gesto veramente degno.

97 “… infranto il vaso di alabastro” (Cfr Mc 14,3). 3. Così avviene quando si fanno i voti perpetui. Il «voveo»98 con «perpetuam»99 manda in frantumi tutta la libertà.

4. La maggior parte degli uomini ignorano la bellezza e la nobiltà di questi sacrifici. Si mostra ai loro occhi come una prodigalità assurda. Dicono che: a) il Signore non richiede tanto; b) chi si limita all’osservanza dei comandamenti può certamente salvarsi; c) è meglio prevedere l’avvenire e non troncarsi di colpo ogni via d’uscita; d) spingere troppo avanti le cose è sempre un’esagerazione. Ritengono che la virtù consista pur sempre nel fuggire ogni eccesso, e la generosità che passa l’obbligo è tale.

5. Il Verbo di Dio approva l’operato della peccatrice e la propone come modello. Non facciamo dunque delle economie o del guadagno sulle offerte fatte a Lui e non misuriamogli il pane come a un mendicante. Non rifiutiamoci di abbandonare con la ricchezza d’oggi anche quelle di domani, non abbiamo paura di un’offerta totale. Che il Signore distrugga in noi lo spirito di proprietà e faccia sì che ci liberiamo dall’errore di credere di essere ciò che possediamo (altro è essere e altro è possedere) e che perdiamo ciò che offriamo a Lui.

6. Il profumo sparso nell’aria non è sprecato, anzi è l’unica maniera di renderlo utile. Fare il voto di ubbidienza è la più nobile forma di libertà: si fa la propria volontà infatti nel sottometterla ai Superiori. Chi fa i voti è più grande, più perfetto, più contento perché si è svuotato di ogni vana sollecitudine e cerca in tutto e sempre ciò che è eterno.

7. Che il Signore ci renda forti contro ogni nostra esitazione e pusillanimità e ci dia il santo ardore della peccatrice. Non permetta che le nostre voglie sregolate ci rovinino e ci facciano trascinare una vita divisa tra le creature. Ci sia il coraggio d’appartenere a Lui solo e senza riserve. Non una mano che si stringe quando deve offrire e si allarga quando deve ricevere.

35. Le virtù cristiane. Nonne et ethnici?100 (Mt 5,47)

1. I demoni hanno dato testimonianza a Gesù. Noi prendiamo una buona lezione dai pagani. Se pensiamo a loro noi ci crediamo molto migliori e

98 “Prometto solennemente”. 99 “… per tutta la vita”. 100 “Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5,47). ce ne inorgogliamo. Invece quanto poco i nostri meriti ci sollevano al di sopra! Noi dobbiamo avere una certa stima per essi che sono nelle tenebre. Non che siano tutti migliori di noi: sarebbe fare un torto alla grazia del Battesimo e alla sollecitudine del Signore.

2. Ma noi che facciamo di più dei pagani? Dov’è il meglio nelle nostre opere? C’è nella nostra vita qualcosa che passi il limite del dovere di onestà e vada oltre le virtù naturali?

3. Forse la nostra pazienza? Gli stessi pagani forse ne sentirebbero vergogna. Siamo cortesi e amabili con le persone simpatiche; ma abbiamo «sopportato» veramente per la durata di un giorno solo il prossimo per amore di Dio? La nostra meschina strategia è di fuggire gli antipatici. Ma è virtù?

4. Forse la devozione? Ma se è tanto interessata che cessa appena Dio l’ha esaudita nei suoi desideri. La nostra preghiera è sempre languida. Salvo che non si tratti di chiedere privilegi, esenzioni, o di evitare travagli penosi. Così i pagani che pensavano al loro benessere prima di prostrarsi dinnanzi alle divinità.

5. I nostri giudizi? Ma se Orazio e Cesare ritornassero e conversassero a lungo con noi, al nostro tavolino, ci sarebbe differenza tra la sapienza del cristiano e il loro criterio saturo di ambizione? a) Come loro approveremmo ciò che finisce per riuscire bene; b) giudicheremmo male quanto si oppone ai miei intenti; c) ci burleremmo degli ingenui che si sacrificano senza utilità e si lasciano ingannare dai furbi; d) sapremmo tessere piccoli o grandi intrighi per rivolgere a nostro vantaggio le buone occasioni. Tutti senza scrupolo per la medesima causa dell’egoismo.

6. È necessario che qualcosa di divino venga a distinguere le nostre opere e i nostri pensieri e che il sigillo del Signore sia sempre ben visibile nella nostra vita. Non mirare a cose fuori dell’ordinario, né desiderare di essere notati. Volere soltanto divenire degni di Lui sicché l’onta della nostra mediocrità cessi di pesare sull’opera divina. Morire a tutto quanto non è schietto e leale, a quella volgarità interessata che andiamo trascinando, che la fede e la carità si mostrino e quanti ci vedono pensino a Lui luce del mondo.

36. Il Silenzio. Silentium loquetur101

101 “Il silenzio parlerà” (Cfr Imitazione di Cristo, III, XXI, 4). 1. La grazia preveniente di Dio preparava la nostra volontà prima che questa si svegliasse alla sua propria attività. Il suo amore si è chinato su di noi fin dal Battesimo. Non siamo stati noi che ci siamo mossi per il primo incontro con Lui. Nel silenzio spontaneamente misericordioso Dio ha pensato a noi. L’amore di Dio per noi è l’origine e il principio dell’amore che noi abbiamo per Lui.

2. Per rispettare la sua azione misteriosa, il suo silenzio noi pure rispondiamo col silenzio, muto omaggio. Il silenzio è sempre più eloquente di qualunque discorso perché è più profondo e più completo.

3. Vi è il silenzio dell’attesa: aspettare la parola di Dio anche a lungo pur sapendo per fede che è tanto vicino. Aspettare la sua manifestazione. Essere in omaggio come le mute sentinelle immobili davanti alla porta del palazzo reale.

4. Il silenzio che è il risultato di un lungo lavoro. Il silenzio nelle nostre cupidigie, leggerezze, desideri, ardori, incoerenze, ostinazioni; quando una parola dura e il disinganno feriscono; quando l’urto della tribolazione abbatte. Che non è il silenzio del bimbo addormentato ma il silenzio eroico di chi subisce un’operazione. Sono questi i silenzi che danno a Dio la maggior gloria. Come i silenzi nel momento solenne della Consacrazione. Lagrime silenziose, della rassegnazione senza amarezza, silenzi che sono vere accettazioni solenni.

5. Del resto quando il Signore si mostrerà ai nostri occhi che potremmo dirgli? Quando verrà a prenderci nell’ultimo giorno potremo accoglierlo pronunciando un qualche bel discorso? Il grande silenzio dell’accettazione o del rapimento sarà la sola risposta, e prepariamola fin da questo momento tacendo.

6. Dio non aspetta che parliamo, ma che siamo: non discorsi eleganti sulle virtù, ma che le faccia crescere. Tutte le nostre opere dovrebbero mettere le radici nel profondo del silenzio interiore. Per operare con maggior merito, per assecondare in maniera più efficace la sua azione soprannaturale conviene che facciamo tacere in noi ogni rumore. E in questo silenzio c’è una vittoria sopra le nostre intime divagazioni e su tutta quella avidità molteplice che ci getta disordinatamente sulle cose esteriori facendoci perdere la pace. E vi è anche una confessione: che fuori di Lui non vi può essere quiete operosa e che non abbiamo che da lasciarci possedere da Lui per scampare alla morte. E vi è un forte desiderio, calmo e tenace di essere accolti nella dimora definitiva e eterna e di far sorgere dal caos confuso delle nostre follie la verità tranquilla e immutabile. Il nostro silenzio è la vittoria di Dio.

7. Fare penetrare questo silenzio in tutte le nostre azioni. Non per pensare a noi, né per contemplare lo splendore ideale di una legge astratta, né per ammirare le doti di chi è sempre padrone di sé e tutto regolato dalla retta ragione. Ma è per ascoltare il Signore e per lasciare il posto a Lui Verità eterna, non impedendo la libertà della sua azione. Silenzio che non è porta chiusa ma una via libera e il solo con cui noi possiamo collaborare con l’Onnipotente alla salute delle nostre anime. Le parole non si svolgeranno che dal seme gettato nel silenzio, che come espressioni del suo pensiero in noi. Nel giorno della retribuzione non se ne troveranno delle inutili.

37. Il giogo della legge di Dio. Iugum meum suave102 (Mt 11,30)

1. Sono forse parole molto temerarie per non dire assurde? Con tutti i dieci Comandamenti, i doveri del proprio stato, tutte le diverse vicissitudini della vita, il perdono delle offese e la guerra continua all’egoismo, con una natura tanto pigra fin nelle più intime fibre?

2. E infatti fra i cristiani sono molti quelli che non portano che la metà o la terza parte del fardello e si trovano già troppo affaticati e si trascinano di caduta in caduta lamentando che le esigenze delle virtù sono qualcosa di inumano e che il Signore pretende troppo dalla nostra debolezza. E dicono che se volesse meno, otterrebbe di più.

3. Ma la Sapienza infinita non si sbaglia. Certo la sua legge è un giogo; tollite iugum meum super vos103. Vi sono due maniere di portarlo: una che sembra ragionevole ed è assurda, l’altra che sembrerebbe assurda ed è completamente ragionevole. Nel primo caso è come uno che porti un giogo con due secchie solo su una spalla con la scusa d’avere maggiore libertà di movimenti. In realtà ci si sente doppiamente aggravati. Nel secondo invece si accetta l’ordine divino sopra le due spalle e disposti a portarlo tutto e rinunciando ad ogni indipendenza personale. I due pesi si fanno equilibrio e sono più leggeri. Aggiungere ai precetti i consigli e tutto diventa più leggero.

4. Alcuni vogliono salvare le apparenze ma non cedere sul controllo del loro interno. Doppia fatica in un’ipocrisia continua. Se invece si accetta tutto, si è più allegri e spediti. Altri vogliono evitare il peccato mortale ma non le leggerezze e le compiacenze giocose. Dicono di non poter rinunziare ai sogni sentimentali. È un’impresa impossibile conservare una mezza castità. Passare tra le fiamme e non riportarne scottature.

102 “Il mio giogo … è dolce” (Mt 11,30). 103 “Prendete il mio giogo sopra di voi” (Mt 11,29). Invece quelli che hanno consacrato a Dio tutti i loro affetti non si sono mai accorti di aver fatto un sacrificio. Non accogliere nel vocabolario che due parole: nulla e tutto. Tutto per Iddio, niente per noi. Non ci si deve affaticare allora nel cercare quozienti e nel fare moltiplicazioni. Peso aggiunto a peso: sono le ali dell’uccello. Onus cuncta exonerans – È un peso che libera da ogni altro peso.

38. Il perdono di Dio che torna a creare. Mirabilius reformasti104

1. L’uomo non può facilmente rassegnarsi a non essere più quello che deve essere. C’è in lui qualcosa che grida più di tutti i ragionamenti e le retoriche. Non può perciò accettare l’idea irreparabilmente un povero disgraziato. Non può ammettere che sia impossibile a Dio di guarirlo. Ed ha ragione perché il Redentore ha un’onnipotenza miracolosa.

2. Bisogna cacciare la funesta illusione dell’irreparabile. Si dice: ho sprecato la vita, vorrei avere di nuovo un’anima semplice e ingenua. So che il Padre mi perdonerà e quasi mi rincresce che mi perdoni troppo facilmente quasi io gli fossi un po’ indifferente e non desse troppo peso ai miei tradimenti. Il passato Egli lo inabisserà nel nulla, ma potrà ricostruire il mio futuro? Mi sarà concesso il diritto di aver un posto fra i suoi più cari, io che non ho aspettato le occasioni di Pietro per tradirlo? Egli non mi deve nulla, io non posso avere alcuna pretesa e oltre le pretese son fuggite le speranze. Avrei potuto offrirgli frutti maturi, ora c’è il vuoto e la tristezza che avrei potuto essere e non lo sarò mai più. I vasi cinesi anche abilmente riparati, non sono più vasi nuovi; chi va vicino vede.

3. Sion, noli flere105. Dipende da noi salire così in alto col pentimento, che non vi saremmo arrivati senza colpa. Dio non ha su noi disegni rigidi, ma pieghevoli. Egli ci aspetta ancora. Vedete l’esempio di San Paolo. Nel piano della misericordia divina non appare certo un mutilato. Ricordare ancora la Maddalena. La Chiesa nella sua festa recita il Credo perché è la fede del Redentore che l’ha salvata. Così San Pietro, Sant’Agostino, San Francesco d’Assisi, Sant’Ignazio di Loyola. Quelli che risuscita da morte, li guarisce anche dalla malattia (Lazzaro). Quando il piano dell’innocenza fu rovinato, Dio non rabberciò l’opera sua ma mirabilius reformasti. Via l’illusione dell’irreparabile. Il buon ladrone fu il primo ad entrare in Paradiso. Lo slancio, l’ardore del pentimento può essere forte come la

104 “… più meravigliosamente ancora l’hai riformata” (Cfr MISSA TRIDENTINA, Formula di infusione dell’acqua nel calice). 105 “Non piangere Gerusalemme” (Cfr BREVIARIUM ROMANUM, Dominica Secunda Adventus, Ad Matutinum in primo Nocturno, Terzo responsorio). morte; il sapere di essere perdonati è una convinzione piena di germi di ogni virtù.

39. La morte. In manus tuas106 (Lc 23,46)

1. Meditare sulla morte di Gesù. Meditare sulla nostra morte. Che ci farebbe paura se non sapessimo che non può interrompere la nostra conversazione col Signore.

2. Alcuni parlano dell’ultimo giorno con termini che fanno spavento. Altri come farebbe un pagano insistendo unicamente sullo sfacelo, la corruzione del sepolcro, sulla solitudine del cimitero. Ma l’anima non resta tra quattro assi e non si aggira tra le tombe come gli spiriti leggendari.

3. Ma non bisogna rappresentare gli ultimi momenti di vita in una luce così strana che la confidenza in Dio venga meno, o meno il timore servile. Certo quelli che hanno messo le speranze nella menzogna hanno poi tutto da temere dalla Verità. È la morte che strappa tutte le maschere. Così i viziosi e gli amanti delle cose caduche sentiranno il colpo brutale del ladro notturno che strapperà di mano i tesori di quaggiù.

4. Ci deve essere cara la lezione della morte perché certa e vera, mette ogni cosa a suo posto e illumina lo sfondo della nostra esistenza. La morte fa vedere quello che è.

5. Ma non bisogna servirsi del timore istintivo della morte per portare il turbamento in un’anima retta. Il Signore non prepara degli agguati in extremis, né avverte le anime buone quando sarà troppo tardi e non avranno più modo di ricorrere ai Sacramenti per riparare delle colpe sfuggite alla loro memoria. Non andrà trionfalmente a presentare dei conti arretrati a quelli che tante volte lo hanno supplicato di perdonarli, di indicare i loro debiti disposti a pagarli ad novissimum quadrantem107.

6. Meditare sì sulla morte, ma insieme con Lui perché è nelle sue mani che vogliamo porre fine alla vita. Meditarla ogni giorno perché ad ogni ora ci avviciniamo ad essa e moriamo a poco a poco. Se consegniamo nelle sue mani tutte le nostre giornate, i desideri, le afflizioni, le fatiche, i sacrifici, tutta la libertà, quando la morte verrà non avremo che da dargli il nostro ultimo respiro. Quindi nessun grande terrore come quelli che vivono lontani da Lui. A noi non resta che continuare a tenere tranquillamente la veste nuziale che deve rivestire l’anima nell’ora decisiva in cui compariremo davanti a

106 “… nelle tue mani” (Lc 23,46). 107 “… fino all’ultimo spicciolo” (Mt 5,26). Lui. E non ci deve spaventare il pensiero di comparire davanti a Lui perché con la preghiera ogni giorno l’abbiamo fatto; e la fede ci assicura che non è mai lontano da noi. Dopo aver faticato insieme in opere che ci sono comuni dovremo noi forse tutto d’un tratto cambiare nelle nostre relazioni intime, e ci vedremo innanzi il suo volto di compagno fedele – dedit socium108 – alterato e irritato solo perché l’anima a un suo cenno cessa d’essere intima al corpo?

7. I primi cristiani avevano una certa facilità a morire, mori expeditum genus109. Accettiamo anche noi fin d’ora che il Signore ci venga a prendere in quell’ora e in quel modo che piacerà a Lui. Non sappiamo bene quello che siamo, ma Lui ci conosce bene e può renderci degni di Lui. Si è commosso tante volte alle nostre miserie; anche in quel momento decisivo la sua carità ci accoglierà. Avvezzarci tutti i giorni a gettarci tra le sue braccia. Pregare vuol dire abbandonarsi, unirsi a Lui e staccarsi da tutto il resto. Avvezzarsi a morire pregando come dobbiamo ancora pregare nel momento stesso della morte.

40. Dov’è la perfezione. Sume et suscipe110

1. La perfezione non ha il suo termine nella spogliazione di sé ma nell’unione con Dio. Non ci fa poveri ma ricchi. La prima beatitudine è di quelli che posseggono il regno dei cieli111. La virtù è un abbellimento, un progresso, una maniera di rendersi più padroni di sé e di imitare partecipando ad essa la pienezza dell’atto divino. La morte non è l’ultimo termine (anche fisicamente) poiché c’è la risurrezione. La morte non è che una novella nascita, il passaggio all’altra vita. Morire e diminuire non sono che le condizioni necessarie per una vita ulteriore e più piena, per un accrescimento più prezioso e immediato. Non ci spogliamo del nostro «io» inferiore che per lasciare più libero il nostro «io» superiore.

2. Condurre le anime verso la generosità non è dunque mutilarle ogni giorno qualche poco di più e non si può misurare il grado del progresso nella virtù dai suoi atti che si succedono sempre più difficili come in una gara di salto. Il cammino fatto non va misurato dalla difficoltà superata, ma dalla carità che opera. Un’azione facile può valere di più d’una difficile. La

108 “…. rese compagno” (Cfr INNO Verbum Supernum Prodiens). 109 “Popolo pronto a morire” (TERTULLIANO, De spectaculis, I). 110 “Sume, Domine, et suscipe… – Prendi, o Signore e accetta…” (Cfr SANT’IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi Spirituali, n. 234. Preghiera: “Prendi, o Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai dato; a Te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: di tutto disponi secondo la tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo mi basta”). 111 Mt 5,3. migliore testimonianza di martirio non è di chi grida più forte, ma di chi è più unito con la Verità. La perfezione culmina nella carità. La quale è tutt’altro che un puro sentimento di tenerezza. È invece un abbandono completo e attivo nello stesso tempo a Lui. Dacci o Signore il tuo amore e la tua grazia, cioè il vostro amore in noi, e il nostro amore in voi. Qui è la pienezza e la sazietà. Il darsi sempre meglio per essere sempre più una sola cosa con Colui al quale ci doniamo, come il martello che si abbandona al fabbro ferraio per diventare quasi un prolungamento del suo braccio.

3. La preghiera definitiva sarà dunque la preghiera di unione. Che il Signore prenda il nostro intelletto perché i pensieri siano comuni e i giudizi siano secondo la sua sapienza. Che prenda la memoria, l’adatti e la regga perché diventi una specie di memoria divina e non ricordi che i suoi benefici. Che prenda la volontà e faccia suo ogni nostro desiderio. Che le sue ispirazioni dirigano ogni nostro movimento, che i voleri siano identici e che in nulla ci separiamo da Lui. Le nostre facoltà saranno così divinizzate e non si potrà più scorgere in noi e in Lui principi di operazione che siano differenti tra di loro.

4. E con questo non si perde niente. L’intelletto non è distrutto se contiene la fede. La memoria non è distrutta se ricorda il Battesimo e l’Incarnazione. La volontà non è distrutta se compiamo un serio lavoro spirituale: non si lavora per divenire abulici.

5. Preghiamo dunque il Signore non di ridurci al nulla ma di farci una cosa sola con Lui.

112

112 A questo punto del quaderno don Pietro inserisce il seguente indice, indicando per ciascuna argomentazione la pagina di riferimento: 1. Per essere casa di Dio. Ubi caput reclinet (Mt 8,20) 2. La preghiera, colloquio. Caenabo cum illo (Ap 3,20) 3. Dio ci ama: noi siamo suoi. Et Galileus es! (Mc 14,7) 4. Il continuo bisogno dell’assistenza divina. Pone pignus pro me juxta te! (Gb 17,3) 5. La presenza di Dio. Rabbi, ubi manes? (Gv 1,38) 6. La vera Compunzione. Verba rugitus meorum (Sal 21,2) 7. La santificazione della fatica. Fatigatus ex itinere (Gv 4,6) 8. La confidenza in Dio. Lecythus olei (3Re 17,16) 9. La santificazione delle piccole cose. Colligite frammenta (Gv 6,12) 10. La religione incontro personale. Singulis manus imponens (Lc 4,40) 11. Il lavoro della grazia in noi. Dum nescit ille (Mc 4,27) 12. La santificazione del ricordo del passato. Unde et memores 13. Le contraddizioni del nostro io. Rumor multitudinis 14. L’imitazione di Cristo. Et enarrentur mirabilia tua (Eccl 36,10) 15. La Fede. Cognoscunt me meae (Gv 10,14) 16. L’uso delle creature. Propter nos

La Parola di Dio113

1. Is 6. Dio ci salva con la sua parola. Portare la parola. Il mandato di Cristo. “Uno è il vostro Maestro” (Mt 23,10). “Vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della Verità” (1Tm 2,4). “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Importanza della parola. Parabola del seme114. “Così dice il Signore”. Oracolo. La Parola si fa carne. Il nostro ruolo. Essere Chiesa. Portare la parola, “Andate”115.

2. Coscienza di ciò che si porta «una sovrumana energia»116. “La parola di Dio è viva ecc…” (Eb 4,12). Si è collaboratori di Dio, “Dei adiutores”117 (1Cor 3,9). “Omnia magna quae dicimus” (Sant’Agostino118). Profonda umiltà. “Portiamo questo tesoro in un vaso di argilla” (2Cor 4,7).

17. La Comunione dei Santi. Communicantes. Tutti insieme come un uomo solo 18. La devozione alla Madonna. Sancta Dei Genitrix 19. Le mani giunte. Manibus junctis 20. Noi creature di Dio. Opus manuum tuarum (Gv 10,3) 21. La riconoscenza a Dio. Semper et ubique 22. La voce del Signore in noi. Vox Domini (Sal 28,3) 23. La conformità al volere di Dio. Amen 24. La presenza di Gesù nella Chiesa. Ego vadam 25. La preghiera vocale. Os meum annuntiabit (Sal 70,15) 26. Le distrazioni nella preghiera. Omnia opera Domini, Domino! 27. Il Raccoglimento. Oculis clausis 28. I lontani. Surgam et ibo ad Patrem 29. Avere profonde virtù. Radicati in ipso (Col 2,7) 30. La preghiera in ginocchio. Positis genibus (At 7,60) 31. La Comunione. In finem (Gv 13,1) 32. Il nostro corpo. Obsequium servitutis 33. La santificazione dell’ordinario. Pretiosa margarita (Mt 13,46) 34. La generosità col Signore. Fracto alabastro (Mc 14,3) 35. Le virtù cristiane. Nonne et ethnici? (Mt 5,47) 36. Il silenzio. Silentium loquetur 37. Il giogo della legge di Dio. Iugum meum suave (Mt 11,30) 38. Il perdono di Dio che torna a creare. Mirabilis reformasti 39. La morte. In manus tuas (Lc 23,46) 40. Dov’è la perfezione. Sume et suscipe 113 Questo scritto compariva dopo l’indice stilato da don Pietro; pertanto non è numerato e compreso nell’indice stesso. 114 Cfr Mt 13,1-23. 115 Mt 28,19. 116 Dagli scritti di san Guido Maria Conforti. 117 “…. collaboratori di Dio” (1Cor 3,9). 118 “Tutte le cose che diciamo sono grandi” (Cfr SANT’AGOSTINO, La dottrina cristiana, IV. 18.35). Franchezza e magnanimità. “Guai a me se non predicassi” (1Cor 5,16). Avere delle cose da Lui e credere in quello che si dice. Pregare per capire e farsi capire. Parlare con semplicità, solo il Vangelo, niente altro che il Vangelo. L’Amore conta di più dell’intelligenza e di ogni dote umana, far sentire che li si ama. Nascondere ogni superiorità. Ravvivare non solo la fede ma la speranza. Non sono venuto per i giusti. Continuare la missione di Gesù nel suo contenuto e nel suo scopo: “Mi sarete testimoni”119. Manda il tuo Spirito e sarò creato. Fare dell’uomo il cristiano. Infondere la verità, la vita, la ricchezza della grazia del Signore. Non aspettarsi consolazioni umane. “Il servo non di più del suo padrone, se hanno perseguitato me…” (Gv 15,18-20).

3. Esempio degli Apostoli. Non possiamo non parlare. Dio ci aveva chiamato ad annunciare la parola del Signore (At 16,10; At 13). Prima di parlare, ascoltare, meditare, formazione alla santità. “L’ora presente è caratterizzata da grande incertezza ideale, da grande stanchezza morale: gli ideali sono in crisi, i pensieri-forza sono sostituiti da calcoli provvisori d’utilità, la paura del peggio, quasi fosse inevitabile, guadagna gli animi, e lo sforzo morale non è di moda; la spada dello spirito sembra riposare nel fodero del dubbio e dell’irenismo; ma appunto per questo il messaggio della verità religiosa deve risuonare con maggiore vigore”120 (Paolo VI).

4. Il segreto di un vigoroso annuncio è da cercare nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo. La parola di Dio non è concessa a chi vuole, ma solo “all’uomo dello spirito” (Os 9,7), intimamente unito a Dio, al corrente dei disegni di salvezza e potente nelle parole (Lc 24,19). Lo spirito di Dio nei profeti (Ez 2,2; 3,24; 11,5). “Si fecero un cuore di diamante per non udire le parole che il Signore indirizzava loro mediante lo spirito” (Zc 7,12). Gesù è l’uomo dello Spirito promesso dai profeti (Is 11,2; 42,1; 61,1). Esercitava il ministero con la pienezza dello spirito (Lc 4,15). Con la risurrezione Gesù ha effuso lo Spirito sugli Apostoli. Il giorno di Pentecoste.

119 Cfr At 1,8. 120 PAOLO VI, Allocuzione ai parroci e ai quaresimalisti di Roma, 12 febbraio 1964. QUADERNO 13 - Caelum regula mea! (s. d.) – SOMMARIO121 1. Per essere casa di Dio. Ubi caput reclinet (Mt 8,20) 2 2. La preghiera - colloquio. Caenabo cum illo (Ap 3,20) 3 3. Dio ci ama: noi siamo suoi. Et Galilaeus es! (Mc 14,70) 4 4. Il continuo bisogno dell’assistenza divina. Pone pignus pro me juxta Te! (Gb 17,3) 5 5. La presenza di Dio. Rabbi, ubi habitas? (Gv 1,38) 7 6. La vera Compunzione. Verba delictorum meorum (Sal 21,2) 8 7. La santificazione della fatica. Fatigatus ex itinere (Gv 4,6) 9 8. La confidenza in Dio. Lecythus olei (3Re 17,16) 10 9. La santificazione delle piccole cose. Colligite fragmenta (Gv 6,12) 12 10. La religione incontro personale. Singulis manus imponens (Lc 4,40) 13 11. Il lavoro della grazia in noi. Dum nescit ille (Mc 4,27) 14 12. La santificazione del ricordo del passato. Unde et memores 15 13. Le contraddizioni del nostro io. Rumor multitudinis 16 14. L’imitazione di Cristo. Et enarrentur mirabilia tua (Eccl 36,10) 17 15. La Fede. Cognoscunt me meae (Gv 10,14) 19 16. L’uso delle creature. Propter nos 20 17. La Comunione dei Santi. Communicantes. Tutti insieme come un uomo solo 21 18. La devozione alla Madonna. Sancta Dei Genitrix 23 19. Le mani giunte. Manibus junctis 24 20. Noi creature di Dio. Opus manuum tuarum (Is 64,7) 24 21. La riconoscenza a Dio. Semper et ubique 26 22. La voce del Signore in noi. Vox Domini (Sal 28,3)………………………………. 27 23. La conformità al volere di Dio. Amen. 28 24. La presenza di Gesù nella Chiesa. Ego vadam 29 25. La preghiera vocale. Os meum annuntiabit (Sal 70,15) 30 26. Le distrazioni nella preghiera. Omnia opera Domini, Domino! 31 27. Il Raccoglimento. Oculis clausis 32 28. I lontani. Surgam et ibo ad Patrem 33 29. Avere profonde virtù. Radicati in ipso (Col 2,7) 34 30. La preghiera in ginocchio. Positis … genibus (At 7,60) 35 31. La Comunione. In finem (Gv 13,1) 36 32. Il nostro corpo. Obsequium servitutis 38 33. La santificazione nell’ordinario. Preziosa margarita (Mt 13,46) 39 34. La generosità col Signore. Fracto alabastro (Mc 14,3) 40 35. Le virtù cristiane. Nonne et ethnici? (Mt 5,47) 41 36. Il Silenzio. Silentium loquetur 42 37. Il giogo della legge di Dio. Iugum meum suave (Mt 11,30) 44 38. Il perdono di Dio che torna a creare. Mirabilius reformasti………………..45 39. La morte. In manus tuas (Lc 23,46) 46 40. Dov’è la perfezione. Sume et suscipe 47 La Parola di Dio 49 121 Inserito in fase di redazione.

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