QUADERNO 14 Caelum regula mea!1
1 “Il cielo è la mia regola”; titolo attribuito da don Pietro.
412. La preghiera liturgica. In medio Ecclesiae3 (Sal 21,23)
1. Non vi è cosa migliore della preghiera. La migliore delle preghiere è quella della Chiesa perché è la preghiera infallibile di Gesù continua e sempre in atto. Mentre l’altra è fatto in nome proprio e autorità. a) Vedere dove è questa preghiera liturgica; b) non sdegnare l’altra o sopprimerla. In cielo non ci sono solo le stelle di prima grandezza. La cosa più eccellente non è sempre e in ogni luogo la più opportuna.
2. Per pregare con la Chiesa, per operare in essa e per mezzo di essa non è necessario mostrarsi in pubblico, né è la cerimonia esterna quella che essenzialmente costituisce la liturgia. La Chiesa non è soltanto la moltitudine dei fedeli che assistono alla Messa. Il Breviario recitato in piena solitudine è ugualmente liturgico. Il vincolo che mantiene unita la Chiesa è qualche cosa di più forte e di più intimo che non il semplice contatto delle moltitudini nella Chiesa. È lo Spirito Santo: e nel deserto e nella cabina di un transatlantico chi ha ricevuto lo Spirito di Gesù può operare in suo nome.
3. Apprezziamo sempre meglio e amiamo lo splendore del culto. Amiamo ciò che è memoria e reliquia del culto antico per riverenza verso quelli che ci precedettero. La liturgia non si ispira al passato ma all’eterno. Ma amiamo pure il presente, il culto di oggi adattato alla dura necessità della vita presente. Amiamo la devozione al Sacro Cuore di Gesù, le solenni benedizioni col Santissimo Sacramento, le devozioni del mese mariano. Il Signore ci faccia comprendere quanto noi dipendiamo da tutta la liturgia che opera continuamente e dalla quale ci sono venuti tutti i tesori di grazie. Dal Santo Battesimo fino al Requiem, è sempre la preghiera della Chiesa che ci avrà salvato.
42. Decisione nel bene. Domum negotiationis4 (Gv 2,16)
1. Lo spirito di preghiera trova in noi molte resistenze. Come corde mal tese, noi, colpiti dagli avvenimenti, rendiamo suoni confusi e deboli. Quando Dio entra in noi per parlarci vi è la turba dei trafficanti che fa confusione. Traffico che definiamo esperienza saggia,
2 Le presenti riflessioni, unitamente a quelle contenute nel Quaderno 13, sono tratte con puntuale aderenza dal libro “La preghiera vissuta” di Pierre Charles. 3 “… in mezzo all’assemblea” (Sal 22 [21], 23). 4 “Non fate della casa del Padre mio un mercato!” (Gv 2,16). robusto senso comune, prudenza illuminata. Quindi guardiamo se Iddio non ci inganni e se i suoi desideri concordano con i nostri interessi. Cerchiamo di costruirci un modus vivendi.
2. Ma tutto quello che sa di traffico con Dio sa di idolatria; un Dio che si discute e si contesta non è più un Dio, ma un idolo qualunque. Dio non è Dio se non perché è l’Unico e il Sovrano Signore di ogni cosa creata.
3. Per non fare sacrifici penosi si dice: ogni altro farebbe così. In costui c’è ancora del pagano. Perché non si tratta di sapere quello che gli altri farebbero e neppure quello che hanno fatto. Non si tratta di regolare la propria condotta sui vicini, ma di ubbidire a Dio.
4. Si dice ancora: Dove si andrebbe a finire se fosse necessario sempre dire di sì? Egli non finisce la frase come dovrebbe: dire sempre di sì «a Dio». Anche in costui c’è del pagano. Gesù è morto per tutti e ha amato fino all’estremo. Non ci sono frontiere o barriere che il Signore non abbia il diritto di sorpassare. Qui sono sul mio, laggiù Egli è sul suo: ma questo non sarebbe più Dio ma un idolo, un genio dei campi e dei boschi.
5. Vi è chi in ginocchio sembra dia tutto. Tutto. Sì, tutto o meglio quasi tutto. Tutto, eccetto questo o quello. Sul piatto della generosità questo vuoto, questa mancanza pesa più di tutto quanto è stato offerto. Anche se quello che ha tenuto è una cosa da nulla, dal suo dono si allontana lo sguardo di Dio. 6. La disgrazia di una volontà indecisa. L’anima non è casa di traffico, è un santuario dove si adora Dio. Non ingombrate il portico con dei «se» e dei «ma», con riserve, dilazioni, raggiri. Ma accogliere Gesù in casa sua come un Sovrano, un Dio incontestabile, in umiltà, adorazione, semplicità.
7. La preghiera potrà dominarci in ogni azione, se penetrerà intimamente in tutta la vita, se sopprimeremo tutto quanto sa in noi di pagano e di falsa sapienza. Il posto di Dio non è solamente il primo, è il solo. Tutto il resto fuori di Lui è nulla.
43. Essere a gloria di Dio. In laudem Dei5 (Fil 1,11)
1. Siamo stati creati per lodare il Signore. La gloria di Dio è l’unico fine della nostra esistenza. Questa verità noi la possiamo prendere a criterio sicuro di tutta la vita. Che cos’è la gloria di Dio? Se la consideriamo in modo puramente umano e limitato, facilmente ci induciamo a credere che l’onore di Dio consista in tutto quello che Egli riceve dalle sue
5 “… a lode di Dio” (Fil 1,11). creature, in tutto il rumore che facciamo intorno al suo nome, alle sue opere e ai suoi attributi. E praticamente concludiamo che l’atto più perfetto sia dare noi a Lui, quasi un ampliare il suo Essere con la nostra azione.
2. Ma questa è un’illusione e una verità incompleta. Dio non è un Grande e Potente che crea degli esseri per trarne profitto personale. Il servirlo non è un obbligo venuto quasi per disgrazia addosso alla nostra natura che per legge spontanea tende al proprio bene. Non vi è antagonismo tra le nostre e le sue esigenze, tra il suo servizio e la nostra nobiltà, tra la sua gloria e il nostro vantaggio.
3. Come conciliare allora il Dio della filosofia che ha creato per sé e la sua gloria e il Dio del mio Credo che si è incarnato per noi e per la nostra salvezza? Sì, ci ha creati per la sua gloria e questo solo ci dà ragione della nostra esistenza. Dal gesto più indifferente alle decisioni più importanti la sola gloria di Dio deve essere l’unico nostro fine. Questo non conduce a distruzione di qualcosa di nostro. Ci perfeziona. La gloria di Dio non consiste nel ricevere Lui qualcosa che lo rende più ricco di prima. È Lui che dà a noi il modo di non essere più «il nulla». La gloria di Dio non è fatta delle nostre offerte, ma dei suoi doni, o anche delle nostre offerte, ma soltanto nella misura esatta in cui esse sono benefici divini. Coronas tua dona6. La gloria del sole è quella di fugare le tenebre; quella della verità è comunicarsi alle menti rendendole simili a quello che essa è; la gloria di Dio è rendere divine tutte le cose comunicando ad esse l’esistenza e la gloria. Iddio non poteva volere aumentare la sua beatitudine o acquistare qualche nuova perfezione (sarebbe bestemmia) ma fu sua gloria rendere manifesta la sua perfezione col ricolmare di beni le sue creature.
4. L’atto perfetto non il dare sarà ma il ricevere: atto che nel medesimo tempo appaga il desiderio intimo del cuore. La sua gloria e la nostra felicità non sono due termini in lotta, ma sono la causa e l’effetto, il principio e la conseguenza, l’origine e il risultato in una stessa e indivisibile operazione. È impossibile che la mia felicità consista che nel ricevere Dio nella sua pienezza. Non voler dar gloria a Dio è barricarci nell’egoismo, è non voler comprendere la luce.
5. La lode esteriore non ha senso se non esprime questo abbandono totale a Dio che tutto possiede. Il suo pensiero e il mio volere non devono fare che una cosa sola. Non abbiamo da scegliere tra noi e Dio perché non ci possiamo trovare che in Lui.
6 Cfr “Redditur quidem meritis tuis corona sua, sed Dei dona sunt merita tua – Dio paga ai tuoi meriti certamente la loro corona, ma i meriti tuoi sono doni suoi” (SANT’AGOSTINO, Gli atti di Pelagio, 14.35).
44. La tiepidezza. Semivivo relicto7 (Lc 10,30)
1. Senza numero sono quelli che si agitano continuamente. Rari sono quelli che vivono. Piccola schiera quelli che vivono conservando l’anima sana. I «tiepidi» sono la moltitudine: cioè i mediocri, i dappoco. Sono i malati, quelli che sono a nausea a Dio8; l’uomo quando tenta fuggire al suo Signore cade in mano ai briganti che lo lasciano mezzo morto.
2. Non è tiepidezza il sentirsi stanchi fino alla noia, senza slancio, senza vigore, malinconico abbattuto. La tiepidezza non è un sentimento. È una attitudine della volontà, una decisione presa con piena coscienza, uno stato voluto. Non consiste in una spossatezza addolorata, ma in un rifiuto deliberato. Si trova nelle anime che di proposito non fuggono il peccato veniale e quindi ne contraggono l’abitudine.
3. Per sapere se uno è tiepido non deve osservare per prima cosa il numero delle colpe. Tante volte dipendono dalle circostanze. E neppure la gravità delle colpe. Invece bisogna guardare la facilità, che mostra complicità preventiva. Se il peccato non scuote è segno che la volontà in segreto già l’aveva accettato. Chi non vuol rifiutare nulla a Dio, e vuol compiere tutto il suo dovere, non è un tiepido, anche se tante volte cade. Il tiepido al contrario non vuole un abbandono completo. Farà la sua offerta ma fino a un determinato limite, si sottometterà ma eccettuando dei casi. Prevede e accetta il suo deficit spirituale. Vuole evitare solo il peccato grave. Tra i due c’è la differenza come tra uno che cammina dritto e qualche volta inciampa e uno zoppo che può anche non inciampare, ma nessuno dei suoi passi è regolare. Esaminiamoci dunque se siamo degli addormentati, degli indecisi di volontà, se abbiamo la coscienza assopita. Perché se fossimo nel numero dei tiepidi, la cui assurda viltà dà a Dio nausea, nei solchi della vita non avremmo seminato che il nulla.
45. Collaborare alla Redenzione. Obviam ei9 (Mt 25,6)
1. Vi sono diverse maniere di andare incontro al Signore. Nel giorno delle Palme tutti gli vanno incontro10 e il suo ovile è pieno. Ma si deve andare
7 “… lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). 8 Cfr Ap 3,15-16. 9“… andategli incontro” (Mt 25,6). 10 Cfr Mt 21,8-9. incontro a Lui anche nel cupo della notte, allo Sposo che arriva nelle tenebre11, incontro a Giuda e alla coorte12. Nello svolgersi della nostra vita quali incontri si effettueranno? Lui è necessario incontrarlo: è l’inevitabile. I nostri difetti hanno paura della sua luce come i pipistrelli. Preferiamo le ombre del crepuscolo. Lui ci fissa col suo sguardo immutabile e onnipotente. La nostra vita dipende da questo momento supremo in cui dobbiamo comprendervi e con purità di cuore dobbiamo vedere quello che è Dio.
2. a) Egli non è un sovrano condotto in trionfo che potremmo onorare con preghiere rituali, con cerimonie pompose. b) Egli non è un padrone incontentabile e duro, un padrone che si serve per necessità e per forza. c) Egli non è un povero disgraziato che va cercando amicamente chi lo consoli e lo conforti.
3. Colui che viene verso di noi è Gesù in atto di compiere la sua missione infinita di Redentore. E domanda una collaborazione illimitata, il dono di un cuore franco e leale, il sacrificio della vita per una causa più grande della vita stessa e che merita di esaurirne tutte le energie.
4. Non dice che siamo invitati al trionfo, ma che nell’opera sua nulla c’è di compiuto fuorché la parte toccata a Lui e rimane ancora una impresa immensa che Egli ci sollecita di assumere coraggiosamente. Il mondo è tanto lontano dalla forma voluta da Gesù! Tutto incomincia appena. L’estirpazione del male altrui non si ottiene senza versare un po’ del proprio sangue e se vogliamo rispondere all’appello di Gesù incontrato per via, dobbiamo offrire e testa e braccia, e passare tutti interi nell’ingrata impresa, nella crociata oscura contro il potere delle tenebre, più crudele dell’antico Saladino. Dovremo accontentarci di vivere di fede senza salario, senza vedere l’aurora delle nostre messi né lo splendore delle nostre vittorie.
5. Tutto si presenta irto di difficoltà. E si potrebbe assolutamente schivare la fatica, senza perdere il Paradiso. Il Signore non ha chiuso le porte in faccia ai calcolatori egoisti che si accontentano di evitare il peccato mortale. Per stimolarci a offrirci interamente Egli non ci mostra che la sua grazia nel nostro cuore e la sua miseria nel nostro prossimo. Le anime generose non sono quelle dello Osanna, sono piuttosto quelle altre che senza farsi illusione sulla difficoltà da superare, pur sapendo che le pietre vive della via faranno loro sanguinare i piedi, con tutto lo slancio della volontà hanno risposto al divin Redentore: In ogni luogo, a qualunque rischio e per sempre!
11 Cfr Mt 25,6. 12 Cfr Gv 18,3.
46. La preghiera continua. Semper orare13 (Lc 18,1)
1. Pregare sempre. A questo comando ci sentiamo nello stesso tempo rapiti e sconcertati. Rapiti perché l’orazione continua metterebbe nella nostra vita una meravigliosa unità e una pace dolcissima. Sconcertati perché ci sembra che l’accordo tra l’attività esteriore e la preghiera interiore non si potrà ottenere tutto di un tratto, se si può ottenere. Per contemplare non è forse necessario sospendere il lavoro?
2. Non si deve sopprimere il problema trascurando uno dei due termini (quasi sempre la preghiera). Le fatiche dell’apostolato non suppliscono la preghiera. Se manca, si trova un vuoto; ha una funzione tutta speciale e necessaria. Così come la ricchezza non può supplire la sanità, né l’occhio fare il lavoro di una mano.
3. Alcuni per conciliare hanno un sistema di scambio continuato. Fanno attenzione a non lasciarsi assorbire dal lavoro e quando si sentono troppo immersi, alzano la mente e pregano rinnovando la retta intenzione, domandando grazia e misericordia. Poi dalla preghiera ritornano al lavoro. La conversazione col Signore come un dialogo al telefono. Indubbiamente questo fa del gran bene perché è di fatica e ci si libera di affezioni parassite e da desideri intrusi, e i difetti si cominciano a perdere.
4. Ma non è il modo migliore. La preghiera non ci deve distrarre dal lavoro, e il lavoro non ci deve distrarre dal comunicare col Signore. Non basta distogliersi periodicamente. Saltellare a questo modo fa correre il rischio di far bene né l’uno né l’altro. E poi la principale azione deve essere fatta con tutta l’attenzione; come quando parliamo, consigliamo ecc...
5. Allora cercare di mettere la preghiera non di fianco al lavoro, ma dentro, come l’anima dentro al corpo. Non relazione di semplice vicinanza o di contatto pur immediato. Non è necessario cessare dall’udire le parole per pensare al loro significato, o non badare al loro significato per udirle meglio. L’orazione e l’azione sono tra loro come il sentimento della misericordia e l’atteggiamento del braccio che soccorre l’afflitto. L’azione non deve essere altro che la manifestazione visibile dello spirito di fede da cui siamo animati. Siccome il Signore concorre ad ogni azione e il suo invito precede ogni buona decisione e la dirige, non dobbiamo distrarci dai nostri atti per trovarlo e unirci a Lui. La preghiera entrerà nella nostra vita come il fermento che non si sovrappone, ma si mescola intimamente alla pasta.
13 “… pregare sempre” (Lc 18,1). 6. La pratica è però difficile. Siamo facili al solletico delle bellezze effimere, amiamo tanto sognare e gettarci a capo fitto nelle cose di quaggiù come se fossero il nostro vero elemento. Ci avviene come a quegli insetti che affondano le zampe e le ali nelle gocce vischiose di certe piante. Siamo oppressi da desideri che il Signore non approva e non ci solleviamo più facilmente fino a Lui e ci trasciniamo nel fango come rettili. Un giorno l’anima nostra deve comunicare al corpo l’agilità della risurrezione. La preghiera può incominciare fin d’ora questa trasformazione col sopprimere la nostra schiavitù.
47. La speranza. Sperantes in te14
1. Tutta la nostra vita è un atto di speranza continua. La speranza ci è più necessaria che il pane. Colui che non spera più è peggio di un morto. Ma dove metteremo la speranza perché si conservi e i nostri desideri perché non vadano perduti e gli anni che passano non ci rubino l’energia e lo splendore dei destini che ci sono riserbati?
2. Noi buttiamo i desideri disordinatamente alla rinfusa, sprechiamo il nostro avvenire credendo di assicurarlo a degli idoli che in realtà sono caduchi e disonesti. E poi ci riduciamo a desiderare le ghiande15 e finiamo per rassegnarci alla nostra degradazione. E meravigliati e stanchi per le tante disillusioni non aspiriamo più che a un qualsiasi riposo.
3. In quanti cristiani il sorriso amaro che dice il disinganno invece del candore primitivo della fede! Dicono che l’esperienza ha insegnato a diffidare di tutto e di tutti e così invecchiano dominati da una mentalità senza gioia e del tutto pagana. Non è facile impresa il conservare la giovinezza dell’anima e l’energia nelle aspirazioni soprannaturali. I più intorno a noi sono rilassati come la corda dell’arco malteso. Non sanno più volere e vivono di abitudine meccanica. Unica loro aspirazione lasciarsi andare lungo il pendio come cosa morta. Dicono di aver desiderato anche troppo: ma non è vero. Non si può desiderare troppo quando c’è il dovere di amare con tutto il cuore e le forze. Piuttosto hanno desiderato disordinatamente, troppo poco e troppo in basso: cose credute sublimi e invece erano solo inopportune e pretenziose. Voler essere sublimi è spesso la peggiore delle volgarità. Hanno desiderato con impazienza mille piccole inezie e lo sminuzzamento dei loro desideri li ha rovinati. Castagne d’India che non servono a nulla. 4. Non bisogna sperare nella nostra buona volontà, nelle nostre risoluzioni, nella solidità dei nostri disegni di santità e nella nostra ragione. È sperare in morti o in moribondi: è stoltezza. Tutto se ne va in sacculum pertusum16 (Ag 1,6).
5. Bisogna sperare in Lui e solo in Lui. Qui sta la salvezza. Esaminare i nostri desideri che facilmente ci sfuggono e ricondurli verso l’unica cosa necessaria e giudicarli alla luce che non può errare. Se usciamo di strada è perché l’occhio ci inganna sul vero cammino. La fede dovrebbe essere così vigorosa in noi da farci vedere le cose tutte nelle loro giuste proporzioni e sopra di esse l’Invisibile che le domina tutte.
6. È un lavoro molto faticoso e penoso scoprire in noi e strappare quanto è disordinato. Mortificazione dei desideri. Non soffocarli tutti ma addomesticare la volontà selvaggia e regolare l’istinto o troppo impetuoso o troppo indolente. Non si arriva a questa armonia interiore semplicemente con l’incanto della poesia; con facilità resterebbe una anarchia mascherata, come una benda su una piaga purulenta. Non badare attorno a noi, non lasciarci dominare. Non sdegnarsi del presente, ma persuasi che l’avvenire possiede un valore senza fine e che il nostro Dio si adopera per la nostra eternità. Persuaderci che l’Invisibile non è assente e che Gesù è tanto vicino a noi. Non lasciarci guadagnare dal dispetto o dal rimpianto ma aspettare non solo il dono di Dio, ma Dio in persona come termine ultimo del nostro sforzo.
48. La perfezione. Adaperire17 (Mc 7,34)
1. Noi dobbiamo trasformarci con la grazia divina senza cercare di difendere la nostra nativa infermità. Come chi si scusa dell’inerzia dicendo di essere timido. Bisogna sfruttare il nostro talento. Troppo spesso ci limitiamo a qualche virtù negativa e quando non abbiamo fatto male ad alcuno ci crediamo santi. Chi nasconde il talento commette un delitto.
2. Non si può porre un limite al proprio progresso, cercare la soddisfazione nella virtù acquistata. Il cristiano è come un viaggiatore, non si dà riposo assoluto. Quando una pianta incomincia a crescere il suo sviluppo è molto rapido, ma in seguito l’energia si espande e per così dire si divide. E viene il momento in cui non cresce più, non può toccare le nubi. L’energia è tutta spesa nel conservarsi. Così sono certi cristiani. Per essi la virtù non consiste in una abitudine di tendere sempre al meglio, ma in una condizione di vita materialmente onesta senza disturbi e senza affanni;
16 “…in un sacchetto forato” (Ag 1,6). 17 “Apriti!” (Mc 7,34). e la perfezione come lo stato di chi ha finito di affaticarsi come i pensionati. Quando i gravi difetti esteriori non danno più grave pena e si vive in pace coi vicini, si crede di poter abbandonarsi al sonno.
3. Siate perfetti come il Padre…18 Il germe di Dio non è di energia limitata; Colui che fa crescere è l’Onnipotente. Aborrire ogni sentimento di soddisfazione di noi stessi: è come l’oppio. Formiamoci uno spirito virile che sappia giudicarsi senza compiacenze e nella luce divina. Non ripieghiamoci sul passato, sui servizi prestati, sulle imprese per dispensarci dal faticare seriamente nell’ora del lavoro comune o per cercare occupazioni più facili e più gradite. Disprezziamo noi e tutto quello che abbiamo fatto: come il soldato che non conta nulla finché non è al termine della guerra, come l’infermo finché non è guarito. Se vivessimo così saremmo sempre più energici e attivi e accetteremmo quanto ci spinge ad uno sforzo più generoso anche se domanda più spirito di sacrificio. Non rivolgersi mai indietro, «aprirsi» a tutte le potenze di luce e di bontà: non rinchiuderci con le nostre ricchezze e ripiegarci sopra noi stessi. Il Signore impedisca che ci fissiamo nella mediocrità, che sia esigente con noi altrimenti ci accontenteremo molto facilmente dei risultati, ci incastreremo e la vita si consumerà in noi soli e per noi soli.
49. Gesù principio di unità. Congregavit pereuntes19 (1Mac 3,9)
È necessario un principio di unità: è indispensabile per non perire.
1. Pereuntes. In noi c’è anarchia: desideri frustrati, progetti incompiuti così numerosi che non li ricordiamo; non siamo riusciti a nulla di preciso nella vita, ogni cosa ci abbandona incessantemente e in noi stessi tutto si va sgretolando, non siamo quasi mai coerenti.
2. Congregavit. Egli solo Gesù può riunire. Egli è superiore a tutto quello che divide. E se colpisce – tunsione plurima20 – è solo per edificare con armonia e rimettere ogni cosa a suo posto nell’equilibrio di tutto l’insieme. Riunisce gli erranti, riporta la pecorella smarrita. Ha riconciliato l’uomo col suo prossimo; ha formato la Chiesa più gloriosa e più bella di tutte le patrie. Separandosi né l’individuo né la nazione diventano migliori o più forti. E ha detto che la nostra preghiera non deve ammettere delle restrizioni. Siamo tenuti, così collaborando con Lui, a interessarci di tutti i peccatori e a domandare la liberazione dai mali per tutti coloro che soffrono.
18 Cfr Mt 5,48. 19 “… radunò coloro che erano dispersi” (1Mac 3,9). 20“… con tanti colpi” (Cfr BREVIARIUM ROMANUM, In I Vesperis, Hymnus, Commune Dedicationis Ecclesiae). L’odio, la cupidigia, i partiti, i rancori sono tutte agitazioni morbose indegne di un cuore veramente cristiano. Non fomentare mai animosità e impazienze tra di noi penetrati dalla stessa Eucaristia e dal medesimo Spirito. Non dividere gli animi con l’egoismo. Noi siamo una cosa sola e con vincoli eterni ha stretti insieme i nostri destini. Perciò quando il più miserabile dei nostri fratelli esce di strada dobbiamo dire che noi stessi un poco andiamo perduti.
3. Il Signore raccolga i nostri pensieri quando la memoria li lascia sfuggire perché ricordiamo quanto dobbiamo, quanti a noi hanno fatto del bene, e prenda dalle nostre opere o meglio dalle sue misericordie quanto conviene per pagare i debiti. Ripari le nostre negligenze, la leggerezza con cui abbiamo preso la sua legge e i suoi desideri, e ci lasci espiare quaggiù i nostri vecchi debiti dimenticati.
4. Non sappiamo neppure quello che abbiamo fatto di bene: non abbiamo tenuto la contabilità. Di interi periodi della vita non ricordiamo più nulla. Acconsentiamo di buon grado a morire così poco a poco. Ma sia Lui la nostra forza interiore e come il cemento della nostra esistenza, la nostra sicurezza, la nostra perfezione; e quando saremo «compiuti» e Lui avrà raccolto tutto e tutto mietuto, avremo da Lui per sempre la vita definitiva dell’eternità.
50. La passione di Gesù. Memor vulnerum tuorum21
1. Ordinariamente, quando si medita sulla Passione di Gesù, si insiste eccessivamente sulla descrizione, sulla pittura dei suoi dolori fisici. Anche i pagani (Pilato, soldati) lo videro soffrire, ma non si convertirono. La Passione non è soltanto un capitolo compassionevole in mezzo a tanti altri della storia dell’umanità. I protestanti romantici e i modernisti che non hanno voluto vedere che l’esteriore hanno dedicato a Lui un culto di tenerezza retrospettiva o di inutili emozioni.
2. La compassione non è cattiva, ma è insufficiente. Ci vuole la riforma della nostra vita. È la fede che ci dà il significato delle sue sofferenze: è per la salvezza del genere umano. Intuens in Ipso non tam vulnerum livorem quam mundi salutem22. È questo l’«invisibile» che non colgono i pagani. Non è uomo che soffre, ma il mio Dio che mi salva, propter nos, per me, per noi, per ciascuno di noi. Questa sofferenza è unica al mondo perché essa sola è redentrice. Non è necessario allora ricorrere alla sensibilità e sovreccitare l’immaginazione, basta pensare con soavità e tenerezza
21 “… ricordo le tue ferite” (Cfr SANT’ANSELMO, Orazione a Cristo, 58). 22 “… osservando in Lui stesso non tanto il livido delle ferite, quanto la salvezza del mondo”. filiale ai suoi dolori e comprenderli nel loro principio tutto fecondo d’amore.
3. Non più puri spettatori ma col cuore in riconoscenza immensa. Preghiera che ci può accompagnare sempre per adorarlo tacendo e benedicendolo. Il Vangelo è molto discreto quando parla di quanto hanno fatto soffrire a Gesù. E la Chiesa proibisce che si presentino in pubblico delle sue immagini che fanno orrore. I crocefissi cattolici sono semplici. Amiamo questo spirito prudente e soave e penetriamo con la fede nell’interno. Non dimentichiamo mai l’immensità dell’amore che ci ha redenti.
51. L’amore a tutta l’umanità. Plorans ploravit in nocte23 (Lam 1,2)
1. Dobbiamo avere un cuore compassionevole contro ogni sorta di freddo orgoglio. Dobbiamo temere di non amare abbastanza i nostri simili. È stato detto che la compassione è da lasciarsi alle donne e che ogni sorta di tenerezza è sospetta. I non-cristiani per soppiantare la carità cristiana parlano di altruismo, di umanità, di fraternità universale. Sono termini abusati spesso per fini menzogneri e sleali. Tante volte perciò si preferisce lasciarli da parte, come si fa dell’«amore» di cui non osiamo più pronunziare il nome, perché non v’è parola che non sia stata più disperatamente trascinata nel fango che questa pur sì nobile e celeste.
2. Ci è necessaria un’immensa compassione verso tutti gli uomini, dovremmo amare fortemente tutte le pene del genere umano. Bisogna spogliarci della grettezza d’animo e uscire totalmente dal nostro egoismo per zelare il bene del prossimo come il nostro. Ci sono lamenti sconsolati e singhiozzi nel silenzio della notte. Gerusalemme è desolata, cioè tutto l’insieme delle anime. Tutti i morti che aspettano e appartengono alla Chiesa… E noi non ci muoviamo ordinariamente che per quello che ci riguarda. Avere compassione degli ignoranti e dei perversi. Non dire male di chi pecca, non giudicare il colpevole, ma soltanto il peccato. La compassione disarma: è vero. Ma è tanto meglio. Perché non dobbiamo affilare la spada contro i nostri simili ma contro il male che li domina. Con ciò gli onesti resteranno ingannati? Ma Gesù non fu Egli odiosamente sfruttato? Bisogna che tutto quello che muore uccida anche noi qualche poco, e tutto quel che piange trovi in noi una eco ai suoi singhiozzi. La compassione deve essere prudente: vi sono tenerezze pericolose e consolazioni inopportune. Vi sono dei rigori necessari.
23 “Piange amaramente nella notte” (Lam 1,2). 3. Che il Signore ci insegni a mirare l’umanità con l’occhio con cui la mira lui. Che il nostro orgoglio umano, la cultura letteraria, la nostra dignità cristiana non possa impedirci l’amore sincero e la simpatia operosa. E oggi ancora, questo gran pianto nella notte è l’umanità che vi invoca, o Signore: sulle rive del Gange e nelle pagode delle Cina, intorno ai fuochi delle foreste e al fondo delle stive del mare, quelli che gemono non sanno neppure che siete Voi che loro mancate, come pure quelli che pregano sinceramente non sanno che Voi siete ben vicino per aiutarli nel loro pericolo. Io voglio amarli tutti costoro con Voi e come Voi, perché Voi siete il loro Signore e il Pastore universale che abbraccia tutto insieme il suo gregge con un solo sguardo. E quando tutto occupato di me stesso e dei miei interessi, sarò tentato di lamentarmi, di mormorare, di attirare sopra di me l’attenzione e di muovere altri ad aver compassione di me, fatemi sentire lontano il gemito confuso di tutti quelli che vi cercano e che soffrono e il plorans ploravit in nocte venga a spazzare via tutte queste cure che si concentrano soltanto in me. Io non voglio più disprezzare, né voglio più odiare, fuorché quello che odiate e disprezzate Voi, cioè quello che ci guasta e ci rovina. Contemplerò tutti gli uomini che sono nati nella sofferenza e muoiono nell’angoscia e che dolorano quaggiù per imparare e per dimenticare, per costruire e per distruggere, per riparare il passato e prepararsi la speranza dell’avvenire; contemplerò questi figli di Adamo, miei fratelli, e dopo di Voi potrò ben ripetere: misereor24 (Mt 15,23).
52. Il Timore di Dio e la confidenza. Modicae fidei25 (Mt 8,26)
1. Quando Gesù si avvicina ai suoi discepoli la sua prima parola non è comando, rimprovero, lamento, ma un incoraggiamento che dà la pace. Nolite timere; pax vobis26. Pace da non confondersi col quietismo. A noi viene difficile armonizzare il timore di Dio e la confidenza assoluta. Applicare il cum timore et tremore27 (Ef 6,5) conservando l’ingenuità filiale di chi non dubita della Provvidenza. Un momento il ricordo delle minacce divine ci spaventa, gli scrupoli ci fanno dubitare del perdono: poco dopo la storia del figliol prodigo ci ritorna al pensiero e ascoltiamo la parola del Signore: Ho gettato dietro le mie spalle tutti i vostri peccati28. Questo introduce qualcosa nella nostra devozione che l’uccide.
2. Il timore non è paura. Temere Iddio non è spaventarsi per i capricci di un gran re dell’Oriente la cui collera non vede ragione e che possiamo offenderlo senza volerlo. Temere Iddio e paventare la sua collera ma
24 “… esaudiscila” (Mt 15,23). 25 “… di poca fede” (Mt 8,26). 26 “Non temete: la pace sia con voi” (Cfr Lc 24,36). 27 “… con rispetto e timore” (Ef 6,5). 28 Cfr Is 38,17. questa ha un oggetto ben determinato e non per un’infrazione involontaria. È soltanto il peccato, cioè l’abbandono di Dio voluto, è l’infedeltà acconsentita.
3. Il timore non è utile quindi solo per gli incipienti ma nelle anime buone cresce ogni giorno di più, e comprendono sempre meglio che l’unico male è il peccato. E avendo tutto lo slancio di questa avversione andremo al rimedio e alla difesa. E non li troveremo in noi perché siamo la stessa debolezza; con le sole nostre forze siamo incapaci di restare a lungo anche in una semplice onestà naturale. Noi abbiamo assolutamente e fisicamente bisogno della grazia invisibile di Dio. Così più temeremo il peccato più ci avvicineremo al Padre, più confideremo. Più temiamo il precipizio, più ci addossiamo alla parete della montagna. Petra erat Christus29 (1Cor 10,4). E lasciamo ai pagani, procul a Iove, procul a fulmine…30. Il timore e la confidenza si uniscono in una sola preghiera e si confondono in una stessa disposizione d’animo. Una vita interiore in cui il timore non abbia parte essenziale non contiene che illusioni: è una bolla di sapone. E una vita che non porti alla confidenza è lavoro mal riuscito.
53. Il nostro amore a Gesù. Vos me amastis31 (Gv 16,27)
1. Possiamo cercare di applicare anche a noi queste parole, benché siamo tanto miserabili. Dal cuore umano rendendogli testimonianza, più che assediandolo di sospetti umilianti, spesso l’unico modo di far spuntare sentimenti generosi sta nel dar lodi prima che esistano di fatto.
2. Non è superbia meditarle perché troviamo che sono vere per noi. È vero noi abbiamo amato Lui che ci ha amato e redento. Ma l’amore che è in noi è la conseguenza di una sua grazia e un’ubbidienza alla volontà divina. Soltanto per gli eretici (ad esempio i pelagiani) è superbia perché lo giudicano opera dei loro sforzi.
3. Vi hanno amato, mio Dio, i vostri sacerdoti: hanno lavorato, hanno lasciato la famiglia, tutto e sono morti senza lamentarsi perché non hanno voluto altro che Voi. Vi lodiamo e glorifichiamo perché foste il centro e l’anima, la luce e la pace per tutti loro. Voi la pienezza dei loro desideri che avete soddisfatto nell’eternità. La vostra Chiesa non fu mai indegna di Voi.
29 “… quella roccia era il Cristo” (1Cor 10,4). 30 “Lontano da Giove, lontano dal fulmine”. 31 “… voi mi avete amato” (Gv 16,27). 4. Anche noi vi abbiamo amato: ci siamo sentiti onorati nel portare il vostro nome ed abbiamo sofferto nel vedervi disprezzato da molti. Vi abbiamo amato da piccini (Presepio), nell’Eucarestia (Prima Comunione), nella Confessione e vi abbiamo promesso di collaborare con Voi alla salvezza del mondo. Vi abbiamo amato Crocifisso e nella Resurrezione, e nella devozione al vostro Sacro Cuore, e nella Vergine vostra Madre e nei martiri.
5. Non permettete che cosa alcuna ci separi da Voi. Noi vogliamo affaticarci fino all’ultimo. Sì, fidatevi di noi. Ricondurremo popoli ai vostri tabernacoli, vi faremo regnare nelle famiglie, insegneremo ai fanciulli.
6. E quando sentiremo disgusto di noi e di tutto, e quando il nostro sforzo vano ricadrà su di noi e i più cari sentimenti saranno misconosciuti e saremo pieni di dubbio se non abbiamo sprecato la vita, Signore, per cacciare i demoni del crepuscolo e serbare l’anima nella luce mi basterà risentire quelle parole. E nell’agonia venite a rendere testimonianza. Vos me amastis. E che possiamo rispondere: Sì, è vero.
54. Gesù nel nostro passato. Qui erat32 (Ap 4,8) 1. Qui novus apparuit, et vetus inventus est33. Viviamo nel presente ma non possiamo abolire il passato. Ed Egli solo lo può santificare penetrandolo della sua presenza immutabile. Egli era prima che cominciassimo ad esistere; mentre si svolgeva la serie dei nostri giorni, era tranquillo e onnipotente al di sopra di tutto quello che continuamente si muta.
2. Gesù è mescolato a tutta la nostra vita; è del tutto famigliare perché è come un vecchio compagno con cui abbiamo messo tutto in comune: il dolore, la gioia, il pericolo, il successo. È il solo che possiamo trovare al fondo dei nostri pensieri e dei nostri desideri. Le nostre memorie dovrebbero essere piene di tenerezza riconoscente per l’amore divino. Egli fu la sicurezza e la guarigione. Con grande cura ci ha vegliato.
3. E noi lo abbiamo servito. Abbiamo consacrato a Lui il nostro tempo e le nostre giornate. Ma se abbiamo la gioia di un po’ di bene è ancora a Lui che ne andiamo debitori.
4. Non possiamo più fare a meno di quegli oggetti che una lunga abitudine ci ha reso familiari. Il Signore è il compagno e il padrone di tutti i nostri antenati. Santifichi tutte le nostre memorie con la sua presenza.
32 “… che era” (Ap 4,8). 33 “… che apparve recente e fu trovato antico” (ANONIMO, Lettera a Diogneto, §11). 5. Il Signore si è preso cura di noi fin da bambini e ci ha prevenuti, ha impedito le nostre follie, ci ha seguito nel nostro cammino. Mai è stato distratto o assente. Non proviamo amarezza nel ricordare quello che non abbiamo potuto avere, e le ingiustizie, gli affronti, le disgrazie. Non siamo mai dei ribelli e dei malcontenti. Ma il passato ricco solo del suo amore, rallegri invece di continuo la nostra gioventù.
55. Gesù nel nostro presente. Qui est34 (Ap 4,8)
1. Noi passiamo la vita occupati nel ritenere quel che ci fugge, nel desiderare quello che ci manca e nel piangere quello che non è più. Viviamo nel passato che ha cessato di esistere, o nell’avvenire che non esiste ancora. Viviamo dunque nel nulla e nel fantastico, dimenticando il «reale» e cioè il presente che è il solo ricco di veri beni.
2. Eppure dietro il sipario di tutte le vicissitudini una cosa sussiste che non muta mai: il Verbo fatto carne non cessa dall’abitare in mezzo a noi. Di Lui dobbiamo vivere, Lui studiare per conoscerlo. Il Cristo è pieno di freschezza perché il presente non invecchia mai. È sempre ricco di novità come la parola che si pronunzia, come la scena che si svolge, come l’aurora. I suoi discepoli col solo serbarsi fedeli a Lui partecipano di questa freschezza inalterabile.
3. Noi non amiamo il presente: ci pare troppo stretto per sostenere l’ampiezza delle nostre ambizioni. Non sappiamo che questo presente è il simbolo, è il dono del Cristo eterno e che Egli non ci verrà incontro che sotto le specie dell’hodie reale. Il giorno d’oggi lo è anche Betlem, come Pasqua non è ieri. È la nascita di Cristo che per la grazia si forma in fondo alle anime; è sempre Cristo che trionfa di tutte le morti in seno dell’umanità che Egli redime.
4. Egli parla di continuo. I protestanti hanno detto che un giorno Egli si era sacrificato, aveva perdonato i peccati, aveva parlato. Come se Egli non fosse sempre il medesimo e le sue azioni potessero essere corrotte come le nostre. Non ieri, ma oggi il giorno in cui il suo perdono ci attende; oggi la sua grazia ci parla; oggi i suoi occhi di Redentore sono fissi sui nostri. Hodie Christus natus est. Hodie melliflui facti sunt coeli35. E non è una pia immaginazione ma la verità della fede piena di consolazione, di luce, di vigore.
34 “… che è” (Ap 4,8). 35 “Oggi è nato Cristo. Oggi i cieli sono diventati melliflui” (Cfr BREVIARIUM ROMANUM, Matutinum in Nativitate Domini). 5. Purtroppo pochi hanno il coraggio di afferrare il presente e non lasciarsi andare alla sonnolenza rimettendosi al domani. Il Cristo non soffre dilazioni e indecisioni. Noi andremmo veloci se non volessimo appoggiarci che sul presente. Tempus instanter operando redimentes36. Qualche minuto ben saturo di docilità sincera e di abbandono totale vale più di lunghi anni pigri e vuoti, affogati tra le memorie di cose morte e desideri immaginari. Ad ogni istante possiamo compiere un’opera meravigliosa, e se il presente è duro e tagliente come la punta di un coltello, se non tollera che si discuta, se vuole che si obbedisca, questo avviene perché il Cristo è qualche cosa di più di una memoria cara e di una dolce speranza, è cioè un dovere inesorabile. Il Cristo presente non ci lascia sognare, né occuparci continuamente di noi stessi, a fare i giochetti della politica egoistica e a compiacerci dei nostri piccoli idoli. Egli ci lascia nelle mani della sola Verità e ci rivela con esito felice la nostra propria indigenza. Vivendo nell’oggi proveremo come un saggio dell’eternità.
56. Gesù nel nostro avvenire. Qui venturus est37 (Ap 4,8)
1. Forse non abbiamo abbastanza considerato Cristo come Colui che deve venire, come la Speranza: non abbiamo fatto penetrare in fondo il Utinam dirumperes caelos et descenderes38 (Is 64,1).
2. Egli deve venire in questa umanità che ha ricomprato completamente: l’opera sua non è ancora compiuta, molti non conoscono neppure il nome del loro Salvatore. Tutti gli apostoli hanno lavorato per questo: per preparare dei nuovi tempi che non vedranno con i loro occhi.
3. Quando noi ci consideriamo nella prospettiva del Regno che deve ancora venire, forse che troviamo ancora posto per le nostre piccole lagnanze? La nostra inerzia non ci sembra colpevole come la disinvoltura di chi ferma la macchina in mezzo alla via e si addormenta impedendo la via per chi vuol passare oltre? Quando non si è preparata la calce, i muratori non lavorano e la giornata è perduta.
4. Egli deve venire; dobbiamo amarlo perché non ci ha manifestato tutto il suo segreto: che cosa terrà pronto per quelli che lo seguono?
5. Noi ci formiamo un concetto molto meschino dell’azione del Cristo che deve venire e la Chiesa ci sembra talora come una specie di società di
36 “Coloro che redimono il tempo operando con energia”. Cfr Ef 5,16. (Nella NOVA VULGATA: “Redimentes tempus – profittando del tempo presente; facendo buon uso del tempo”). 37 “… che viene” (Ap 4,8). 38 “Se tu squarciassi i cieli e scendessi” (Is 63,19); nella VETUS LATINA: Is 64,1. beneficenza che non domanda che di vivere in pace senza far rumore e sia formata unicamente di gente per bene. Come se una particella sola della pasta potesse rimanere indifferente al lievito e la Chiesa non fosse tutta protesa verso l’avvenire, la promessa, la vita venturi saeculi, come se essa non fosse una cosa sola col Cristo che continua l’opera sua e conduce il mondo intero verso il compimento della sua parola.
6. La vita presente deve servire a prepararsi qualcosa di meglio al di là di essa. È Cristo all’orizzonte; e per questo la speranza è virtù non eresia. Tutto ci verrà per mezzo suo e sarà il «consummatum est»39 pieno di gloria quando tutti quelli che il Padre gli ha dati saranno riuniti per sempre nella casa paterna.
7. Dobbiamo capire che siamo un anello della catena; che siamo in via verso la luce e che mentre siamo in cammino non vi è posto per il riposo definitivo. Conserviamo nella preghiera profondo rispetto della sua presenza perché Lui è ricco di tutti i tesori dell’avvenire e perché il suo segreto non è ancora del tutto svelato. Consideriamoci di buon grado suoi prigionieri incapaci di sfuggirgli. Sia il Signore il nostro desiderio. Qui vi è la morte, la varietà, il lutto: ma è solo un mezzo. Quello che deve venire non è così. Noi «che passiamo» preghiamo Lui «che deve venire».
57. La sofferenza che redime. In vineam meam40 (Mt 20,4)
1. Ciò che l’uomo teme sopra ogni altra cosa non è di soffrire, né di essere disprezzato e neppure di morire; ma è di credersi o di sapersi un essere inutile. I soldati a migliaia muoiono purché abbiano la garanzia che la loro morte non sarà del tutto inutile. È una amarezza senza conforto soffrire inutilmente.
2. Ma allora quelli che per età, malattia, vizio, ignoranza non possono essere più utili a nessuno? Le nostre ore hanno tutte un valore e, per grazia sua, la maledizione degli esseri inutili non ci minaccia fatalmente e necessariamente. Non si è soli che quando si esca dal Verbo per gettarsi nella notte, né si diventa inutili che quando ci separiamo dal tronco per fare da noi. Egli è venuto sulla terra e anche prima della sua venuta tutti quelli che si uniscono a Lui partecipano di tutti i suoi beni e sono come Lui e con Lui i redentori di tutti i loro fratelli.
39 “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30). 40 “… nella mia vigna” (Mt 20,4). Nelle cose della fede il perché di quanto accade visibilmente deve essere cercato nell’«Invisibile». E colui che con le dita rosicchiate dalla lebbra non può più servire a nulla sostiene su le sue mani ributtanti la fragilità della nostra virtù. Ciò che ci lega non sta nelle relazioni naturali, ma è che siamo nel Verbo fatto carne.
3. Chi ama Gesù trova la ragione di essere di tutto l’universo, trova di esser anche egli qualche cosa nella stabilità delle stelle e nella mutazione delle stagioni, omnia … propter electos41 (2Tm 2,10). Una mezza dozzina di giusti avrebbe salvato Sodoma e Gomorra che non ne avrebbero mai saputo nulla e avrebbero giudicato cosa naturalissima il non scomparire in una pioggia di fuoco. Invece era cosa naturalissima il contrario.
4. Voi che siete chiamati inutili, voi che vi logorate in fatiche senza gloria, voi bambini morti prima di aver potuto sorridere, voi avanzati negli anni e con un piede nel sepolcro, voi malati, sofferenti, poveri, desolati, voi siete, in Colui che è invisibile e che solo veramente vale, gli strumenti più efficaci in mano della volontà redentrice ed è per vostro mezzo che Gesù continua e compie l’opera sua.
58. Valorizzare la nostra particolare inclinazione al bene. Omnia traham ad meipsum42 (Gv 12,32)
1. È cosa eccellente il correggere i propri difetti. I maestri di spirito hanno consigliato e insegnata tutta la strategia. È un lavoro che non si può sospendere senza danno. Le nostre boscaglie rimettono rapidamente radici.
2. Ma bisogna non solo chiedersi quale sia il difetto dominante, ma anche quale è la nostra inclinazione dominante al bene. I nostri difetti e le nostre virtù vivono nello stesso terreno: facendo crescere le virtù impediremo la moltiplicazione dei difetti. Vi sono strade che discendono ma quelle che vanno verso l’alto, e gli eretici che sostenevano che la nostra natura fosse totalmente corrotta furono condannati dalla Chiesa.
3. Il Signore conosce i nostri punti deboli alla grazia se ne serve come vie di accesso. Abbiamo dei punti vulnerabili. La grazia e la natura non sono ostili. Inclinazioni di spirito in cui si incontra il nostro desiderio e quello di Dio: ci può portare verso l’adorazione più umile, verso la riconoscenza, verso la povertà o l’umiltà. Ciascuna anima ha il suo calore speciale che bisogna ben conoscere e che serve per definirla meglio e più completamente che non il suo difetto predominante.
4. Quando si dice: io sono superbo, non si fa gran luce sul proprio interno: perché vi sono tante maniere di esserlo dalla vanità piena di fasto allo scetticismo che si rifiuta di mescolarsi ai simili ecc… La superbia è una parola molto vaga.
5. Procurate invece di ben determinare la vostra inclinazione spirituale. Quando avete fatto una risoluzione generosa e senza riserve, vedete un po’ che cosa vi ha determinato a farlo. C’è chi passa tutta la sua vita in continuo ringraziamento; c’è chi comprende la vita nel sacrificio come un olocausto senza riserva; chi nella povertà, chi si ripone nella pienezza divina perché Dio solo è l’Altissimo, chi nella riparazione ecc... Le inclinazioni soprannaturali sono così numerose e così varie come i caratteri umani. Il nostro gusto spirituale dà una ben definita fisionomia a tutto il nostro procedere e ci distingue da tutti gli altri.
6. Nei momenti difficili voltiamoci istintivamente verso quei punti dell’orizzonte dove può venire la luce. Quel tal pensiero riporterà vittoria sulle nostre sorde ribellioni. Unendoci sotto l’influsso di quella tale verità le resistenze si ammorbidiranno. Signore, Voi che siete onnipotente, attirate verso Voi la parte migliore che è in noi.
59. La preghiera dell’offerta. Relicto eo43 (Mt 26,56)
1. Lasciare la preghiera è lo stesso che tradire il Signore. La preghiera dovrebbe dunque essere continua. Ma noi troviamo tante scuse: è pesante, faticosa, ho troppo da fare, non so che dire. Persone frettolose, persone oziose. Ma le scuse non valgono perché la preghiera è l’anima della nostra vita.
2. Ecco: la preghiera di offerta e di accettazione. Quelli che hanno molto da fare hanno per ciò stesso molto da offrire e anche molto da accettare perché chi lavora soffre. E questa preghiera è sempre possibile: non ci distrae dal lavoro, conserva limpida la retta intenzione. Quello che si offre diviene come una cosa sacra.
3. Gli strumenti del lavoro anche questi si devono offrire: li abbiamo perché ce li ha dati lui, è la penna dello scrittore, gli incartamenti del magistrato, i quaderni dello scolaro, i registri del contabile, l’ago, il fucile ecc… ecc... Tutto questo lavoro non è indegno di Lui. Egli dunque ne è al principio: e la preghiera durerà quanto il lavoro, penetrerà nel riposo come un profumo e la vita intera diventerà un’oblazione e un omaggio senza posa.
4. C’è chi dice: nella preghiera non so che dire. È una scusa meschina; è una falsità nascosta. Prima di tutto la preghiera non è un discorso da recitare. Non è la frase che onora il Signore, né il concetto raro, né la parola forbita, né la correttezza grammaticale, né la sintassi. Non è un discorso recitato, ma proprio l’opposto, cioè un’attesa e un’accoglienza. L’attesa di Colui che viene nel mondo, l’attesa della Redenzione che si compie. Se non abbiamo nulla da dire, abbiamo molto e tutto da aspettare.
5. E dalla preghiera sono proprio da prendere via i discorsi altisonanti, quelle declamazioni forzate e un po’ ipocrite, quel giro di frasi oratorie e il tono tragico. Ma parole semplici e schiette. Se la preghiera fosse un bel discorso avremmo dei motivi eccellenti per trascurarla. Ma possiamo e dobbiamo attendere ad ogni momento la grazia attuale e accogliere in noi il progredire della sua invasione liberatrice. Aspettarlo come la guarigione dei mali, il ristoro delle deficienze, il perdono dei peccati, la corona dei meriti, perché nulla si termina e nulla si prepara di bene se non per opera sua.
6. Preghiera continua delle anime sempre aperte. Uno specchio non si stanca mai di riflettere gli oggetti; un’eco non si annoia di ripetere. Quando lo specchio ha riflesso il mondo intero è sempre pronto a ricominciare fresco e disposto come al principio: così l’eco. È la loro natura. La preghiera ci dovrebbe divenire così intima, così continua da diventare l’unione cosciente del nostro volere con il Suo. Così il pregare non ci stancherebbe più. Perché riflettere e ripetere il Signore, essere il suo specchio e la sua eco è l’intima legge della nostra natura e l’esigenza della sua grazia. E pregare è perfezione.
60. La preghiera pratica. Tene quod habes44 (Ap 3,11)
1. Bisogna orientare l’orazione verso il pratico. C’è chi dice che questo va a scapito della nobiltà e della dignità dell’orazione. Quasi che il servire fosse un rovinarsi e un difetto il raggiungere la realtà delle cose. Se l’orazione non è pratica, facilmente diventa una specie di passatempo da artista, una maniera di giocare con le nubi, una frivolezza senza alcun valore. La preghiera deve terminarsi con le opere e correggere i nostri difetti; deve restituirci o conservarci la sanità dell’anima e farci robusti e meno vulnerabili. Deve sempre finire nella risoluzione della volontà che tende al bene.
2. Che cosa è questa risoluzione della volontà? Alcuni dopo un Corso di Esercizi non osano fare risoluzioni umili. Sembra loro che dopo trenta ore passate in ginocchio, tanto raccoglimento, ecc... sia ridicolo fermarsi ad esempio sul proposito di alzarsi a tempo da letto o di sorridere agli importuni ecc... E lo diventano sul serio inventando risoluzioni sublimi e ben compatte, emozionanti ed eroiche. Che non durano, muoiono tutte nello stesso giorno, come muore tutto quello che è artificiale e male adattato.
3. La risoluzione è indispensabile, ma non è un frutto spuntato su un ramo; è come il tappo sulla bottiglia. Non è il risultato della fatica fatta, ma il custode di questo risultato. Non si fabbrica una bottiglia «per» turarla; ma è indispensabile se si vuole conservare a lungo il vino. Se la risoluzione fosse il risultato della preghiera dovrebbe essere proporzionata; ma il custode del risultato può avere delle apparenze molto modeste. Non è da scolpire finemente un tappo. Da lui non si vuole l’eleganza ma la robustezza. Se il tappo è buono, il vino è al sicuro e diventa migliore. La risoluzione di alzarsi presto sarà come l’uncino che tiene alto dal suolo e fissa tutto quello che vi si vuole appendere. Regnerà per tutto il giorno un ordine magnifico nelle occupazioni.
4. Le migliori risoluzioni non si trovano mai in gran numero: col moltiplicarle non si rendono più forti. Le risoluzioni numerose e simultanee si urtano l’una con l’altra. Cerchiamo di possedere una prudenza sobria e calma. Meglio una risoluzione che due; meglio due che tre. Al di sopra di tre no. Rendiamoci adatti alla vita che il Signore vuole da noi cacciando dall’anima quelle pretese che noi diciamo cavalleresche e non sono che deliri di fanciullo. La nostra virtù non deve stare nelle nubi né i nostri doveri sono sopra le stelle; essere giusti consiste nel pensare con Lui e nell’operare con Lui e come Lui.
61. Il tempo. Redimentes tempus45 (Ef 5,16)
45 “… facendo buon uso del tempo” (Ef 5,16). 1. Pensiamo ai nostri giorni impiegati in mille maniere diverse. Ve ne sono molti in cui nulla si trova scritto. Che dirà il Signore delle giornate oziose, Lui che giudica le parole oziose?
2. Non sprecare le giornate: valersi di ogni più piccola parte del tempo. Raccogliere anche le briciole per rispetto ai suoi doni sovrani e al tempo di vita che ci ha accordato. Non però con frenesia e angoscia nervosa, ché la precipitazione fa molti sbagli. Far rendere al tempo tutto quello che contiene. Si danno minuti più ampi degli altri perché sono più pieni e l’anima vi si trova più intensamente. Mettere tutta la buona volontà nelle più semplici occupazioni, lavorare seriamente, sacrificarsi totalmente. Potremmo salvare il mondo con il nostro sacrificio e far risuonare il passo degli istanti della nostra vita fino agli estremi dell’universo.
3. Dobbiamo rendere conto di tutta la nostra esistenza a quante creature Dio ha collocato attorno a noi. Siamo legati a tutto quello che soffre e muore quaggiù. Non dobbiamo cercare di crearci un’indipendenza contro la verità. I nostri giorni non ci appartengono.
4. I giorni terreni cadono ad uno ad uno come gocce di pioggia in un lago: scompaiono dai nostri occhi. Che Dio non permetta che una melanconia assurda venga ad impedirci di gioire nel vedere che l’olio si consuma nelle nostre lampade e che le riserve della vita ogni giorno senza posa ci abbandonano. Ci insegni a invecchiare saviamente senza lamento e senza pigrizia, non per appartarci ma per renderci sempre più grandi. Che siamo sempre alieni dall’invocare il lavoro fatto nei tempi andati come una scusa per dispensarci dal lavorare ogni giorno con tutta l’energia che ci resta.
5. Forse i giorni passati non hanno maturato granché. Siamo restati logori senza comprendere quanto avviene attorno a noi. E i nostri giorni sono la moneta del nostro riscatto, sono l’unica risorsa per fare il bene. Dovrebbero essere tutti coniati con l’effigie divina. I fannulloni sono degli assassini: di se stessi e dei loro prossimi. Non basta uno sforzo rilassato; una volontà fatta a sbalzi non salva dall’essere vili. Chi è occupato è sempre pronto a tutto.
6. Se il Signore ritornasse sulla terra come giudicherebbe i nostri metodi di vita? Avrebbe parole di misericordia per tutti quelli che si sacrificano senza far parola per il bene altrui. La loro virtù non è sempre molto fina e hanno della polvere: non hanno avuto il tempo di raffazzonare meglio la vita. Ma hanno saputo tesoreggiare il tempo e i loro minuti sono più preziosi che le lunghe giornate dei farisei di protocollo. Non hanno mai dato parole di lamento quando si è richiesto loro di servire degli sconosciuti: si sono sacrificati con tanta naturalezza che quelli hanno stimato superfluo ringraziarli.
62. Fare provvista. Oleum secum46 (Mt 25,3)
1. Non accontentarsi dello stretto necessario. Aumentare le proprie risorse. Avere delle provviste. Molti non vogliono questo perché è un peso. Si trascinano rimanendo piccini piccini senza sicurezza e senza garanzie. Per non correre pericolo di penuria improvvisa è necessario pregare molto, amare molto e possedere virtù in gran copia. Quando la fiamma dell’energia si abbassa e si spegne ci vuole un gran desiderio che non è ancora manifesto nelle opere e che sta in fondo all’anima come in riserva. La tenacia nasce da una buona provvista di volontà energica.
2. Perché la vita sia luminosa conviene che abbiamo del lavoro piuttosto abbondante più di quello che potremmo fare. Così tutta la nostra attività trova modo di spiegarsi, e non si perdono i giorni in oziosità.
3. Riescono a brillare sempre quei cristiani che riescono a rinnovarsi. Ogni cosa di quaggiù ci logora, anche la pratica della virtù e talora siamo presi dalla stanchezza di essere leali e onesti, di batter sempre la via stretta e di non poter voltare gli occhi verso l’orizzonte delle gioie mondane. Tutto può essere rinnovato senza posa, come la fiamma che non si stanca di brillare e si spegne solo se non è alimentata. La grazia di Dio è il nostro olio e se noi coopereremo con essa la nostra volontà brillerà senza interruzione.
4. Facciamo provvista di rassegnazione, di preghiera perseverante, di scienza ben provata e di consiglio benevolo. L’utilitarismo del momento è un controsenso e colui che non ha che il necessario per vivere durante un solo minuto non è altro che il moribondo agonizzante. Non bisogna avere a sdegno il lungo studio astratto, i calcoli faticosi e precisi, l’osservazione metodica e tranquilla, l’esercizio continuo con le sue ripetizioni insistenti. Bisogna sì venire al pratico, ma la pratica non si oppone alla teoria e allo studio e per essere apostoli non è vero che non si abbia bisogno di lunghe riflessioni e di essere perseveranti e calmi.
5. A prima vista non si distinguevano le fiamme delle vergini prudenti da quelle delle stolte. Ma si capì più tardi al momento della crisi. Ci liberi il Signore dall’avarizia sciocca nell’acquisto delle virtù. Sia lui la nostra ricchezza che riempia il vuoto che si fa in noi e la sua potenza e la sua ispirazione ci posseggano intimamente. Dobbiamo durare fino all’aurora e tutta la notte continuamente brillare. Lui non ammette che oggi siamo meno generosi di ieri: le sue esigenze non mutano mai e non possiamo essere sensati se decidiamo di amarlo di meno, di far meno
46 “… con sé l’olio” (Mt 25,3). bene al prossimo. Non tollera che noi diminuiamo ed esige che non discendiamo mai al basso.
63. La gioia. Gaudium … plenum47 (Gv 16,24)
1. Egli ci ha detto che questo sarebbe l’ultimo termine della sua rivelazione e che di tutto quello che ci annunciava avremmo dovuto fare motivo di allegrezza, anche dei suoi comandamenti, anche della notizia della sua dipartita da questa terra48. Il gaudio è parola di eternità; vi è un modo di possederlo che né la morte né il dolore ce lo potranno rapire mai più. L’anima cristiana è sempre in festa. La Vergine, causa della sua letizia, è invocata con un nome divino: Dei genitrix. Il Vangelo, la buona novella, si chiude in San Luca con la preghiera dell’allegrezza: cum gaudio magno49 (Lc 24,52). La virtù senza sorriso interiore e senza slancio di cuore contento non è ancora giunta alla sua forma perfetta.
2. Eppure è strano che in generale noi facciamo sì cattiva accoglienza al gaudio santo. Lo consideriamo come una cosa insolita o pericolosa e ci pare come una specie di vanità nella dimenticanza dei difetti presenti e delle miserie passate. Ma il gaudio è uno dei frutti dello Spirito Santo. Accettarlo è portare rispetto al messaggio di Gesù. Siamo dei pusillanimi perché se niente ci manca dobbiamo apertamente confessarlo.
3. Se siamo felici allora si rinuncia a quanto gli uomini desiderano con tutte le forze, a farsi compatire e consolare, alla posa così lucrativa del mendicante, a farsi imprestare l’energia altrui. Noi siamo sempre un po’ equivoci: vorremmo restare ricchi e avere i privilegi dei poveri; essere sani e farci compatire un po’ come ammalati. Quando diciamo che la gioia non è fatta per noi siamo bugiardi e bestemmiamo la parola di Gesù.
4. Il vero gaudio cristiano è ben più profondo del dolore. C’è dentro di noi un punto ben profondo dove possiamo sempre incontrare la grazia e aderire a Dio. Ma per arrivare a questo punto ci vuole sovente molto coraggio e per arrestarvisi è necessario l’eroismo. Il gaudio non è un sentimento piacevole o una eredità che non costa nulla. Nasce invece da un principio di fede e si conquista col sangue. Per restare calmi e sicuri nella tempesta (i pastorelli virgiliani erano degli ingenui), per sorridere al cospetto della morte propria e dell’altrui
47 “… perché la vostra gioia sia piena” (Gv 16,24). 48 Cfr Gv 14,1. 49 “… con grande gioia” (Lc 24,52). bisogna scendere molto in fondo per trovare la rassegnazione alla Provvidenza. Oh! la gioia di sapere che il Signore si serve di noi, che nulla si perde di quanto operiamo, che le otto beatitudini durano un’eternità e che Gesù e ciascuno di noi non formiamo che una sola cosa. La volontà divina ci assegna il lavoro da compiere fino all’estremo della vita e così il nostro dovere custodirà la nostra gioia.
5. Ma noi spesso partiamo da un principio assurdo: i nostri desideri. Diciamo che la felicità è vederli soddisfatti e ci lamentiamo che gli uomini e le cose li ostacolino e ce la prendiamo con Dio che ci abbandona. Finalmente dichiariamo che la felicità è una vana parola. Non è il Signore che ci abbandona, ma noi, che non l’abbiamo considerato come l’Essere primo e il Sovrano Signore e gli abbiamo presentato con insistenza un nostro disegno ben finito da eseguire. Abbiamo commesso il duplice errore di prendere la creatura come un Dio e di trattare Dio come se fosse una creatura. La felicità consiste invece nell’essere noi quello che siamo e la nostra natura non esige altro che servire il Signore.
64. Il mondo e Cristo. Omnia in Ipso constant50 (Col 1,17)
1. Che relazione vi è tra noi e «le cose» cioè l’infinità varietà della creazione? Questa natura in mezzo alla quale sembriamo stranieri e che non s’accorge della nostra sofferenza e del nostro pensiero, così vicina e così lontana? Dicono che le cose sono alla mente dell’uomo oggetto di scienza e per la sua volontà strumento di azione. Ma a qual fine tende tutta questa attività? Come potremo divenire una cosa sola con l’infinita varietà degli esseri? Perché anche se sembra che non concordiamo troppo è perché siamo come due suoni, apparteniamo ad un insieme più vasto, facciamo parte di un’armonia più sublime.
2. All’inizio Dio aveva raccolto attorno all’uomo tutta la Creazione, amica e benevola; per lui tutto era stato creato e spontaneamente si volgeva a lui. Dopo il peccato quando l’uomo profanò il mondo e rese le cose contrarie al Creatore non rimase più nulla di quell’istinto meraviglioso che incatenava gli elementi e incantava tutte le cose. L’accordo tra le creature e l’uomo si è guastato del tutto e l’uomo s’andrà cercando invano in questo mondo che si rifiuta di conoscerlo e non troverà più altro che ribellione e resistenza, contrarietà e castigo.
50 “… tutte (le cose) in lui sussistono” (Col 1,17). 3. Ciò che era distrutto fu riparato dal secondo Adamo. Il Verbo eterno che sostiene tutto con la sua potenza è l’erede di tutte le cose, quem constituit heredem universorum51, e il suo nome abbraccia ora tutto il creato e costituisce la sua ragione di essere. Noi non possiamo più essere giusti cioè veramente «noi stessi» se non per suo mezzo, e se fuggiamo incontriamo una seconda morte. Il mistero dell’universo non fa che narrarci la storia della redenzione. La missione di Gesù non è solo di insegnarci, spronarci a ben vivere, dare sanzioni, ma di penetrare ogni cosa per darle il suo essere e il suo valore e di ricondurre ogni cosa al principio di luce donde proviene, et per eum redire omnia in integrum, a quo sumpsere exordium52. Il compimento di una cosa essendo un termine dà il tono a tutto quello che precede. La scienza è dunque una cosa santa e Gesù si fa sempre più grande nella proporzione della sua missione infinita. Redentore del nostro corpo e della nostra anima e Salvatore del mondo lo ha strappato alla contraddizione del peccato. Ciò che avviene in noi è anche riscatto dell’universo. Estasi dunque nella contemplazione del mondo, abbracciare nella sua immensità l’opera del Redentore.
65. L’abnegazione. Omnibus omnia53 (1Cor 9,22)
1. L’abnegazione di se stessi può essere intesa come una specie di annientamento tendente al nulla, o se ne può fare una specie di progressione che abbia per limite l’unione con l’Infinito.
2. Nel primo senso (Quietisti) rinnegare se stessi non è che sparire, disinteressarsi di tutto, non più reagire e diventare buoni a nulla. Ma il non volersi occupare di nulla equivale a commettere ogni sorta di delitti continuati. Non si può restare indifferenti tra il vero e il falso, tra la giustizia e la violenza. Non posso trascurarmi, né lasciarmi in balia di altri. Dobbiamo avere cura di noi come di cosa che ha un valore infinito. Né possiamo trascurare il prossimo, dobbiamo soffrire con quelli che soffrono e riprovare il male che si fa. Altrimenti si è egoisti. Colui che non pensa che a sé (rinunciare in tal modo agli uomini è la più vile delle ipocrisie – odi profanum vulgus, et arceo54) e alla propria quiete e diletto o solo alla sua virtù si mette in opposizione alla carità universale imposta da Gesù Cristo.
51 “… che ha stabilito erede di tutte le cose” (Eb 1,2). 52 “Tutto ritorna alla sua integrità per mezzo di lui, che è principio di tutte le cose” (Cfr VEGLIA PASQUALE, Orazione dopo la Profezia Seconda). 53 “… tutto per tutti” (1Cor 9,22). 54 “Odio il volgo profano, e lo tengo lontano” (ORAZIO, Odi, Libro III, 1). 3. Dobbiamo invece rinnegare noi stessi col far saltare tutti i nostri interessi gretti e piccini per far penetrare tutta la nostra vita nell’opera intera di Gesù.
4. Chi rinuncia con l’ubbidienza religiosa al proprio giudizio non rinuncia ad ogni attività mentale, anzi pronuncia di fatto un giudizio. Si propone di giudicare tutte le cose secondo un criterio superiore. Ubbidirà ciecamente non già perché non vede nulla ma perché non vede che una cosa sola: il fine supremo, il bene unico. Non schiavo: ma l’unico modo per servire con la dignità del padrone.
5. Chi fa il voto di castità si priva del diritto di amare una donna come se fosse sua e di concentrare il suo affetto e le sue cure in una persona sola. Non ha di mira di fuggire il peso di una sua famiglia. Ma non avendo legato il suo cuore a persona determinata, potrà a cuore aperto mettersi al servizio di tutti; potrà amare senza concupiscenza, perché si è proposto di mantenersi sempre libero; potrà accogliere in cuor suo le confidenze e le angosce del prossimo e ciascuno lo potrà chiamare Padre, perché tutti lo chiameranno Padre nel medesimo senso altissimo e universale. Il voto di castità l’ha fatto più grande, come avverrebbe per una fiamma che invece di restare prigioniera in una piccola lanterna cieca, e di illuminare soltanto un piccolo canto del villaggio, fosse portata in alto in mezzo alle stelle donde illuminerebbe col suo raggio tranquillo mille e mille occhi rivolti verso di essa.
6. Il Signore ci insegni la conoscenza superiore di cui parlava San Paolo. Dio è un oceano e un abisso: abbandonarsi alla sua pienezza. Non è abbassarsi il rimettere nelle sue mani l’opera sua, la nostra vita, gli affetti, il tempo, le lagrime e tutto quello che non avrebbe potuto servire che a noi.
66. Lo studio. Ego sum veritas55 (Gv 14,6)
1. La verità è anzitutto una persona, è Dio stesso. Gesù poteva dire senza metafore e senza esagerazione: “Io sono la Verità”, come pure è personalmente e sostanzialmente la Giustizia. Di conseguenza la ricerca del sapere e l’equilibrio sociale del mondo, invece di appartenere al puro dominio delle idee astratte, prendono un senso cristiano e concreto e diventano l’edificazione del Corpo di Gesù sulla terra.
2. Come dunque possiamo santificare lo studio? e tutte le ricerche, letture ecc… possono riferirsi a Lui? Non basta non distrarsi. Un passo è la retta intenzione. A maggiore sua gloria, per il bene delle anime. La scienza ha
55 “Io sono … la verità” (Gv 14,6). un valore morale per il motivo che spinge a studiare e un valore apologetico per il buon nome della Chiesa. Il lavoro sarà suo perché Egli benedice l’intenzione e perché senza di esso si cade nell’ozio.
3. Ma se fosse così la scienza sarebbe come un mazzo di fiori valutato a peso: l’elemento del fiore sarebbe abolito. Ma la Verità non è una cosa astratta, è una persona, è lo stesso Redentore. Allora, indipendentemente dall’intenzione, il conoscere la Verità è cosa buona e conoscere il vero vuol dire edificare la Verità, cioè Gesù in mezzo agli uomini. La scienza diventa così un lavoro sacro che si può profanare come si profana il Pane eucaristico, ma che porta in sé un’intima legge la quale si confonde colla stessa coscienza del Salvatore. La scienza deve terminarsi in quella conoscenza che forma la vita eterna e la completa rivelazione di quello che siamo. E tutto quello che la distoglie da questo fine è cosa sacrilega.
4. Perciò chi non ha altri doveri più urgenti e immediati non può lasciare la mente senza cultura col pretesto che la virtù basta da sola. E se Dio tratta con maggior misericordia gli ignoranti è per ricompensarli del bene di cui furono privati per disposizione della sua Provvidenza. In qualunque tempo, luogo o maniera vien detta un po’ di verità, sempre si balbetta cosa che appartiene alla persona del Verbo eterno che è la stessa verità. Abusare della scienza non vuol dire studiare troppo, ma studiare malamente, cioè darci una scienza falsa: oppure non badare ai doveri che l’accompagnano.
5. Ciò che si è detto della scienza, si deve dire di ogni altra attività umana. Gesù è la giustizia ed è la vita, come Dio è l’essere assoluto. Dal colpo di martello del fabbro fino al testo del Codice, tutto ciò che tende verso l’ordine, verso la pace e verso l’equità, tutto ciò che si eleva e si migliora: tutto si eleva e tende verso Dio nostro Signore, la Verità incarnata.
67. Le perfezioni delle cose comuni. Usque ad Summum56 (Gv 2,7)
1. I servi silenziosi di Cana riempiono i vasi fino all’orlo. Non fecero altro, ma lo fecero ottimamente. Ecco una formula di perfezione. Non hanno versato che dell’acqua senza valore, non avendo di meglio. Anche noi non abbiamo altro che la nostra volontà, i nostri desideri, i nostri giorni, e tutto questo versato nelle anfore eterne non può avere sapore, colore, profumo, tono alcuno. C’è da spaventarsi a vedere che per interi periodi della vita non ci son stati che nonnulla insignificanti, i giorni son trascorsi come acqua insipida, i desideri si son sparsi senza gloria, e la stessa fedeltà è senza splendore.
56 “… fino all’orlo” (Gv 2,7). 2. Anche noi possiamo fare il dovere «fino all’orlo» e non essere soddisfatti finché non ne possiamo più. C’è modo di versare anche dell’acqua pura con gesto regale e di compiere con perfezione anche il più comune dovere. Per negligenza o per grettezza tante volte abbiamo lasciate le cose a metà. Ci siamo detti: guardati dall’essere troppo generoso, dall’esagerare nello spirito di sacrificio e dal perdere un’occasione legittima di godere. Questa è sapienza bugiarda, è la causa dell’egoismo. Questi maledetti mezzi termini e queste incertezze morbose ci impediscono di essere liberi e di mettere nella nostra vita il massimo di fedeltà.
3. Usque ad summum, come i bambini che amano con tutto il loro cuoricino, che dormono coi pugni stretti, che corrono con tutta l’agilità delle loro gambucce, che ridono mostrando tutti i loro dentini, che piangono con tutte le lagrime che possono dare i loro occhietti. Noi non siamo «fino all’orlo» in nessuna delle cose che intraprendiamo e perciò rimaniamo esseri insignificanti e la vita è una reticenza continua come fossimo fuor di strada fin dal principio.
4. Il dovere oscuro e comune, il sacrificio e la fatica, ad summum. Riempire la mente di verità-luce; la volontà di un amore forte; la memoria di pensieri eterni, impiegando tutte le forze e tutta la vita a far del bene. Il Signore vuole dei cuori pieni e tutto è perduto quello che conserviamo al di fuori di Lui. Il suo gesto tracciato sulle nostre virtù insipide darà loro di che rallegrare tutti gli eletti. Rimettere tutto nelle mani di Dio.
68. La fortezza. Aedificantes57 (Mt 21,42)
1. Neppure il miglior trattato di architettura può servire di tetto ad alcuno, e per ripararsi dalla pioggia la più umile e malandata tettoia serve meglio di tutte le pagine di Vitruvio58. Non ci basta conoscere, pensare, immaginare e concludere, ma conviene dar mano alla cazzuola: il nostro mestiere è quello del costruttore. Saremo giudicati secondo le opere che avremo fatto.
2. Ma per costruire, conviene faticare. Ammiro ma non comprendo coloro che ci parlano del servizio di Dio come di una poesia che esalta o di un’ebbrezza senza vertigini. Le mani dei costruttori si spelano trattando i ruvidi mattoni di terracotta, e per il continuo maneggiare della
57 “… i costruttori” (Mt 21,42). 58 Marco Vitruvio Pollione (80-15 a.C), architetto e scrittore romano, è considerato il più famoso teorico dell\'architettura di tutti i tempi. cazzuola le loro palme si fanno callose e le unghie si rovinano tutte quante. La pietra è dura e pesante: bisogna menar colpi ripetuti ed energici per lavorarla; è ribelle, piena di angoli vivi e con gli spigoli taglienti, non si colloca da sé e per sempre nel piccolo letto preparato per essa nella calce. Abbiamo ben compreso questa lezione così forte e nello stesso tempo così semplice? Ci immaginiamo di poter costruire con delle belle parole, di far sorgere delle muraglie suonando nei pifferi? La fatica ci spaventa. È proprio necessario picchiare col martello sul chiodo per farlo penetrare nel muro? Non si potrebbe tentare di persuaderlo a conficcarsi da sé, o almeno lavorare premendo sopra di esso senza battere dei colpi? Non si potrebbe logorare a poco a poco l’irregolarità della pietra, invece di far saltare con un colpo di scalpello quanto sporge in fuori? Non si potrebbe costruire senza martello e senza rumore, senza violenza e senza urto, con un semplice decreto o con un puro desiderio?
3. Tutti coloro che si spaventano della realtà hanno così sprecato il tempo sognando stoltamente. O Signore fateci amare la rude fatica. Noi stessi siamo le pietre da costruzione dalle forme tanto strane, con tanti difetti, che spuntano qua e là e con desideri eccentrici e pretese irragionevoli. Siamo noi con tutto quello che si fissa e si attacca all’anima nostra, e che deve essere strappato da esse prima di diventare nelle mani divine il blocco di granito ben levigato e fedele per l’eternità. Sarà necessario che la sua Provvidenza batta a lungo le nostre resistenze, prendendosi tutto quello che non saprò abbandonare spontaneamente. Questi strappi si direbbero crudeli, il suo scalpello e i suoi colpi hanno fatto talora spuntare in noi dei sentimenti di ribellione. Il Signore martella e noi abbiamo detto che era ostinato nel colpire la nostra miseria, geloso di tutto quello che possiamo desiderare. Sono cose assurde ma bisognerebbe che pietra fosse intelligente per non sentire rancore verso l’operaio che la scalpella. È questa intelligenza che manca in noi. Crediamo che lo stato selvaggio ci sia naturale e che tutti quelli che lavorano alla nostra formazione siano nemici. Cominciamo con la sua grazia a non protestare più e a non mettere la nostra gloria nello sfuggire al suo martello.
4. Il Signore è il costruttore; ma lo dobbiamo essere anche noi. Non basta lasciarsi lavorare, Lui vuole da noi delle opere, della costruzione. Che impresa noiosa! Sempre il medesimo gesto ripetuto le cento e le mille volte; tutte queste pietre anonime, preparate secondo una formula identica, e il muro che si alza sempre il medesimo a tutte le altezze. Domanda degli atti di virtù vera, non già dei disegni di virtù sublimi ed eroiche che rimangono nel puro desiderio. Compiere un lavoro duraturo e logorare tutte le forze: o Signore, facciamo insieme della virtù soda. 5. Ma potrà il Signore costruire con la nostra infermità? Non dovremo rinunciare a far salire verso il cielo la nostra pesante inerzia e il nostro fango sdrucciolevole? No. Si costruiscono palazzi e chiese e città intere che sfidano i secoli con la terra molle. Basta che questa si lasci battere bene e cuocere a fuoco vivo e allora la sua mollezza di origine non l’impedisce di resistere come il granito delle montagne. La nostra debolezza non sarà più un impedimento se accettiamo di essere impastati dalle sue mani e passati alla fornace e riterrà anche quando la nostra fedeltà sarà messa a cimento la forma che ci avrà data.
6. Se siamo tanto pesanti, di più di quello che gli altri possano pensare, se pare che non possiamo elevarci e tanto meno restare all’altezza dell’adorazione serena, ricordiamoci che vi sono dei pesanti blocchi di pietra che si sovrappongono alle arcate delle chiese e si attraversano alle vetrate delle finestre. Sono sostenuti dall’insieme della costruzione. In virtù di tutti coloro che sono nella Chiesa al loro posto, super fundamentum Apostolorum et prophetarum59 (Ef 2,20), di tutti i nostri vicini e di quanti a nostra insaputa hanno pregato per noi e specialmente in virtù della pietra angolare potremo non del tutto indegnamente occupare il nostro posto nella Gerusalemme celeste.
69. La sofferenza. Beati qui lugent60 (Mt 5,4)
1. Sembrano parole dure. Quando muore un bimbo potremo fare le felicitazioni nell’ora delle condoglianze? Dovremo togliere agli afflitti l’unica cosa che loro rimanga, il diritto di piangere?
2. Si può piangere senza essere colpevoli o mediocri. Prima di Gesù le lagrime erano stimate una debolezza: nel dichiararle una beatitudine il Signore le ha purificate da tale macchia e ci ha concesso di essere sinceri. Non dice dunque che abbiamo torto a piangere. Ma che coloro che soffrono hanno uno speciale diritto ad essere consolati, che verso di essi la sua giustizia sarebbe stata parziale. Non ha insegnato allora che il patimento è un piacere, ma che racchiude in sé una speranza ed offre una protezione. Sotto l’egida delle nostre sofferenze siamo al riparo dai suoi rigori.
3. La sua sapienza è tutta armonia ed equilibrio. Imparare bene l’arte di soffrire come si deve. Non diremo ai sofferenti che sono felici e invidiati, ma che è toccata loro una speciale vocazione del cielo. Non bisogna far sparire le lagrime per essere accolti da Lui. Così come non pretendeva che i bambini che accoglieva fossero senza difetti. Le sole
59 “… sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti”. 60 “Beati quelli che sono nel pianto” (Mt 5,4). lagrime che non accoglie sono quelle della colpa, della collera, della gelosia e della debolezza ipocrita.
4. Forse alla scarsità dei nostri meriti si aggiunge la penuria delle nostre sofferenze. Abbiamo disertato il nostro posto, non abbiamo preso la nostra parte comune? Preghiamo per tutti quelli che soffrono perché siano mandati innanzi nella grazia e nel Paradiso.
70. La povertà di spirito. Beati pauperes61 (Mt 5,3)
1. I re diventano rari? Per le vie sono a centinaia e sono i piccoli bambini della povera gente. Il Signore per mezzo di essi, della loro spensieratezza ci vuole dare lezioni opportune. Essi hanno un fare da re, ed essi soli si trovano in ogni luogo come in casa propria. Vanno nei musei, poi vanno a nidi ecc… Ogni giorno si cambiano per loro le meraviglie ed è per loro che suona la musica dei soldati, che sfilano verso la chiesa le automobili degli sposi ecc… Noi, seccati e con passo affrettato, quando piove ci inquietiamo, abbiamo da badare al cappello e alle scarpe, ma essi ridono e scherzano sotto la pioggia a dirotto, tanto che si direbbe che l’abbiano comandata per loro uso e consumo; essi giocano tranquillamente per delle ore di seguito sotto una grondaia squarciata e organizzano spedizioni navali nei piccoli corsi d’acqua. Hanno una felicità più grande di quella che ebbe Cesare quando sconfisse i Galli, e di quella di Alessandro la sera di Arbela62, allorché hanno raccolto alcune castagne d’India o han trovato alcuni grossi maggiolini.
2. Il Signore li amerebbe questi piccoli re se tornasse tra di noi e ripeterebbe anche al presente ai nostri superbi che non giungeranno mai fino a Lui se prima non si renderanno simili a questi fanciulli. Dobbiamo dunque imparare a formarci un cuore di re per farci padroni del regno celeste.
3. Lo scontento fa strage nella nostra anima. Non gustiamo più nulla perché la cupidigia ci snatura. Gli uomini si immaginano che per possedere una cosa si debba escludere gli altri. Se Dio non avesse posto fuori mano le stelle le avrebbero già spente con il pretesto di non lasciarle infruttuose. Essi non sanno che al fondo di ogni vera virtù ci deve essere una magnifica e regale spensieratezza. Non sanno che l’anima illuminata dalla fede è libera da ogni ansia e da ogni timore, e in
61 “Beati i poveri” (Mt 5,3). 62 Arbela o Gaugamela, luogo in cui, nel 331 a.C., Alessandro Magno sconfisse il grande Impero Persiano di Dario III. ogni luogo si trova come in casa propria, perché sempre sa di essere con Dio.
4. Dobbiamo poterci aggirare in questa bella dimora opera di Dio, con la tranquilla serenità dei fanciulli poveri, che si dibattono nel prato. Non è necessario per questo di rendersi ridicoli; è necessario piuttosto di comprendere che tutte le piccole schiavitù volontarie sono fanciullaggini e che la libertà dell’anima è un dono divino. Gelosi, vendicati, rabbiosi, avversi a non voler ammettere che la nostra propria soddisfazione, e a prevedere con ogni studio quanto di utile potremo cavare dal sacrificio, i calcoli ci ingombrano e la gioia ci ignora. Questa beatitudine noi la lasciamo piamente, come un fiore disseccato, tra le pagine del Vangelo; essa non è altro che una teoria commovente, e noi ne abbiamo trovate delle spiegazioni comode che ci permettono di essere avari e pieni di avidità nello stesso tempo. Chi di noi consentirebbe mai a prender in sol fascio tutto il suo bagaglio, farne un gran mucchio sull’orlo della strada, abbandonarlo così senza inventario e senza rimpianto, e tirar innanzi per la sua via cantando tranquillamente in cuor suo il Magnificat delle anime grandi e l’inno delle Beatitudini?
5. Questa sarebbe finalmente la liberazione dalla schiavitù e nella povertà di spirito, non desiderando altro che Dio, saremmo ben contenti di tutto quello che ci accade e molto più di quello che non ci accade. Il giorno e la notte sarebbero pieni di nuove rivelazioni e comprenderemmo che l’immenso cielo popolato di stelle brilla di continuo per noi. All’origine delle nostre cadute c’è sempre un errore: noi non abbiamo creduto alla virtù benefica della povertà. Quindi per definire l’eroismo dei Confessori la Chiesa si limita a dire: nec speravit in pecunia et thesauris63 (Eccl 31,8). Evidentemente non si parla solo del denaro, ma di qualunque altra ricchezza alla quale ci attacchiamo così facilmente e di cui il denaro è come un simbolo. Se avessimo la fede e il candore dei bimbi, non passeremmo ancora con la testa alta e il cuore vuoto in mezzo a questo cumulo di meraviglie che è il mondo delle anime e il mondo delle cose. Saremmo come quei piccolini, inebriati del sole d’estate e rapiti alla vista della neve d’inverno, andando a riposo ogni sera spensierati, seguendo il consiglio di Compieta senza esitazione alcuna: In pace, in idipsum dormiam et requiescam64. Il Paradiso non è altro che la Beatitudine dei poveri, di cui Dio solo è diventato la ricchezza infinita.
63 “… non ha confidato né nel denaro né nei tesori” (Eccl 31,8). Oggi, Siracide 31,8: “… non corre dietro l’oro”. 64 “In pace mi corico e subito mi addormento” (Sal 4,8). 71. La sincerità. Et saturabuntur65 (Sal 21,27)
1. Sono i poveri che gusteranno questa pienezza di gaudio. A noi la povertà manca: cadiamo preda della morte perché non siamo veramente poveri. Anzi noi disprezziamo la povertà e il povero insieme con essa nonostante tutte le nostre belle frasi in contrario: chi di noi consentirebbe a baciare i piedi alla povertà stracciona e derelitta? E meglio ancora: chi si stimerebbe onorato di poterlo fare? Chi mai pensa che sia dovuta gratitudine non già al ricco che fa elemosina, ma al povero che l’accetta?
2. La povertà farebbe cadere tutte le nostre maschere. Essa sola è veramente splendida; essa è la verità. La nostra vita comoda non ne capisce nulla: quanto lusso! E crediamo purtroppo che anche la virtù sia una specie di lusso. Non abbiamo ancora imparato a vedere la bellezza delle cose semplici. Amiamo l’artificio, la declamazione, il fare gesti larghi, esclamazioni sempre più alte.
3. Ma chi mai al mondo si è pasciuto di declamazioni? Soltanto la verità povera e schietta come è uscita dalle mani di Dio ci può rendere forti. Tutto quello che vi aggiungiamo è funesto. Dobbiamo sentire il bisogno di schiettezza. C’è chi per dominare sul prossimo finge di sapere cose che totalmente ignora, o che per pigrizia non ha saputo studiare: c’è chi fonda la sua speranza nei giochetti della politica, dissimulando il proprio nulla sotto formule di imprestito, assiomi di convenzione o silenzi ben calcolati. Tutti costoro sono dei falsi ricchi: il loro belletto è una ingiuria alla semplicità della grazia di Dio.
4. Non vogliamo dire che si debba essere rozzi e lasciar da parte ogni educazione; soltanto i selvaggi credono che la verità consista nell’essere scarmigliati e senza rispetto alcuno. Ogni privazione che ci imponiamo per essere utili al prossimo, per alleggerire i suoi pesi e per facilitare le sue imprese, ogni pena che prendiamo per conto nostro, è una pretesa a cui rinunziamo, e un passo dato in avanti nella via regale della povertà che ci fa beati. Ma ciò che è odioso sta nel nasconderci dietro un velo di menzogna, ingannando il prossimo intorno al nostro essere e al nostro operare.
5. Non coloriamo in finta quercia la nostra virtù di legno bianco, non tingiamo dei colori della prudenza le nostre tergiversazioni, né presentiamo come sottomissione la nostra inerzia nell’operare. Non chiamiamo col nome di buon senso l’incapacità di riflettere, né facciamo passare le nostre abitudini come tradizioni degne di rispetto. Non lasciamo credere che da gran tempo conosciamo quello che or ora abbiamo saputo per informazione del tutto fortuita, e neppure che ci
65 “… saranno saziati” (Sal 22-21,27) siamo intrattenuti a meditare sopra questioni che la nostra mente finora a mala pena ha sfiorate.
6. La nostra vita poggiata del tutto sopra la verità sarebbe così una vita povera, bella e santa, e la ruggine e la tignuola non potrebbero più corromperla perché non conterrebbe alcuna menzogna. Ma abbiamo paura di rimanere tutti soli e cerchiamo almeno una maschera per nasconderci. Ci vuole molto coraggio per essere poveri volontari e non per aggiungere degli accessori senza nome a quanto è essenziale e dovrebbe bastare. Noi abbiamo a vile quanto non fa chiasso e non abbaglia. Carichiamo di ornamenti sciocchi i nostri mobili, i nostri discorsi e la nostra condotta.
7. Il Signore ci faccia vedere lo splendore di tutto quello che è puro: a questa luce noi potremo comprendere la ricchezza della povertà. Oh! La gioia della vita frugale e dei sentimenti spontanei, la gioia dell’amore semplice e della confidenza illimitata, che fioriscono come le potentille a gruppi nel magro terreno, la gioia di non possedere nulla che non sia eterno, e di aver fatto sparire la propria miseria nella sincerità di confessioni complete; la gioia di sentirsi in equilibrio e di potere con animo di adulto conservare la freschezza del fanciullo. E poi il Signore non ha degli accessori: ma tutta la sua ricchezza consiste nel suo Essere.
8. Il Signore ci liberi dall’essere adulatori e dal desiderare di essere adulati: faccia che non ci compiacciamo nelle cose fittizie, e ci dia un gusto più potente per le cose «reali». Ci allontani le piccole abilità, i piccoli metodi e raggiri, tutta questa strategia da bambini che stimiamo accorta. Vogliamo essere onesti, onesti dell’onestà di tutte le cose di quaggiù come il giglio del campo e come il passero delle strade. Oh! la bella libertà, non dover più occuparsi a fabbricare delle menzogne!
72. I poveri. Discipulus ille non moritur66 (Gv 21,23)
1. Gesù scomparso fra le nubi dell’Ascensione non ritornò più. Furono gli Apostoli che continuarono la sua opera dandogli testimonianza. Ma anche loro morirono e neppure San Giovanni fu risparmiato. Il discepolo che non muore Gesù lo ha collocato il giorno in cui ha detto che avrebbe considerato come fatto a sé quanto si facesse di bene o di male al più povero dei nostri fratelli. Il povero da quel giorno ha incominciato tra noi la sua missione. E il povero non muore: semper … habetis vobiscum67. Attraverso la pupilla del povero è lo stesso sguardo di Gesù che ci penetra.
66 “… quel discepolo non sarebbe morto” (Gv 21,23). 67 “… li avrete sempre con voi” (Mt 26,11). 2. Sotto i veli eucaristici semplici e umili c’è Gesù. Nel sacerdote sotto apparenze deboli e comuni c’è Gesù. Nei poveri è Gesù: “Tutto quello che farete ad essi, lo farete a me…68, non voglio che il vostro amore faccia mai differenza alcuna tra me e loro”. Questa parola trasfigura e consacra il povero: la fede dei cristiani dovrebbe inginocchiarsi davanti al povero e vedere in lui sotto le spoglie miserabili la presenza di Gesù Cristo. Il povero è testimonio di Betlem e dei giorni dell’afflizione, del Figlio dell’uomo che non sa dove posare il capo, e dell’uomo dei dolori. Scientes quia Dominus est69 (Gv 21,12). Quando vorremo ritemprare la fede e prepararci al Giudizio e purificarci dalle miserie, ci avvicineremo al povero.
3. I poveri esercitano in mezzo a noi una funzione che è divina. Non voler dunque vederli come mendicanti a cui basta gettare qualche elemosina. Ci dia il Signore un cuore umile che ci faccia amare teneramente tutti i suoi poveri. Non calunniamoli, non pretendiamo dei ringraziamenti. Il povero privo di valore e di grandezza, carico di stracci e di miseria lo troviamo solo in noi stessi quando facciamo l’atto di contrizione.
73. L’umiltà di fronte ai pagani. Infideli deterior70 (1Tm 5,8)
1. Abbiamo sempre stimati uomini saggi quelli che ci hanno stimato. Ma se qualcuno ha mostrato di dubitare di noi abbiamo voluto ragioni e scuse. Abbiamo alimentato la nostra superbia con le grazie più elette venuteci da Dio. Senza essere non solo posseduti, ma rapiti dalla umiltà non potremo mai divenire apostoli. Per evangelizzare bisogna imporsi, ma ancora nascondersi e impicciolirsi. Come ci presenteremo ai pagani?
2. Guardiamo come ha fatto Gesù. A Betlemme è nato: ma nessuno lo ha accolto. A Gerusalemme il popolo chiese la sua morte. Perché ha fatto pervenire le sue misericordie alle orecchie più dure? Tiro, Sidone, Ninive sarebbero state migliori. Perché rivolgersi per prima al popolo più ribelle? Perché ha voluto cominciare il lavoro dal basso, dall’infimo livello della miseria, dai più malati.
3. Se fosse nato sulle rive del Gange, nella pianura della Cina o in Giappone o tra i Pellirossa o tra i neri avrebbe trovato migliore
68 Cfr Mt 25,40. 69 “… poiché sapevano bene che era il Signore” (Gv 21,12). 70 “… peggiore di un infedele” (1Tm 5,8). accoglienza. Ha eletto noi perché eravamo i più duri, i più grandi peccatori. Prende sempre le imprese più difficili.
4. Ecco perché l’Apostolo sarà umile. Il suo apostolato sarà come una restituzione. Voi avreste risposto meglio, è tempo che riceviate la vostra parte. Voi passerete avanti a noi nel fervore, nell’adorazione, nell’abnegazione.
74. Lo Spirito Santo. Lumen cordium71
1. È necessario che noi conosciamo un po’ meglio lo Spirito Santo. Il Santificatore lavora tacitamente e di continuo. Forse perché Egli è in ogni luogo, non ci accorgiamo della sua presenza; e perché non respiriamo che Lui, nessun speciale profumo ce lo rende sensibile. Non può darsi che qualsiasi opera di salvezza si sottragga alla sua influenza e non abbia da Lui gli stessi suoi inizi. Ha preso possesso di noi il giorno del Battesimo. Con le opere a quanti negano e a quanti dubitano dobbiamo noi essere la risposta vivente dello Spirito Santo.
2. La legge della gravità può essere presa a paragone. È dappertutto e non abbiamo bisogno di prove. Dalla volta della mia camera, alle lagrime che cadono, alla terra attorno al sole, tutto ciò che si muove o sta fermo, tutto è diretto e regolato da questa forza invisibile.
3. Così lo Spirito Santo si trova al principio di tutti i movimenti soprannaturali. Li prepara prima che avessimo coscienza; regola il cammino intero del mondo e la storia delle anime. Cesare, Augusto, Alessandro non sapevano che erano strumenti dello Spirito per l’evangelizzazione. La sua azione ci ravvolge e ci penetra tutti quanti e se avessimo un po’ di spirito di fede cadremmo in ginocchio leggendo quella storia che diciamo profana.
4. E nell’intimo dei cuori opera ugualmente. Meraviglie! Ispira il piccolo e la fanciullina a fare i fioretti, per mezzo della mamma ha vegliato sulla nostra culla, ha guidato gli Apostoli, ha preparato le conversioni, ha provocato i sacrifici e le virtù dei Santi.
5. È una luce singolare che rischiara divinamente la nostra vita e l’altrui. Non si occupa di una piccola sfera; nulla sfugge alla sua azione. Egli ha organizzato tutta la nostra vita e dalle profondità misteriose della Santissima Trinità ci viene la buona inclinazione per la compassione e la pietà. Una sola pulsazione guida il ritmo in tutta la Chiesa, come vi è un’unica forza di gravità, e un unico astro che illumina.
71 “Luce dei cuori” (Cfr SEQUENZA Veni Sancte Spiritus). Lo Spirito Santo è soave perché forte, silenzioso perché eterno. Non si affretta perché nulla resiste alla sua dolcezza se pure non si vuol perdere per sempre.
75. La preziosità del Cristianesimo. Erat autem nox72 (Gv 13,30)
1. Per giudicare dell’importanza di una cosa bisogna supporre che non esista e vedere il gran vuoto che si darebbe nella nostra vita al suo disparire. Non si conosce il pregio del pane che nei giorni della fame. Immaginiamo che un mattino il segno di Croce non avesse più significato, sparita la grazia, sparito sull’inginocchiatoio il Crocefisso, sparita la Chiesa e al suo posto una piazza. Non più altari, non sacerdoti, l’Angelo Custode, non il rosario, il libro da messa. Non più la Santissima Vergine, le campane sono mute, Roma non è che la città dei Cesari, Lourdes una grotta qualunque, Paray-Le-Monial che un boschetto di noccioli selvaggi. Non più benedetti i matrimoni, non più preghiera nelle agonie. Sparita la Chiesa visibile, anche la salute delle anime ne va di mezzo. Pazienza, sacrificio, carità, bontà tutto è finito. Si ritorna selvaggi dopo l’innesto: vendicativi, sfiduciati, violenti, assetati di ricchezza pronti a opprimere i deboli ecc… Senza la grazia noi siamo causa a noi stessi di infiniti guai e la nostra sicurezza non esiste più. E ancora più in là degli effetti visibili, la vita eterna e la beatitudine. Senza la grazia la vita resterebbe spezzata e diventeremmo ciechi e non conosceremmo che le imprecazioni della impazienza e la miseria della rovina senza riparo. Ma Gesù è il Salvatore e per sua grazia abbiamo il diritto di rivolgere gli occhi verso il Padre, di ricevere nei cuori lo Spirito Santo, di avere la Santa Madre Chiesa che ne continua l’opera e ci custodisce. C’è balsamo per ogni ferita e lavoro utile a ciascuna delle nostre virtù.
2. Grazie, Gesù, per tutta quest’opera immensa. Siamo talmente abituati alla tua misericordia che non ne riconosciamo facilmente il carattere del tutto gratuito. Grazie perché ci hai creato e ancor più perché ti sei dato interamente a noi. Grazie che ci hai permesso di metterci in ginocchio, la gioia del perdono, che è amore della verità. Grazie per la Madre di misericordia, per i Santi Patroni, per tutte le anime virtuose che ci hanno accompagnato in questa terra. Arrossire della fede? Ma si può se si ama e si è fieri? Gratia … Dei sum id, quod sum73 (1Cor 15,10).
76. La nostalgia del passato. Aspiciens retro74 (Lc 9,62)
72 “Ed era notte” (Gv 13,30). 73 “Per grazia di Dio sono quello che sono” (1Cor 15,10). 1. Il Signore ci ha proibito questo gesto. Dobbiamo dunque dimenticare il passato? Non fare neppure l’esame di coscienza? Come diventeremo prudenti senza l’esperienza e come eviteremo gli sbagli dell’avvenire?
2. Guardare indietro significa giudicare l’opera presente di Dio secondo che fu un giorno e condannare o mutilare il presente perché non rassomiglia al passato. Questo hanno fatto tutti gli eretici. Hanno voluto obbedire agli Apostoli e non al Papa; hanno ammesso il Vangelo e rigettato il magistero infallibile della Chiesa.
3. Anche noi ci paragoniamo con le perfezioni da fanciullo o con le virtù da novizio. Anche noi sogniamo di ricominciare ogni momento la stessa cosa e non sappiamo adattarci con tutto il cuore al dovere quale si affaccia al presente. Abbiamo voluto risuscitare le forme morte o rifare un cammino degli anni giovanili. Essere giovani non vuol dire rifiutarsi d’invecchiare.
4. Un giorno credevamo che con la rettitudine e lo spirito di sacrificio si potesse essere sicuri di non farsi dei nemici; che tutti quelli che incontravamo fossero collaboratori disinteressati nel servizio di Dio. Era facile cosa amare il prossimo perché non avevamo ancora da soffrire per causa altrui. Ci fidavamo nella nostra forza d’animo e credevamo che agendo con metodo avremmo in breve sradicato i nostri difetti. Non avendo ancora alcuna idea ben chiara non trovavamo fosse difficile l’ubbidire e ci pareva assurdo che sorgessero conflitti di opinioni diverse. Non avevamo da dare consigli, né decisioni da prendere.
5. Ora se volessimo guardare indietro e avere nostalgia di una forma di virtù diventata per noi impossibile, distruggeremmo la stessa possibilità della virtù che è necessaria. Non potremo più amare gli uomini come in altri tempi: ma li dobbiamo amare anche di più con una pratica più forte, con un vigore più attivo, senza ingannarci sul loro conto, senza credere che bastino le belle parole e qualche sorriso per potersi tracciare in mezzo ai rovi il cammino della giustizia. Ubbidiremo molto più energicamente e con maggiore larghezza di vedute, non per un sentimento, né per un aspetto severo; ma perché la comunità di cui faccio parte è da preferirsi a noi stessi, che la strategia divina è misteriosa, che nulla esiste ed ha valore se non coincide col volere di Gesù Cristo.
6. Nella grazia di Dio si danno delle stagioni come nell’anno solare e noi dobbiamo accettarle e valercene amandole di tutto cuore. Non desiderare mai il ritorno di quello che non è più rinnegando la sua presenza.
74 “… poi si volge indietro” (Lc 9,62).
77. Gli attributi divini. Nescio, Deus scit75 (2Cor 12,2)
1. Non dobbiamo voler basare la nostra pace interiore sul sentimento e tanto meno sull’illusione o sul giudizio altrui. Ma riposare su qualche cosa di eterno quindi non in noi in cui tutto è mutevole.
2. Quasi mai si cerca appoggio su gli attributi divini considerati ordinariamente come pure astrazioni, belle sì, ma lontane da noi. Non si vede come possano introdursi nella nostra vita ordinaria. Se non si contemplano nell’orazione, si lasciano del tutto trascurati. Eppure su di essi posa l’universo intero. Bisogna dunque che ci appoggiamo su questi eterni attributi. Si guarda tranquillamente verso l’abisso quando si è appoggiati sicuramente alla ringhiera di ferro.
3. Sappiamo che la sua scienza è senza limiti. Perché questa cognizione non è mai uscita dal deserto dell’astrazione e non è diventata come il terreno medesimo sul quale si svolge la nostra vita? Lui sa tutto; noi sappiamo. Lui conosce noi, noi conosciamo Lui. Dunque possiamo fondare una santa intimità su questa conoscenza. Ogni cosa che conosciamo porta Dio perché è oggetto della sua scienza da tutta l’eternità. Ritroviamo la sua scienza nella nostra; conosciamo le stesse cose: la mia parentela, gli avvenimenti della storia, le scienze naturali. Lui sa. Possiamo appoggiarci sul suo sapere eterno, infinito, immutabile e rimettere in Lui la cura di giudicarci in ogni cosa. Non è necessario che sappiamo di quanto si è approfondita la nostra virtù o quanto valgono i nostri sacrifici. Non sappiamo che cosa passi in cuore di quelli che sono per noi più cari, ma Egli si prende cura di vegliare alla loro salvezza e non Gli sfugge cosa che possa loro giovare. Non so quanti meriti alla morte abbiano avuto i miei defunti. Dobbiamo preferire appoggiare la nostra preghiera alla sua scienza e raccomandarsi alla sua misericordia.
4. Il piacere di conoscere la verità è grande, ma la dolcezza di rimanere all’oscuro è ineffabile, quando questa ignoranza è circondata dalla sua scienza infinita. Per quello che conosciamo siamo uniti a Lui, per mezzo di quello che ignoriamo siamo a Lui sottomessi. Siamo contenti di vederci piccini al cospetto della sua grandezza. Non possiamo non esultare di gioia pensando che Lui è la stessa Verità e ci conosce più profondamente di quello che possiamo fare noi stessi.
5. Quando si solleva dal terreno umido una lastra di pietra fuggono gli scorpioni che vi si erano nascosti. Possa giungere la luce di Dio direttamente su tutta la fauna bizzarra e oscura che pullula nel fondo
della nostra anima: inquietudini, rimorsi, scrupoli. Se ci arrestassimo a lungo sotto quella luce l’anima sarebbe liberata da molti suoi parassiti. Tu qui cuncta scis et vales76. Ci conceda di riposare in Lui al di sopra di ogni desiderio e di gioire nella sua scienza infinita. Faccia penetrare da ogni parte ben addentro nel nostro cuore la santa felicità del vero.
78. Le convinzioni profonde. Orta tribulatione77 (Mc 4,17)
1. La devozione è una parola molto soave che serve a indicare una cosa molto robusta. Le anime formate dal Signore sono forti. Perché noi non siamo come questi, arditi nelle difficoltà, costanti nella tribolazione, fermi in presenza della stanchezza e del pericolo? Perché ci si lascia così facilmente sradicare e lunghi anni di formazione non riescono a conservarci buoni nell’ora del dovere austero?
2. Bisogna mettere radici profonde: che non consistono in parole d’ordine, né in imperativi categorici per quanto moltiplicati e precisi. Debbono invece essere convinzioni sincere e intime formatisi in noi lentamente e nel nostro interiore. Nulla è più facile di dare degli ordini: mentre nulla è più faticoso e qualche volta più sconsolante che concorrere dal di fuori alla formazione delle convinzioni altrui. Quelli che comandano hanno il diritto di non manifestare sempre le ragioni degli ordini, ma non hanno il diritto di comandare senza ragione. Il dovere della lealtà è per essi assoluto. È necessario assolutamente avere per sé e dare anche agli altri dei buoni principi.
3. Alcuni si immaginano di poter diventare energici e di fare grandi progressi per mezzo di emozioni e di tenerezze. Quest’illusione è abbattuta ogni giorno dal peccato. Per formare dei discepoli ci vuole una fede; non delle illusioni. Ci vuole una dottrina. Per molti cristiani la fede non è che un’abitudine meccanica di operare e la loro virtù si sostiene soltanto perché non si presenta l’occasione di cadere. Virtù forti: essere completamente sinceri e amare il Signore conoscendo profondamente le ragioni per farlo (solo l’amore pagano può essere cieco). Comprendere i motivi del dovere è opera santissima. La Chiesa ha condannato coloro che volevano bandita la filosofia.
4. L’esperienza ci ha provato che le risoluzioni anche meglio formulate facilmente sono abbattute come le statue anche se hanno aspetto guerriero. Per abbattere una quercia ci vogliono sforzi ben più grandi perché è unita intimamente al terreno. Convinzioni più forti delle decisioni, fede vigorosa che preceda logicamente l’esercizio delle virtù, slancio di mente verso le sue verità. Tutte queste cose Lui solo può seminarle nel nostro cuore; incrementa virtutum78.
5. Una convinzione robusta talvolta ha l’apparenza sgradevole, e coloro che vogliono energicamente sono esposti ad urtare un poco il loro prossimo. La strada che procede nella foresta abbatte gli alberi che trova sul suo cammino. Il Signore ci conceda un tatto soprannaturale. Non volere una debolezza molle che vede un male in ogni sofferenza e che crede quindi doversi sempre astenere dal recarne al prossimo. Senza il patimento che ci ha formati saremmo un bel nulla. Lo scopo della nostra vita non è di cullare il prossimo e di cantare dei ritornelli concilianti il sonno a quanti sono attorno a me, ma di ricavare dall’opera divina tutta la sua perfezione rendendo la creatura degna di Gesù Cristo. Se per giungere a questo è necessario che il prossimo soffra e pianga, sarebbe per noi un delitto il risparmiargli questi sforzi e il sopprimergli questi meriti. Ma non bisogna urtare senza una vera utilità; non bisogna esasperare né scoraggiare i deboli. La grazia di Dio non ci ha finora concesse delle riduzioni alle sue richieste: essa è irremovibile e nello stesso tempo così soave. O Signore, fateci secondo la vostra immagine e che il nostro procedere sia simile al vostro.
79. Le false virtù. Superseminavit zizania79 (Mt 13,25)
1. Dio è l’autore di tutte le bellezze e di tutte le magnificenze. L’anima che fosse solo docile alla grazia, sarebbe partecipe di tutte le sue perfezioni. Perché allora tante erbacce? Dio deve proteggerci contro i vizi non solo, ma anche contro quelle cose che noi crediamo virtù.
2. Ci immaginiamo che per essere devoti sia necessario prendere delle posizioni sciocche o appartarsi da tutto quello che si muove, che spera o che lavora. Crediamo che la pietà sia nemica del buon gusto, che ogni eleganza si debba dire una frivolezza. Per essere cattolici militanti stimiamo necessario mostrarci aggressivi. Per dispensarci dal far lavorare la nostra ragione ricorriamo facilmente alla certezza della fede. Ci lusinghiamo di ubbidire: siamo contenti d’avere dei capi non già per allargare il campo della nostra attività e per servire una causa eterna, ma per liberarci dalle responsabilità e dalle sollecitudini, e fare tranquillamente la facile parte di cinghia da trasmissione. Noi diciamo: voglio evitare la superbia e cadiamo in una pigrizia che ci rende immobili; voglio sfuggire l’ambizione e ci rifugiamo nel nulla; voglio ubbidire e diventiamo incapaci di comandare a noi stessi; voglio salvare l’anima mia e trascuriamo quella del prossimo; mi contento d’essere pio e rifiutiamo di renderci utili. Ci sono degli apologisti che tentano di far ingoiare la fede dicendo che mistero più mistero meno in questa nostra oscurità del sapere umano non doveva impressionare.
3. Ma la fede non è una mutilazione della nostra mente, non è un sacrificio di immolazione del nostro pensiero, ma un sacrificio d’oblazione, un omaggio di deferenza come del discepolo al maestro, dell’assetato alla fonte. La prima lezione non è quella della nostra abiezione, ma della nostra nobiltà e del rispetto dovuto alla nostra facoltà di conoscere come a cosa divina e facoltà meravigliosa che ci rende capaci d’arrivare fino a Dio. La nostra mente si appoggia su fondamenta eterne: una cosa contraddittoria per la nostra ragione è impossibile in un modo assoluto. Una proposizione provata logicamente non potrà mai essere colta in fallo. Grande è la nobiltà della nostra condizione e ci deve riempire di gioia. Postula intellectum ampliorem quam habes80 (Sant’Ignazio d’Antiochia). Non deprimere mai la ragione per fare accettare la fede.
4. Altri seminatori di zizzania sono i pusillanimi che giudicano la grazia cosa fragile e incerta e non si fidano dell’avvenire. Zizzania di timidità. Vanno innanzi gemendo di continuo, pieni di lamenti assurdi e di predizioni pessimiste e danno al carattere cristiano un aspetto funebre e lagrimoso. La gioventù – dicono – va in rovina: tutto va male, chiudiamo le porte attorno al piccole gregge. È una debolezza vergognosa. Egli ha sempre parole di vita eterna. La gioventù, se in questo noi buttiamo tutte le energie, riuscirà generazione migliore della precedente. Dovrebbe essere la nostra felicità pensare che dopo di noi si farà meglio di noi. Siamo i figli di una promessa. Colla nostra preghiera possiamo affrettare l’ora della conversione in tutti i continenti.
80. L’apostolato del missionario. Pro mundi vita81 (Gv 6,51)
1. Il lavoro che il Signore ci ha affidato è immenso e difficile: al pensarci vengono i brividi. Noi dobbiamo sacrificarci per la salvezza dell’universo intero.
80 “Chiedi un discernimento maggiore di quanto hai” (SANT’IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Lettera a Policarpo). 81 “… per la vita del mondo” (Gv 6,51). Per convertire gli infedeli c’è chi si immagina che sia sufficiente amarli di gran cuore. No, l’amore non è il primo dovere, alla stessa maniera che non consiste propriamente nell’amore la felicità suprema.
2. Il primo dovere sta nel conoscere e la suprema felicità nel possedere la verità. Se uno approdasse ad un porto dichiarando ad alta voce che noi amiamo i Cinesi con tutto il cuore non è certo la migliore tattica. Prima di mettersi ad amare una persona, conviene imparare a rispettarla a dovere, studiarla, istruirsi sulle sue cose e anche rinunziare a quella segreta superbia che si nasconde sotto la maschera della compassione. Conviene rispettare il bambino che si vuole educare: rispettare l’intelligenza e la volontà senza urtarla, umiliarla e neppure rammollirla. Non imporsi coi nostri pregiudizi, abitudini, gusti personali.
3. Questo spogliamento è terribile e colpisce fino alla radice il nostro egoismo; e senza ciò l’apostolato è sterile. Spogliarsi completamente pro mundi vita. Come Abramo così quelli che devono dare un’anima cristiana al Giappone, all’India ecc... Bisogna che il rispetto per queste nazioni sia diventato così grande, che la simpatia sia così perfetta da rendere questi apostoli l’incarnazione vivente e l’anticipazione miracolosa di tutto quello che la grazia di Dio da secoli faceva loro segretamente sentire in cuore. Non è necessario che rinunci alla sua nazionalità basta che sia santamente giapponese. Nulla si deve distruggere di quanto ha prodotto la grazia.
4. La differenza tra l’agente coloniale e il missionario è somma e assoluta. Il primo porta nei suoi bauli tutta la patria, l’altro lascia tutto. Quello va ad abitare tra i Cinesi, questo va per diventare un cinese. Il missionario deve amare tutto non con un amore di benevolenza che versa il superfluo, ma con un amore vigilante che comprende, indovina, si adatta. Noi morendo ogni giorno a noi stessi possiamo sperare di far vivere in Lui tutti i suoi redenti.
81. La Provvidenza divina. Cum esses sub ficu82 (Gv 1,48)
1. Dio è ammirabile in tutte le cose che compie, ma non è meno amabile in quelle che prepara alla lontana. La sua Provvidenza tacita e lenta prepara con infinito amore quanto deve avvenire.
2. Lo sguardo del Signore si posò su Natanaele senza che egli ne sapesse nulla. Forse ora sta mirando un bimbo che gioca e che non sogna neppure che un giorno sarà Papa. Un giorno fece sorgere una stella per
82 “… quando eri sotto il fico” (Gv 1,48). condurre i Magi alla sua culla. E la sua Provvidenza quante stelle ha seminato nella nostra vita! Libri, suggerimenti di amici, pensieri, tutto perché noi giungiamo fino a Lui e lo adorassimo in verità. Calore delle serate estive colme di tenerezza, fragranza degli alberi in fiore, frastuono delle cascate, le montagne, il crepuscolo, la chiarezza della notte, in lumine noctis83 (Ger 31,35), tutto ci può commuovere e illuminare.
3. Quando il Signore ha pregato perché la fede di Pietro non venisse a mancare, chi ne ha saputo nulla? Noi possiamo ben credere che la sua tacita preghiera sia stata per noi redentrice. Questa storia segreta della nostra vita nascosta nei disegni del suo amore è quella che ci incanta e ci commuove. Come ci potremo lasciar andare alla vanità quando vediamo che le nostre virtù hanno il loro inizio nell’abisso del suo amore? La sua Provvidenza senza far rumore assicura le risorse della fede alle anime, prepara i rifornimenti della energia, organizza le tappe della virtù e distribuisce a tempo debito i soccorsi necessari. Il ragazzetto uscito di casa con i pani d’orzo e i due pesci fu in mezzo alla moltitudine perché il Signore aveva preparato un trionfo della sua carità e una profezia dell’Eucarestia84.
4. Dio pensa sempre a noi, e noi passiamo sopra tutta la sua Provvidenza spensieratamente. Riflettere un poco o meglio aprire gli occhi. Ha preparato gli eventi fin dai primi secoli perché noi lo amassimo: ciascuna delle nostre opere non deve essere che una risposta ai suoi desideri.
82. Le piccole virtù. Recta sapere85
1. Quando eravamo bambini tutti i doveri si concentravano in un solo precetto di «essere buono». E ancora ora le virtù vengono chiamate con il nome di «bontà». Perché non dobbiamo uscire da una condizione per entrare in un’altra, saltare, mutare di virtù. Le virtù devono crescere con noi: non è necessario uscire dalla nostra pelle per crescere in statura, uscire dalla bontà infantile per giungere a Dio.
2. Star buono per i piccoli vuol dire rimanere tranquillo e non disturbare il riposo degli altri. Lezione sempre opportuna. Le coscienze degli adulti sono tribolate tanto spesso: inquietudini, emozioni, torbidi, desideri contraddittori. Parlano ad alta voce, si bracciano, s’agitano. State buoni, calmatevi, voi non siete soli quaggiù.
83 “… come luce nella notte” (Ger 31,35). 84 Cfr Gv 6,1-13. 3. Star buono voleva dire non litigare coi compagni, fare il compito prima di divertirsi, stare a sentire lunghe spiegazioni. Così ora: non litigare in commercio, non pavoneggiarsi, non arrossire della propria ignoranza, non arrestarsi alle cose imparate, compiere il dovere professionale, essere gentili, ubbidire senza osservazioni. Piccole virtù? No, sono prova di bontà che tocca la perfezione.
4. Star buono voleva dire non rompere, non mettere le cose sossopra, non far rumore quando c’era chi riposava, non sbattere le porte, non sporgersi troppo ecc... Gli stessi pericoli e le stesse follie ci agitano ora. Non rompere la pace nostra o altrui con parole sprezzanti o con scetticismo sdegnoso; non buttare a terra chi è alle prime armi col dirgli che non è buono a nulla; non dir imprudentemente certe verità terribili ai delicati; non fare osservazioni cattive, frastuoni inutili, pose drammatiche. Gli uomini adulti non si sporgono più, non vanno su rive sdrucciolevoli, ma il fascino del male non è diminuito in loro e quando fanno capitombolo non hanno neppure la scusa dei bambini, l’ignoranza, sapevano l’istinto di morte in loro.
5. Giudicare dunque le cose alla luce della sapienza divina. Non basta crescere in età e in statura per arrivarci. La sapienza è eterna come la bontà; l’essere savio equivale all’essere buono. La sapienza e la bontà ci preserveranno da ogni errore colpevole fino al Cielo. La Santa Sofia che Lui ha portato ci liberi dalla morte e sia infusa nel nostro cuore e non ci abbandoni mai più, ut mecum sit et mecum laboret86.
83. Il bene spicciolo. Cum rediero87 (Lc 10,35)
1. Il buon Samaritano ci è caro e vogliamo rassomigliargli. Ma come applicare la parabola a certe anime ottime ma condannate a vivere nell’oscurità? Maestre di rozza scuola, ziette, nonnine ecc... Pare ad esse che la loro vita umile ed oscura non ottenga lo scopo e sia vuota: non hanno mai le occasioni del Samaritano. Studiamo la figura dell’albergatore cui è toccata la maggiore fatica, onere finanziario, quell’altro lo si vedrà quando Dio vorrà con tanti pericoli…
2. Questo è il nostro modello. Nessuna grande occasione o religiosa segregata, o povero infermo, o zitellone. Non spetta a noi incominciare un’impresa, ma dobbiamo continuare la sua nel segreto e nel silenzio con tutto il cuore fino al termine. Al suo ritorno pagherà. Il Signore ci ha
86. “Fa’ che sempre essa mi accompagni e agisca in me” (Cfr Imitazione di Cristo, Preghiera per ottenere la grazia di compiere la volontà di Dio). messo sulle spalle dei doveri ben pesanti e ha aggiunto ogni sorta di impegni. Esige da noi che portiamo con pazienza le lunghe e necessarie fatiche dell’educazione e della guarigione del prossimo. Ci sono in casa vicende noiose come un ferito, giorno e notte. Quanti dicono: prendetevi cura di questo affare, tolgono la libertà, le giornate, il riposo, le piccole consolazioni. Credono che il nostro unico servizio sia render servizio agli altri.
3. Aspettare il Signore e vivere di fede. Mandare a termine tutto ciò che la Provvidenza ha incominciato, guarire gli uomini, parlare, collaborare con Dio senza posa e senza troppe parole. Amiamo questo lavoro: viviamo volentieri dove Lui ci ha messo, ricevere senza badare alle loro qualità personali tutti i feriti che la Provvidenza ci conduce.
84. La preghiera «in suo nome». Nesciens quid diceret88 (Lc 9,33)
1. Diciamo molte sciocchezze: di alcune ce ne accorgiamo, della maggior parte no. Dobbiamo ringraziare Dio di non aver esaudite le preghiere assurde che troppo spesso abbiamo pronunciato. La Provvidenza non è meno misericordiosa quando resiste alle nostre male voglie. Abbiamo pregato senza sapere ciò che dicessimo e con che spirito e poi ci siamo irritati di non essere esauditi. Sapevamo benissimo che significasse domandare e ottenere; eravamo persuasi essere cosa facilissima domandare «in suo nome». Provvisti della ricetta avremmo potuto riuscire in tutto, il sogno d’ambizione sarebbe un fatto compiuto, gli affetti posti al sicuro, la morte lontana a nostro piacere, il veto a tutti i mali che minacciano.
2. Ringraziamo il Signore di non aver ascoltato le nostre chimere, di non averci risparmiato, d’averci imposto di camminare, d’averci fatto sentire imperiosa la voce della grazia scuotendoci dal sonno traditore, di non averci esauditi quando chiedevamo un trattamento di favore e metterci per la via comoda scelta dalla nostra pigrizia.
3. Per pregare in suo nome bisogna avere un’anima molto retta e molto pura. In nome suo: dunque mettendosi al suo posto, facendo la sua parte, pregando come avrebbe pregato Lui, domandando quello che avrebbe domandato Lui, e pagando il prezzo che ha pagato Lui.
4. Lui ha ricomperato il mondo, ma non prima del consummatum est, ha ottenuto il perdono dei peccati ma non ha rifiutato nulla al Padre.
88 “Egli non sapeva quello che diceva” (Lc 9,33). Noi poco leali con Dio non vogliamo pagare i nostri debiti e pretendiamo delle riduzioni nei piccoli sacrifici che dobbiamo fare; e allora come può la nostra preghiera essere fatta in suo nome?
5. Se Dio ci avesse esaudito saremmo diventati dei miserabili, avremmo disprezzato la maestà divina come quando ci buttano rifiuti nei grandi fiumi. Grazie di aver resistito ai nostri lamenti e d’aver perdonato le nostre bizze; ora comprendiamo meglio a quale nobiltà Egli ci ha eletti. Siamo costretti a salire verso di Lui.
85. La generosità nel dare. Duo minuta89 (Mc 12,42)
1. Tutte due insieme avevano il valore della quarta parte di un soldino, ma con questa miseria si è guadagnata l’ammirazione del cuore di un Dio. Non dar nulla è da empio, dar una parte è un gesto da galantuomo, dar tutto è eroico. La vedova con le sue mani vuote aveva toccato il limite del possibile. Il suo gesto era senza riserve e perciò fu onnipotente. Si tratti di un profumo di lusso o di due monetine, quando il dono è totale allora soltanto si ottiene di entrare nella pienezza della sua grazia.
2. Le anime timide non esitino più. Vi sono di quelle che sono impedite dall’essere veramente generose da un sottile foglio di carta, ma non si sentono di strappare questo ostacolo così da poco. Esse non osano mettere la loro sicurezza in Dio solo. E intanto gli infedeli aspettano invano chi li battezzi, e i peccatori nella notte chi li salvi. Le nostre orecchie sono dure e il nostro cuore sta purtroppo in guardia contro le sorprese della grazia che ci vorrebbe generosi.
3. L’assoluto nelle ricchezze non lo potremo avere mai perché si può sempre possedere di più e così è del dominio. Ma la povertà e l’abnegazione possono diventare veramente assolute. Quando le mani sono vuote, non si possono vuotare di più. Colui che beve non può bere il bevibile, così chi ascolta, chi guarda ecc... Ma quando gli occhi sono chiusi si capisce cosa vuol dire non vedere più nulla. Dare dunque tutto e non ritenere nulla.
86. La devozione al Sacro Cuore di Gesù. Elevatis … oculis90 (Gv 11,41)
1. La devozione al Sacro Cuore può essere intesa male. A certuni determinati discorsi lamentevoli pieni di particolari dolorosi lasciano il
89 “… due monetine” (Mc 12,42). 90 “… alzò gli occhi” (Gv 11,41). freddo. Eppure sono anime generose che vibrano in favore della Chiesa e per la salvezza delle anime, tendono all’azione e da loro si ottiene qualsiasi sacrificio senza bisogno di spendere molte parole col solo chiedere se avessero il brutto coraggio di rifiutare qualche cosa al Signore. Non perversità, ma ignoranza. Devozione prospettata male. E nasce allora una sorda irritazione al sentire parlare di un Dio abbattuto e degno di compassione, al quale bisogna far l’elemosina di un po’ di consolazione appartandosi con Lui dalle moltitudini. Un Dio che non riesce nelle sue imprese, che avrebbe fatto male i suoi conti e vuol mettere sulle spalle degli altri la sua miseria, un Dio in lagrime che si segrega nei piccoli santuari non sanno come farlo coincidere col Cristo della Risurrezione, col Salvatore delle moltitudini. Il suo fare dimesso e timido, le sue promesse piccine piccine che vengono ad aggiungersi alle magnifiche beatitudini, tutta quella compassione vaga e un po’ femminile che nasconde le rudi fatiche dell’apostolato come si possono mettere d’accordo col far dignitoso del Verbo eterno che comanda ai flutti, con la gloria del Redentore che ha in retaggio tutte le nazioni, con lo splendore eterno del Primogenito del Padre, il cui regno non ha fine? Rivolgersi a un gruppo di privilegiati è già rinunciare all’impresa. Il cuore dei giovani preferisce le parole risolute, anche dure, alle noiose lamentele. Sono pronti ad ascoltare le verità anche forti, ma decise e credono che il Regno dei cieli debba domandar loro dei sacrifici almeno come fanno i regni di quaggiù.
2. È un’obiezione presentata a tinte forti, ma non ha valore; è un colmo di stoltezza tenebrosa. Credono che sia una devozione che consiste in una lunga e noiosa perorazione a profitto di Gesù Cristo, e non vedono che la nobiltà del cuore umano ne può ricavare un forte stimolo per essere generoso senza riserva. Non vi vedono che la debolezza e qualche consolazione da ammalati, e non sanno che questa devozione ha delle esigenze assolute e prepara una conquista completa. Il Signore avrebbe potuto salvare il mondo con la sola virtù della sua grazia e avrebbe ottenuto molto più presto e in modo definitivo il suo intento. Ma in questa impresa non ci sarebbe stato nulla di nostro. Avremmo ricevuto un bel regalo per noi indecifrabile; non poteva certo entrare nell’esperienza della nostra vita. Ce ne saremmo rallegrati ma non saremmo stati «noi» a fare questa salute del mondo. La felicità fabbricata da altri come lo zucchero non ci pare cosa troppo degna dell’uomo. Invece di riserbare totalmente per sé la salvezza, l’ha posta nelle nostre mani. Lui è l’unica sorgente di grazia, ma ha deciso di non riuscire a far nulla senza il nostro consenso. Ha voluto che la Redenzione del mondo fosse pure opera nostra. E per ricordarci questo ecco Paray-le-Monial.
3. È Dio che ci fissa negli occhi e ci domanda se siamo pronti a lavorare per la salvezza. E per far comprendere che l’impresa è difficile ha alzato la voce, ha invocato soccorso. Ogni minuto sono migliaia di uomini che muoiono. Dio ci chiama in aiuto, e vuole noi! Se comprendessimo bene questo, il ritmo della nostra vita si muterebbe di certo, sparirebbero tutte le nostre piccinerie, e sentiremmo un’immensa brama di sacrificarci e la nobiltà della dedizione ci perfezionerebbe interamente. No, non si tratta di nascondersi e proprio perché la folla è numerosa che invoca aiuto. Fortis ut mors est dilectio91.
87. Lo spogliamento totale. Relictis retibus92 (Mt 4,20)
1. Il Signore è la pienezza delle cose. Come mai per giungere fino a Lui bisogna spogliarsi di tutto, farsi poveri?
2. Alcuni fanno osservazioni ridicole e dicono che non è affatto necessario spogliarsi delle cose terrene e che si esagera quando si parla di abnegazione completa. Sognano una perfezione molto comoda in cui l’amore di Dio aggiunge la sua beatitudine a tutte le soddisfazioni legittime e la gioia dell’anima si accompagna coi piaceri del corpo. Con un po’ di casuistica, per rendere lecito quello che si vuol fare, e con qualche piccola assoluzione per dimenticare quello che si è fatto, le richieste del Signore diventano molto facili e il Vangelo non ha più rigori.
3. No, no, le sue esigenze sono senza limiti. Chi desidera la perfezione non deve cominciare a venire a patti, ma accettare senz’altro le condizioni fatte da Lui, senza mercanteggiare. Il Signore penetra nella nostra vita come una spada tagliente, e noi dobbiamo pagare col sangue le sue visite. Prende alcune sue creature e le strappa ad ogni cosa per gettarle in un chiostro di preghiere o in una sala di cancerosi. Non qualche cosa di vostro ma tutto, non: più tardi riceverò volentieri qualche resto d’amore. Ma si colloca in mezzo alla via ed il dono dell’avvenire, sono le stesse speranze che bisogna dare. Eppure gli eletti ne sono ben contenti. Con tutte le forze del cuore si stringono alla loro croce. Non tanto per la gloria del Paradiso, che per le gioie presenti dell’amore e della grazia divina. Non pensano più alle loro reti. Il Signore vuole tutto, lo spogliamento completo, perché vuole riempire tutto con un vino nuovo, e tutto trasformare in vita eterna. Si pulisce bene una bottiglia dove c’è stato del liquido inacidito prima di porvi il liquore che dona la vita. Recedant vetera nova sint omnia93.
91 “… forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). 92 “… lasciate le reti” (Mt 4,20). 93 “Sia cancellato il passato e tutto sia rinnovato” (Cfr BREVIARIUM ROMANUM, Solennità del Corpus Domini, Mattutino, Inno Sacris Solemnis). Quello che ci offre Lui non ha paragone con le nostre cose, che sono come una casupola di legno che deve essere mutata in un palazzo di marmo. Una trasformazione che non si può fare senza cambiare tutte le parti. E non si vede meglio il sole se si accende una candela. Spegne tutte le nostre candele, perché spunti la sua aurora.
4. Ringraziamo il Signore perché non ha permesso che mescolassimo al suo profumo di eternità il nostro fetore di morte e combinassimo i grani dell’amor proprio con l’incenso della grazia. Se si vuol salire sul treno, si deve scendere dal carro; non si possono combinare insieme i due gradi di locomozione. Le esigenze dello spogliamento che precede sono in proporzione dei benefici che seguiranno. Per possedere Dio, non bisogna possedere altro che Lui; così appunto sarà in cielo.
5. Noi ci attacchiamo così volentieri a tutto quello che passa. E mormoriamo perché Lui vuole tutto e subito e di gran cuore. Eppure non è mai mancato nulla a coloro che hanno accettato di fare di Dio la loro sola ricchezza. Sotto pretesto di raddolcire, non indebolire mai il Vangelo. Se stimassimo buone una fedeltà intermittente e una devozione rilassata bestemmieremmo il suo Calvario.
88. La lotta e la forza. Sustinent me94 (Mc 8,2)
1. Tra tutti quelli che hanno mostrato queste fedeltà afferrandosi alla persona di Gesù forse vi erano delle persone mediocri al pari di noi. Trovandosi in mezzo alla folla anch’essi furono istruiti, nutriti, salvati.
2. Essi per tre giorni. Noi da tanto tempo e abbiamo sofferto la fame dell’anima e anche quella del corpo e la miseria fisica e la stanchezza dei nervi e della volontà. Abbiamo sostenute le sue prove e per farci del bene è stato duro con noi; non ha voluto darci una vita soave e sonnolenta.
3. Quando per allettare le anime a darsi a Dio si va dicendo che saranno inebriati di consolazione, che il suo servizio è un’estasi dolce e continua, non si dice tutto, si tace anzi l’essenziale. Nei suoi inviti si nascondono esigenze terribili. Non … pacem …sed gladium95. La grazia che troviamo in noi è prima di tutto una grazia di forza perché non ci pieghiamo sotto il fardello. Invece si rischia di credere che Dio non comandi una cosa se non è gradita.
4. L’incanto e l’ebbrezza di cui fa dono consistono nell’ebbrezza delle imprese difficili, nella contentezza di soffrire molto, di non risparmiarsi,
94 “… stanno con me” (Mc 8,2). 95 “Non sono venuto a portare la pace, ma la spada” (Mt 10,34). di batter forte contro gli ostacoli e di non esigere per sé alcun sollievo. Costa il fargli credito e si conosce la fame e l’ansia del malato che sente le sue ultime forze venir meno. È un padrone austero. Ma non ce ne dobbiamo lamentare. Nella nostra vita ogni cosa che sia veramente bella è anche sinceramente forte a cominciare dall’affetto materno, così ricco di sacrifici.
5. Dobbiamo gioire se i nostri anni nel deserto durarono a lungo. Non abbiamo dovuto aspettare la vita di gloria per conoscere il nutrimento meraviglioso che ci dona. È stata la nostra forza Lui e non ce ne siamo accorti. Senza di Lui da molto tempo saremmo morti di fame e di sete. Non lo abbandoniamo perché Lui non acconsente a lasciarci allontanare. Non possiamo vivere che dei suoi doni. Così non avremo da temere del nemico e della morte ma vivremo per sempre per la sua compassione.
89. La nostra via. Ego sum via96 (Gv 14,6)
1. Gli uomini sono essenzialmente dei viaggiatori. Il Signore ci sveli il Vangelo della strada. Seguire un sentiero equivale ad essere docili e pieni di confidenza. Della strada ci fidiamo: se attraversa un fiume, se si inerpica su una montagna, se rasenta un precipizio. Ricordiamo Abramo, i Magi in cammino verso un termine lontano e invisibile. Le vecchie strade della cristianità, quelle conducono ai santuari. Mantenendosi su la strada si è al sicuro. Noi vogliamo la Provvidenza quale sentiero della nostra vita. Niente ci può mancare se non l’abbandoniamo.
2. Ma come è difficile seguire sempre una via. Così noi vogliamo delle accorciatoie quando Lui ci vuol condurre per lunghi giri che a noi sembrano oziosi. Siamo sempre tentati di modificare i suoi itinerari e sentiamo di continuo la nostra fede assalita imperiosamente da mille perché. Perché questo sacrificio? perché in mezzo agli importuni? Perché conduci all’abnegazione totale, alla vocazione religiosa, alla prova, all’infermità? La sua via è tortuosa sembrerebbe. Eppure il Profeta ha detto che va sempre dritto: rectas facite semitas eius97. In realtà va sempre diritto, ma siamo noi che crediamo bello e diritto quanto è conforme al nostro desiderio e quando i nostri disegni non sono conformi ai suoi, pretendiamo che il torto sia suo. L’ora esatta è sempre quella della nostra impazienza. Le linee spezzate dei nostri capricci sono ai nostri occhi delle linee rette. 3. Continui pure il Signore diritto alla meta: le nostre scorciatoie non sono che giri inutili. Quando guardiamo le tappe trascorse ci accorgiamo che il divin volere fu sempre senza esitazioni e senza errori. Ci conduce diritto attraverso la sua Passione e Morte alla gloria della Risurrezione. Ci protegga contro noi stessi e non permetta che andiamo fuori strada e che ci spaventiamo per la fatica di essere fedeli, Lui termine del nostro pellegrinaggio.
90.Gesù Giudice. Iudicium est … mundi98 (Gv 12,31)
1. Ci spaventa e ci rapisce nello stesso tempo il pensiero che il Signore è inevitabile. Tutti compariremo davanti a Lui e il suo giudizio sarà inappellabile. Da quel momento tutto sarà finito e ciascuno starà al suo posto per sempre. La luce è nelle tenebre; chi ha accettato di essere luce lo sarà per sempre.
2. E questo giudizio del mondo è già cominciato. È in mezzo agli uomini malgrado quelli che non lo vorrebbero; potranno ben vivere come se non lo conoscessero ma finiranno contro la pietra angolare e andranno in frantumi. Noi per tutta l’eternità resteremo fissati in quell’atteggiamento che andiamo prendendo nella nostra vita rispetto a Lui. Siamo abituati a fare e disfare, a dire e disdire e il punto fermo ci spaventa sempre. Ora Lui è il punto fermo e l’ultima lettera dell’alfabeto: è quel misterioso «Omega» oltre al quale non c’è più nulla. Con Lui dobbiamo fare i conti: sopra di Lui dobbiamo appoggiarci come sull’unico che è la nostra ultima speranza.
3. Per scampare alla morte solo mezzo sarà il riconoscerlo quando passa, sapere chi è, dirlo apertamente senza timore e così far entrare nella propria vita la sua verità. Lui è presente, eppure chi vuol tenere gli occhi chiusi non lo vede; Lui parla, ci guarda, ci interroga, la sua verità sta giudicando ciascuno di noi e molti vanno e vengono, ridono e piangono, dormono e pensano senza badare affatto alla sua presenza e senza mai essersi imbattuti in Lui. Eppure Lui ha già giudicato tutti costoro. E potranno per sempre essere lontani da Lui come hanno desiderato. Non dicono il falso quando asseriscono di non vederlo. Si sono messi in condizione di non vederlo (pigrizia, vanità, denaro).
4. Ubbidiamogli davvero; acconsentiamo a non tergiversare più oltre, rimettendo noi stessi sotto il suo dominio. Tutto quello che teniamo per noi è perduto, condannato, giudicato inutile, destinato alla morte. Tutto quello che rimettiamo nelle sue mani è guarito, divinizzato, resta immortale e posto nella casa del Padre. Le nostre giornate sono senza valore se non sono sue, i nostri lunghi sforzi inutili se non sono derivati dalla sua grazia.
5. O nostro Giudice sovrano, prendetevi tutto. Non vogliamo che questo nome di giudice venga a indebolire la nostra confidenza. In fondo in fondo, appunto perché la vostra parola è irrevocabile, vi amiamo anche più fortemente. Quando avrete proclamato che siamo dei vostri e che il tempo della prova è finito, quel giorno che sarà senza sera, noi vi benediremo con tutto il cuore, perché Voi siete Colui che non muta mai. Voi mi avete dato un formale precetto di sperare questo momento ineffabile e di aspettare dalle mani di Voi, mio Giudice, la vita eterna.
91. La creazione opera di Dio. Et … erant valde bona99 (Gen 1,31)
1. Erano così buone le opere di Dio quando uscirono dalle sue mani che, nonostante tutte le nostre profanazioni, conservano ancora al presente lo stampo della loro origine nobile. Poiché la Creazione è opera sua, possiamo trovare in essa la traccia della sua mano; poiché viene da Lui certamente ritorna verso di Lui e il profumo della sua eternità si sparge su tutto ciò che è caduco. Bisogna pregare con tutte le creature.
2. Ci sono alcuni che trovano ogni cosa quaggiù pesante e noiosa e che non merita la nostra attenzione. Non hanno mai imparato a considerare tranquillamente e senza menzogna il bell’aspetto delle cose semplici della natura; non comprendono in quale splendore divino si aggiri continuamente la loro vita.
3. No, la sua opera non è guasta. La frase che ha pronunciato nel creare si ripete continuamente come un’eco fedele ed è talmente bella che c’è pericolo di arrestarsi in essa credendola l’unica sua parola. Quando ci fermiamo a contemplare l’opera sua e ci lasciamo andare all’incanto che ne viene necessariamente, la vita è un continuo succedersi di meraviglie; soltanto nel creato sensibile troviamo ragioni sempre nuove per prostraci dinnanzi a Lui in adorazione. I pagani avevano torto nell’adorare l’effetto senza rimontare fino alla causa, si sbagliano non nella direzione del movimento ma perché si fermavano prima del tempo. E tra l’opera e l’operaio non vi può essere separazione assoluta.
4. Noi non abbiamo per le cose create il rispetto dovuto. La voce sommessa di tanti milioni di suoi inviati, dai fiori alle stelle, che ci parlano di Lui e ci invitano ad amarlo, non è sentita da noi perché siamo ancora rozzi ed egoisti, posseduti da un sogno di felicità egoista che ci avvilisce. Gesù ci ha raccomandato di considerare i fiori del campo e di andare a scuola dai passeri dell’aria100. E gli scorpioni, i serpenti, le uova e le galline, il bue e l’asino, l’abbeveratoio e la lampada, il pane e il forno, il lago, le reti, la tempesta, la falce e la messe, fino al canto del gallo e al rosso del cielo al tramonto, tutta questa creazione ingenua non è forse per grazia sua ricca di ammaestramenti e piena di ricordi a nostra utilità? Quando canta il gallo non dovremmo ricordare Pietro e così le brage accese101? E la notte, Nicodemo102?
5. Dio è in ogni luogo, e in qualunque parte rivolgiamo lo sguardo incontriamo sempre la sua verità e il suo amore. Creatore e Redentore è il Verbo per cui ogni cosa fu fatta; ed era conveniente che lo stesso Autore del mondo venisse a ristorarlo. Non lasciò ad altri di rifare a nuovo il suo capolavoro. Sull’universo non si vede la traccia di due differenti disegni. Le sue mani inchiodate sulla Croce sono quelle che hanno creato il mondo e che solo possono salvarci nel giorno estremo. Adoriamole. Tuae sanctae manus istae, me difendant Jesu Christe, ultimis in pericolis103.
92. Essere lampade. Sub modio104 (Mt 5,15)
1. Il Signore ci ha proibito di spegnere le lampade, anzi non vuole neppure ne diminuiamo lo splendore. Ma questo non ci porterà alla vanità: non ce ne approfitteremo?
2. Il moggio con cui non abbiamo il diritto di mascherare la nostra virtù ed il nostro ingegno non è certo la modestia o il riserbo; queste virtù sono sempre necessarie. Quel moggio è la pusillanimità, la diffidenza, la reticenza maliziosa, la viltà, quando si nasconde la fiamma non per proteggerla o per aver modo di renderla più robusta, ma perché non giovi ad altri e non rischiari che se stessa. L’egoismo è la sintesi di tutte le cause che tendono a spegnere la fiamma e molti sono passati inutilmente sulla terra i quali avrebbero potuto con un po’ di spirito di sacrificio illuminare il mondo intero. Il moggio è la vita comoda, lo sforzo sfibrato, una specie di schermo con cui si limita a piacimento il proprio orizzonte; è rifiutarsi a illuminare tutta la casa e a lavorare con tutta la copia di mezzi posti in mano nostra. La fiamma sotto il moggio, la moneta nascosta nel fazzoletto105,
100 Cfr Mt 6,26-28. 101 Cfr Gv 18,25-27. 102 Cfr Gv 3,2. 103 “Queste tue sante mani, mi difendano, Gesù Cristo, negli estremi pericoli” (Cfr DIETRICH BUXTEHUDE, Oratorio BuxWV 75, Membra Jesu Nostri, III Ad Manus, 5). 104 “… sotto il moggio” (Mt 5,15). 105 Cfr Lc 19,20. il tesoro posto sotterra106, ci ripetono sempre la stessa lezione terribile: ci sarà domandato conto di tutto il bene che abbiamo tralasciato di fare e di quello che la nostra viltà ci ha resi incapaci di compiere.
3. Dobbiamo avere un santo ardimento al fondo del nostro carattere cristiano. Non dobbiamo avere paura della luce. Non dobbiamo predicare verità rilassate. Non dobbiamo occuparci di custodire con ansia solo quelli che credono e trascurare l’immensa moltitudine che è nelle tenebre. Il Signore non ha mai ammesso le frontiere: qui i buoni e là i cattivi. Forse sta preparando i nemici di oggi per apostoli di domani: e i credenti devono stare attenti a non cadere. Chi ha fede nella verità non ha timore di metterla di fronte alla menzogna e all’errore. Chi ha fede nella grazia divina non ha timore di domandare agli uomini delle virtù eroiche, e non misura i loro obblighi col criterio dei loro mezzi, né i loro doveri con le loro risorse.
4. Sono troppi quelli che non si vogliono compromettere e non si decidono a riunirsi con l’esercito combattente finché non lo sanno vittorioso. Non si sono mai messi sulla strada magnifica della carità senza confini; non hanno mai accettato di ardere come viva fiamma senza riserve a bene di tutti; le loro virtù sono monche e incerte, e il loro primo pensiero sta nel cercare, ancor prima di metter mano alle armi, un luogo dove potersi rifugiare.
5. Ut luceat omnibus107. Apparteniamo a tutti gli uomini né abbiamo il diritto di servirci della nostra intelligenza come fosse unicamente per noi. Chi si arresta in se medesimo è sempre un malvagio. Il vigore fisico, la sanità morale, tutto ciò che il prossimo ci può invidiare, tutto quanto fa parte di quella lampada che deve spandere la sua luce in domo108.
6. C’è negli uomini un’immensa capacità e un vero desiderio di non vivere senza scopo. Essi vogliono un lavoro da compiere, anche difficile se è necessario, ma che meriti la fatica per condurlo a termine. Ripetere ad alta voce la verità che sentono nell’intimo. Illuminare la coscienza col raggio della sua luce.
93. Le buone ispirazioni. A bimatu et infra109 (Mt 2,16)
1. Per essere più sicuri che Gesù non scampasse alla morte, si massacravano i bambini, e Betlemme ha sentito le grida delle madri addolorate.
106 Cfr Mt 25,25. 107 “… faccia luce a tutti” (Mt 5,15). 108 “… nella casa” (Mt 5,15). 109 “… che avevano dai due anni in giù” (Mt 2,16). La tattica dei suoi nemici è sempre la stessa; continuano a combattere contro di Lui mandando alla rovina il proprio paese natio. Essi tentano di farlo morire prima ancora che abbia potuto parlare: vogliono colpire brutalmente e crudelmente Cristo appena nato, perché temono di essere poi più tardi incomodati dal vero Re d’Israele.
2. Sono coloro che soffocano nella loro anima i germi ancora teneri delle sue ispirazioni. Noi siamo così gelosi della nostra indipendenza e, pur non osando sempre resistere quando tuona dall’alto del Sinai, cerchiamo vilmente di compensarci nei casi più umili e nascosti e distruggiamo gli inizi dell’opera sua in noi.
3. Nasce nella nostra volontà ogni volta che un movimento venuto dalla sua grazia ci rende migliori. E noi paventiamo di essere migliori perché non ci piace la perfezione austera. Abbiamo paura che diventati noi più forti nel nostro interno coll’arrenderci alle sue prime richieste, Lui pure alzi il tono della sua voce; abbiamo paura di trovare in Lui un padrone ed essere spogliati dei palazzi regali che il nostro egoismo usurpa e nei quali abbiamo collocato, circondata da ogni sorta di comodità, la nostra vita. Le sue ispirazioni son cosa tanto tenue. Quei buoni desideri che spuntano appena, noi possiamo soffocarli con tanta facilità! Nessuno ne saprà mai nulla, e neppure in Rama si potrà sentire il lamento sterile dell’antica Rachele110. Quando il pensiero generoso spunta in cuore non abbiamo che fare un piccolo gesto per poterlo soffocare.
4. Le grandi viltà si compiono appunto nel mandare a male queste che sembrano piccole cose; e forse sta proprio in questa abilità brutale di persone nell’esteriore molto per bene che bisogna ricercare il segreto della loro cattiva riuscita. Che cosa non otterremmo se lasciassimo che Gesù parli e cresca in noi? Nelle cose che appartengono alla vita è sempre l’elemento più debole quello che è più operoso. La pianta cresce nelle tenere estremità delle sue gemme. Quando la punta d’un ago è smussata, benché non manchi altro che un piccolo frammento invisibile, non serve più a nulla. Le sue grazie al loro inizio sono impercettibili, ma da esse dipende tutto il resto ed una vita intera può essere cambiata sotto il loro modesto impulso. Noi invece le devastiamo scioccamente. Siamo sempre in guardia contro di Lui. Mentre dovremmo essere contenti di vederlo quasi germinare nell’anima.
5. Perché se non lo lasciamo diventare il nostro Padrone non potremo evitare la nostra rovina e per paura di Lui saranno soffocate tutte le speranze dell’avvenire. Quando ci vogliamo sottrarre alle sue esigenze dobbiamo fare il deserto in regioni intere della nostra vita. Ogni sorta di generosità diventa per chi teme di vederlo passare sotto il sembiante di una ispirazione caritatevole.
110 Mt 2,18. 6. E con tutte queste infami manovre non riusciremmo tuttavia a liberarci da Lui, ma saremmo ad ogni modo dei perversi. Non cessa Lui di essere il vero Re delle anime anche di quelle che lo perseguitano. Le nostre astuzie non sono altro che brutti scherzi di bambini viziati, e quando rifiutiamo di lasciarlo parlare ci priviamo della vita eterna. Le anime sono pur sempre fatte per Lui e la grazia non le abbandona mai. Non abbiamo certo il potere di ridurlo al nulla anche se purtroppo dal peccato è obbligato a passare la frontiera cacciato dall’anima. Aspetta con ansia che i tiranni siano morti111 e appena trova libero il passo, ritorna. Ritornate, o Signore, in casa nostra!
94. La povertà. De laqueo venantium112 (Sal 123,7)
1. Il Signore si è mostrato molto duro verso coloro che mettono la loro speranza nelle ricchezze. Con tutta la nostra esegesi non possiamo addolcire le sue parole. Tra i suoi discepoli e i pagani senza fede deve correre una differenza assoluta nel modo di considerare il denaro. Bisogna ritornare all’eterna lezione della povertà. Lo spirito di povertà deve essere di tutti e non solo dei religiosi.
2. Alcuni parlano di povertà, ma è spilorceria. Dicono che si spende sempre a torto quando si spende molto. Certo non si deve spendere molto per i propri comodi, anzi non bisognerebbe spender nulla per nutrire questi nostri vecchi nemici. Ma quando raccomandano di rispettare il denaro e di guardare con spavento e come una cosa quasi divina i segni della ricchezza, interpretano a rovescio le parole del Vangelo. Si può dar segno di grande attacco al denaro in due maniere: nell’accumular ricchezze da credere di non averne mai basta, o di spendere così poco da far mostra di darne sempre troppo.
3. La povertà invece è regalmente magnifica; è fatta di una immensa libertà e non suole riconoscere nel denaro altro scopo che quello di essere utilmente speso. Non è una spicciola economia domestica; non ci si separa dal denaro con amarezza; non è povertà imbronciata, fastidiosa e calcolatrice. Nulla si deve attaccare al nostro animo e alla nostra mano. La parsimonia deve essere solo per l’elemosina. Il vero povero sputa in faccia agli idoli e non solo a quelli di legno ma anche a quelli d’oro.
4. Diamo troppa importanza alla ricchezza: preferiamo l’opulenza e la schiavitù alla libertà dura, frugale e povera dei profeti del deserto. Non
111 Cfr Mt 2,20. 112 “… dal laccio dei cacciatori” (Sal 124 [123], 7). amiamo vuotare le mani senza un inventario. Tutto, perfino i nostri meriti, è diventato per noi oggetto di calcolo e di tariffa determinata. Mirare al denaro solo come un mezzo al quale non attaccarsi; non correre dietro alla stupida soddisfazione di fare grossi guadagni. L’unica nostra ricchezza consiste nel possedere Lui. Tutto quello che è stato operato di grande fu impresa di poveri. Quelle cose che sole hanno un valore inestimabile si danno sempre gratuitamente: la grazia, il perdono dei peccati, le ispirazioni divine, e un giorno il Paradiso. E dobbiamo dispensare la nostra ricchezza a tutti i vivi e i trapassati. A Dio le lodi, i ringraziamenti e i tesori delle nostre mani del tutto vuote ma piene solo di Lui.
95. La serenità. Imperavit febri113 (Lc 4,39)
1. Non piacciono al Signore i turbamenti e le agitazioni febbrili. Vuole che in casa nostra vi sia la pace. Noi ci agitiamo di continuo e gli stessi buoni desideri sono pieni di frenesia. La fede stessa è piena di trepidazione: scrupoli, terrori, critiche, irriflessioni. Hanno paura della ragione e della scienza come nemiche. L’apostolato manca di moderazione; ardono di sdegno, non hanno delicatezza o pazienza.
2. Così non si può sentir la sua voce né vederlo o riconoscerlo nei suoi inviati. Solo occupazioni precipitate, sbalzi, mosse irregolari, pentimento stesso febbrile, disordine.
3. Bisogna sapersi adattare ai lunghi ritardi che esige ogni sorta di lavoro nella vera educazione. Per mutare una idea non ci vuole spesso che un istante, ma per formare delle convinzioni e per organizzare un sistema completo e coerente in tutta la vita è indispensabile un lavoro calmo e perseverante. Noi invece abbiamo capricci superbi, impazienze. Così siamo distolti dalla preghiera e diamo fondo alle provviste di generosità. Dopo aver fatto i più bei propositi, invece di incamminarci con pacatezza, ecco correre come pazzi e al primo urto ci siamo trovati a terra.
4. Che ci prenda per mano, Egli è sempre il medico. Potremmo vederlo sempre senza interruzione se i nostri occhi tornassero limpidi senza emozioni violente. Via ogni fantasma e ogni sogno funesto. Potremmo vedere le cose nella vera luce e non negare a Lui il posto dovuto. Valorizzeremmo quel tesoro di generosità e di fortezza ancora non scoperto in noi. Potremmo acquistare una ricchezza di virtù, mentre ora tutto sfugge alla vista del nostro delirio. Che il Signore ci faccia vedere i suoi divini disegni su di noi, che sono la nostra unica
113 “… comandò alla febbre” (Lc 4,39). ragione di essere. Ci liberi dai brividi e dai tremori. Guarisca anche il prossimo, gli scrupolosi, gli sfiduciati, gli impetuosi. Consideriamo con calma i nostri difetti per correggerli e quelli degli altri per sopportarli.
96. La salita verso il Cielo. Psalmi graduales114
1. Spesso montiamo su per le scale. Noi stiamo quaggiù salendo dei gradini che ci conducono lassù. E siamo in questo rappresentati al vivo quali siamo, pieni di desideri, ma pesanti al movimento, che non ci possiamo sollevare se non a stento e a piccoli passi. Gradino per gradino abbiamo potuto salire su le torri altissime, passo per passo sulle vette eccelse. Come potremo raggiungere Dio, l’inaccessibile? Non tutto d’un tratto, ma salendo i gradini dei giorni che passano, fedeli al nostro dovere e con la faccia verso di Lui. Dal giorno in cui è disceso nella nostra umanità abbiamo una via aperta per arrivare fino a Lui. Ad ogni passo ci accosteremo a Lui. Vi sono diversi «gradi» nella virtù e nella preghiera.
2. Una gradinata è buona maestra di pazienza e di energia. Se non si sale fino al sommo è inutile incamminarsi su per i primi gradini; arrestarci a metà strada equivale a rendere inutile la fatica fatta fino a quel punto. Ogni passo che si dà spinge sempre più chi sale a dare il passo seguente e si diventa tanto più irragionevoli quanto più tardi si aspetta a rinunciare di giungere alla sommità. Guardiamo dietro di noi. Gli anni dell’infanzia si perdono giù in basso nella nebbia diventati piccini piccini. Potremmo arrestarci a piangere ma non è più possibile ridiscendere al basso; il nostro avvenire è sulle cime.
3. Il Signore ci conceda la grazia che la morte non ci sorprenda a metà cammino della nostra salita verso di Lui ma, come si legge degli antichi Patriarchi, sia completo il numero dei nostri giorni quando verrà a domandare il gran conto finale. Cioè che montiamo tutti i gradini, che facciamo tutto il nostro dovere e la nostra vita arrivi a quell’altezza che la sua Provvidenza aveva da tutta l’eternità destinata per noi nei suoi disegni di misericordia.
97. Il Verbo Incarnato fine di tutto. Unigenitus115 (Gv 1,18); primogenitus116 (Col 1,15)
114 I salmi delle ascensioni. 115 “… l’unigenito” (Gv 1,18). 116 “… il primogenito” (Col 1,15). 1. Gesù è il Figlio unico, ma è pure il primogenito e tutto fu creato per Lui. Come Verbo fatto carne fu da tutta l’eternità l’oggetto delle compiacenze del Padre e la sua Incarnazione non è avvenuta per caso. Essa sola ci spiega il significato di tutte le creature, in quella guisa che il fine dà nobiltà e valore a tutti i mezzi che conducono ad ottenerlo.
2. Noi esistiamo per Lui; se Egli non fosse esistito non avremmo mai potuto ricevere l’esistenza, e le stelle non avrebbero mai scintillato. Lui è la ragione di essere di tutte le creature (propter quem omnia117, Eb 2,10). Gesù è nostro Padrone per molteplice diritto: di eredità, di elezione e di conquista. Ma non solo per questi titoli: a Lui dobbiamo senz’altro la nostra esistenza. Se non fosse la stessa ragione della nostra vita, se i nostri fratelli per ciò stesso che sono uomini non fossero ordinati a Lui solo come al fine necessario, e se gli insetti, gli uccelli, le piante e le tempeste non trovassero in Lui la loro spiegazione e significato, Gesù sarebbe per noi e per tutto il mondo un nobile straniero che accoglieremmo con garbo ma non con quello slancio pieno con cui un essere va incontro al suo fine e s’inabissa nella sua perfezione eterna. Quello che è termine deve essere allo stesso tempo principio. La perfezione non è che l’esecuzione della prima idea che ci diede l’esistenza. Ogni cosa ha servito di preparazione alla sua venuta perché non attendeva che Lui. Non vogliamo appartenere a Lui per ragioni di titoli giuridici e per obbligazioni transitorie. Conosciamo benissimo che il nostro essere non ha che una legge suprema: appartenere a Lui quanto più profondamente e completamente ci sia possibile e non esistere che per mezzo suo. Ogni cosa fu destinata a Lui fin da principio, dal primo intento divino e in tutte le varie categorie degli esseri Egli tiene sempre il primo posto.
3. Andare incontro a Lui come alla nostra pace e alla nostra vita eterna. Nelle sue mani è il nostro essere che Lui sostiene; e Lui è la nostra ricompensa perché in Lui sta tutta la nostra perfezione. Lo abbiamo cercato a lungo con gli occhi bendati dai nostri stolti capricci. Se avessimo consacrato a Lui tutta l’energia che abbiamo sprecato nel vagabondare in mezzo agli uomini, se avessimo compreso meglio che Lui è il nostro unico bene e che esistiamo per Lui, saremmo meno schiavi delle nostre passioni e meno indegni di fare testimonianza per Lui.
117 “… per il quale sono tutte le cose” (Eb 2,10). 98. Il secondo Avvento. Qui diligunt adventum eius118 (2Tm 4,8)
1. La comunicazione tra il Redentore e colui che Egli ha redento non è mai interrotta: Egli è venuto e ritornerà certo. Dove sono coloro che amano questo Avvento misterioso? Il Cristo penetra nella nostra vita come la punta dell’aratro, ma la gleba dei nostri desideri è compatta e le zolle resistono. Noi non acconsentiamo ad essere spezzati e polverizzati dalla mano di Dio, e basta che una cosa ci arrechi qualche pena perché rifiutiamo di vedere in essa l’azione della Provvidenza. Eppure il Padre celeste è un agricoltore, agricola est119, e spesso siamo andati in estasi al cospetto dei suoi solchi. Perché noi diventiamo diffidenti quando siamo noi i solchi in cui pianta l’aratro per i grandi lavori dell’eternità? Perché ci ribelliamo alla sua mano quando ci rimescola a suo piacimento?
2. Per amare il suo Avvento misterioso ci vuole spesso del coraggio eroico. Il dente guasto che vede venire il ferro del chirurgo, il vecchio albero che vede venire il taglialegna, il noce che vede venire i contadini: tutti coloro che debbono essere scossi, spogliati, potati, strappati forse alle loro connessioni naturali, sferzati dalla tribolazione per poter dare il loro frutto, dovranno aver nell’anima loro una fede senza nubi, e una fedeltà senza limiti quando Gesù Cristo, sempre esigente e risoluto, verrà verso di essi come un ladro.
3. Ci piace essere spontaneamente generosi: ma non siamo contenti che altri metta la mano nelle nostre cose senza domandarci il permesso. È invece appunto questo che il Signore fa tutti i giorni: ci accorgiamo bene che Egli ci va spogliando a nostra insaputa, e poi vuole che ratifichiamo senz’altro queste sue divine ruberie. Avevamo preparati tutti i nostri disegni ed ecco per un caso imprevisto ogni cosa è rovinata. È venuto; bruscamente tutte quelle cose che ci erano così care e sulle quali temevamo che Egli posasse il suo sguardo, tutte le nostre piccole gioie modeste e le nostre tranquille ricreazioni quando Egli è venuto le ha portate vie tutte fino all’ultima e non ci ha lasciato tempo di balbettare qualche parola in contrario. Abbiamo capito: non vi è più rimedio, Signore, bisogna darvi questo e tutto il resto insieme. Le serate alle opere di apostolato, le giornate al lavoro, le ore libere ai poveri, la notte alla preghiera, le vacanze per far del bene al prossimo. Prendete.
4. Dove sono coloro che lo amano quando entra nella loro vita; dove specialmente coloro che vorrebbero affrettare l’ora della sua venuta nelle anime che ancora non lo conoscono? La propagazione della fede dovrebbe essere il nostro pensiero continuo, il principale dei nostri desideri e la causa della nostra gioia.
118 “… che hanno atteso con amore la sua manifestazione” (2Tm 4,8). 119 Gv 15,1. Quanti vi sono tra noi che a questo pensiero non possono pigliar sonno? Quando si attende una notizia desiderata, quando si aspetta la venuta di un amico non si trova modo di poter dormire. Sono forse numerosi fra noi quelli che spiano nel silenzio il rumore lontano dei passi del Redentore che scende per le nostre strade di quaggiù verso il gregge del suo ovile?
5. Ci siamo formati un nido comodo e gradito e la dilazione del secondo Avvento può ben prolungarsi senza che abbiamo a soffrire. Abbiamo ridotto, a costo di molte fatiche, la «valle di lagrime» in un soggiorno abbastanza sorridente. Se ci si proponesse di restar sempre quaggiù e ci si desse facoltà di farci qui una posizione comoda, credo che molti di noi accetterebbero volentieri. Soltanto i cuori puri vedono con gioia l’arrivo di Gesù Cristo. Per noi quanto più lo vediamo avvicinarsi tanto più compaiono le colpe, deboli e molli, una vita senza valore. Questo ci impedisce di desiderare ardentemente la sua venuta e di rallegrarci quando ci si assicura che non è lontano il giorno in cui lo incontreremo. Laetus judicem sustinet120.
6. Ci accordi il Signore il perdono, quello che sa dare Lui e la perseveranza, il dono sublime che Lui nasconde come una perla nella dura necessità della morte, sigillo liberatore dei suoi eletti. Aspettiamola e prepariamoci meglio ad essa vivendo in questa beata aspettativa corde suspenso121.
99. La pace in Dio. Requiem aeternam122
1. È l’ultima preghiera, l’estremo grido alzato dalla Chiesa. A questo termine deve arrivare la vita di tutti. Il riposo senza fine! La Chiesa ha definito il Purgatorio «il riposo in Cristo – in Christo quiescentibus», e «il sonno della pace – in somno pacis». La stessa parola «cimitero123» indica un luogo dove dormono in pace. Sì, gli eletti progrediscono nella via della pace quanto più si avvicinano a Lui. Il riposo delle anime militanti che confidano in Lui, s’abbandonano e si rassegnano totalmente, è un primo passo nella via della conquista del Paradiso. Il riposo delle anime purganti è ancora più profondo: esse non hanno più agitazioni, né inquietudini o movimenti di ribellione, né desiderio contro quello di Dio, né cattiva volontà. Posseggono la pace che supera ogni sentimento e si rimettono alle Sue mani che le purificano, come quelle che sono tutto amore e verità. Sofferenze misteriose molto fini e
120 “… lieto attende il giudice” (SAN GREGORIO MAGNO, Homiliarum in Evangelia, XIII). 121 “… con il cuore sospeso” (SANT’AGOSTINO, Sul Salmo 21, Esposizione 2.29). 122 “L’eterno riposo”. 123 Dal greco κοιμητήριον (koimetérion, \"luogo di riposo\". Il verbo κοιμᾶν, koimân, significa \"fare addormentare\"). nello stesso tempo molto soavi, che non possono dare scosse, sbalzi, apprensioni, ritrosie: sono dovute alla dilazione del pieno possesso di un bene, più che al bisogno di liberarsi da un male; sofferenze in cui il riposo non è per nulla disturbato. Il cielo sarà il luogo di un riposo più completo e più assoluto.
2. La nostra perfezione consisterà allora forse nel non fare più nulla e il termine della nostra esistenza sarà l’inerzia assoluta? Come potrà saziarci l’ozio e essere beati e contenti di non aver più nulla da fare? Il lavoro ci stanca e ci consuma, ma ci eleva e ci nobilita. Come potrà darci soddisfazione un riposo senza alcuna occupazione? Eppure è meglio il possesso che il solo desiderio di un bene: essere una cosa sola con Lui è certo meglio molto che andare soltanto verso di Lui; conoscerlo intimamente è meglio che vederlo a mala pena da lontano. Questo ci ha voluto dirci la Chiesa con le parole Requiem aeternam. Riposare in Lui non è affatto come l’arrestarci che facciamo quaggiù per qualche istante. Quaggiù il nostro riposo è sempre contaminato dalla corruzione, dalle brutture e dalla morte: è un riposo che consiste nella pura cessazione della fatica, e non già nella pienezza della perfezione. Il nostro non è il riposo dell’alta marea.
3. Il suo riposo segue un lavoro finito. Il suo riposo dopo la creazione, quello del Sabato senza sera che dura e durerà eternamente, chi vorrà dirlo come una specie di oziosità, bestemmiando la sua divina attività che è la stessa ragione della propria esistenza? La creazione cui apparteniamo è l’opera del suo riposo e la nostra eternità sarà pure l’opera della sua quiete, quando noi gli apparterremo talmente che ogni cosa in noi sarà piena di Lui, e nell’unione con Lui ameremo tutta l’opera sua. Il suo riposo è un’armonia; mentre il nostro riposo quaggiù suppone sempre la mancanza di qualche cosa. Noi raggiungiamo l’unità nella molteplicità delle cose col metter da parte quelle che ci è impossibile accordare con le altre; ma Lui sa come le cose più diverse possano convenire tra loro e non ha da gettare nel nulla cosa alcuna per stabilire l’ordine che deve durare in eterno.
4. Quando Mosè si cullava sulle onde del Nilo, il Signore solo sapeva che sarebbe stato il condottiero del suo popolo, sarebbe venuto a parlare con Lui sul Sinai e sarebbe morto tra le sue braccia. Benché molto miserabili siamo da Lui obbligati a credere che anche a noi è stata affidata una missione divina. Ogni giorno facendo l’atto di speranza rispettiamo spesso che aspettiamo dalla sua misericordia la visione del Paradiso. Cadono i nostri giorni l’uno appresso all’altro come i frutti dell’autunno al soffiar del vento. Ci conduca per la sua via verso il nostro riposo. Ci dia il riposo dell’anima libera da ogni affetto terreno e piena di confidenza in Lui. Se lo giudica necessario ci faccia pure passare a suo piacere attraverso il riposo che purifica le anime non ancora preparate dopo la morte, a possederlo per sempre. Finalmente esaudisca a nostro favore la preghiera della Chiesa, nostra madre, esaudisca il grande Requiem124 col Lux perpetua125 che sarà Lui stesso.
124 “Riposo”. 125 “Luce perpetua”. 126
126 A questo punto del quaderno don Pietro inserisce il seguente indice, indicando per ciascuna argomentazione la pagina di riferimento: 41. La preghiera liturgica. In medio Ecclesiae 42. Decisione nel bene. Domum negotiationis 43. Essere a gloria di Dio. In laudem Dei 44. La tiepidezza. Semivivo relicto 45. Collaborare alla Redenzione. Obviam ei 46. La preghiera continua. Semper orare 47. La speranza. Sperantes in te 48. La perfezione. Adaperire 49. Gesù principio di unità. Congregavit pereuntes 50. La Passione di Gesù. Memor vulnerum tuorum 51. L’amore a tutta l’umanità. Plorans ploravit in nocte 52. Il timore di Dio e la confidenza. Modicae fidei 53. Il nostro a more a Gesù. Vos me amastis 54. Gesù nel nostro passato. Qui erat 55. Gesù nel nostro presente. Qui est 56. Gesù nel nostro avvenire. Qui venturus est 57. La sofferenza che redime. In vineam meam 58. Valorizzare la nostra particolare inclinazione al bene. Omia traham ad meipsum 59. La preghiera di offerta. Relicto eo 60. La preghiera pratica. Tene quod habes 61. Il Tempo. Redimentes tempus 62. Fare provvista. Oleum secum 63. La gioia. Gaudium plenum 64. Il mondo e Cristo. Omnia in Ipso constant 65. L’abnegazione. Omnibus omnia 66. Lo studio. Ego sum veritas 67. La perfezione delle cose comuni. Usque ad Summum 68. La fortezza. Aedificantes 69. La sofferenza. Beati qui lugent 70. La povertà di spirito. Beati pauperes 71. La sincerità. Et saturabuntur 72. I poveri. Discipulus ille non moritur 73. L’umiltà di fronte ai pagani. Infideli deterior 74. Lo Spirito Santo. Lumen cordium 75. La preziosità del cristianesimo. Erat autem nox 76. La nostalgia del passato. Aspiciens retro 77. Gli attributi divini. Nescio, Deus scit 78. Le convinzioni profonde. Orta tribulatione 79. Le false virtù. Superseminavit zizania 80. L’apostolato del missionario. Pro mundi vita 81. La Provvidenza divina. Cum esses sub ficu 82. Le piccole virtù. Recta sapere 83. Il bene spicciolo. Cum rediero 84. La preghiera «in suo nome». Nesciens quid diceret 85. La generosità nel dare. Duo minuta 86. La devozione al Sacro Cuore di Gesù. Elevatis … oculis 87. Lo spogliamento totale. Relictis retibus 88. La lotta e la forza. Sustinent me 89. La nostra via. Ego sum via 90. Gesù Giudice. Iudicium est … mundi 91. La creazione opera di Dio. Et … erant valde bona 92. Essere lampade. Sub modio 93. Le buone ispirazioni. A bimatu et infra
94. La povertà. De laqueo venantium 95. La serenità. Imperavit febri 96. La salita verso il Cielo. Psalmi graduales 97. Il Verbo Incarnato fine di tutto. Unigenitus … Primogenitus” 98. Il secondo Avvento. Qui diligunt adventum eius 99. La pace in Dio. Requiem aeternam QUADERNO 14 - Caelum regula mea! (s. d.) – SOMMARIO127 41. La preghiera liturgica. In medio Ecclesiae (Sal 21,23)……………………….2 42. Decisione nel bene. Domum negotiationis (Gv 2,16)……………………….2 43. Essere a gloria di Dio. In laudem Dei (Fil 1,11)………………………………….3 44. La tiepidezza. Semivivo relicto (Lc 10,30)………………………………………….5 45. Collaborare alla Redenzione. Obviam ei (Mt 25,6)…………………………..5 46. La preghiera continua. Semper orare (Lc 18,1)…………………………………7 47. La speranza. Sperantes in te…………………………………………………………….8 48. La perfezione. Adaperire (Mc 7,34)………………………………………………….9 49. Gesù principio di unità. Congregavit peruentes (1Mac 3,9)……………10 50. La Passione di Gesù. Memor vulnerum tuorum………………………………11 51. L’amore a tutta l’umanità. Plorans ploravit in nocte (Lam 1,2)………12 52. Il timore di Dio e la confidenza. Modicae fidei (Mt 8,26)……………….13 53. Il nostro a more a Gesù. Vos me amastis (Gv 16,27)………………………14 54. Gesù nel nostro passato. Qui erat (Ap 4,8)…………………………………….15 55. Gesù nel nostro presente. Qui est (Ap 4,8)…………………………………….16 56. Gesù nel nostro avvenire. Qui venturus est (Ap 4,8)………………………17 57. La sofferenza che redime. In vineam meam (Mt 20,4)……………………18 58. Valorizzare la nostra particolare inclinazione al bene. Omia traham ad meipsum (Gv 12,32)……………………………………………………………………………..19 59. La preghiera di offerta. Relicto eo (Mt 26,56)…………………………………20 60. La preghiera pratica. Tene quod habes (Ap 3,11)……………………………21 61. Il Tempo. Redimentes tempus (Ef 5,16)…………………………………. 22 62. Fare provvista. Oleum secum (Mt 25,3)………………………………………….24 63. La gioia. Gaudium plenum (Gv 16,24)…………………………………………….25 64. Il mondo e Cristo. Omnia in Ipso constant (Col 1,17)……………………..26 65. L’abnegazione. Omnibus omnia (1Cor 9,22)……………………………………27 66. Lo studio. Ego sum veritas (Gv 14,6)……………………………………………...28 67. Le perfezioni delle cose comuni. Usque ad Summum (Gv 2,7)…… 29 68. La fortezza. Aedificantes (Mt 21,42)……………………………………………….30 69. La sofferenza. Beati qui lugent (Mt 5,4)………………………………………….32 70. La povertà di spirito. Beati pauperes (Mt 5,3)………………………………..33 71. La sincerità. Et saturabuntur (Sal 21,27)…………………………………………35 72. I poveri. Discipulus ille non moritur (Gv 21,23)……………………………….36 73. L’umiltà di fronte ai pagani. Infideli deterior (1Tm 5,8)………………….37 74. Lo Spirito Santo. Lumen cordium……………………………………………………38 75. La preziosità del cristianesimo. Erat autem nox (Gv 13,30)……………39 76. La nostalgia del passato. Aspiciens retro (Lc 9,62)……………………..…..39 77. Gli attributi divini. Nescio, Deus scit (2Cor 12,2). ………………………..…41 78. Le convinzioni profonde. Orta tribulatione (Mc 4,17)…………………….42 79. Le false virtù. Superseminavit zizania (Mt 13,25)……………………………43 80. L’apostolato del missionario. Pro mundi vita (Gv 6,51)……… 44 81. La Provvidenza divina. Cum esses sub ficu (Gv 1,48)………………………45 82. Le piccole virtù. Recta sapere…………………………………………………………46
127 Inserito in fase di redazione. 83. Il bene spicciolo. Cum rediero (Lc 10,35)………………………………………..47 84. La preghiera «in suo nome». Nesciens quid diceret (Lc 9,33)…………48 85. La generosità nel dare. Duo minuta (Mc 12,42)……………………………..49 86. La devozione al Sacro Cuore di Gesù. Elevatis … oculis (Gv 11,41)…49 87. Lo spogliamento totale. Relictis retibus (Mt 4,20)……………………… 51 88. La lotta e la forza. Sustinent me (Mc 8,2)……………………………………….52 89.La nostra via. Ego sum via (Gv 14,6)………………………………………………..53 90.Gesù Giudice. Iudicium est … mundi (Gv 12,31)………………………….…..54 91. La creazione opera di Dio. Et … erant valde bona (Gen 1,31)…………55 92. Essere lampade. Sub modio (Mt 5,15)……………………………………………56 93. Le buone ispirazioni. A bimatu et infra (Mt 2,16)…………………………..57 94. La povertà. De laqueo venantium (Sal 123,7)…………………………………59 95. La serenità. Imperavit febri (Lc 4,39)………………………………………….…..60 96. La salita verso il Cielo. Psalmi graduales…………………………………………61 97. Il Verbo Incarnato fine di tutto. Unigenitus (Gv 1,18) … Primogenitus (Col 1,15)………………………………………………………………………………………………61 98. Il secondo Avvento. Qui diligunt adventum eius (2Tm 4,8)…………….63 99. La pace in Dio. Requiem aeternam…………………………………………………64
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