Quaderno 3 - Semper excelsior 1938

QUADERNO 3 Semper excelsior!1

Quaderno di P. Margini

1 Titolato così da don Pietro sulla copertina del quaderno raffigurante una mongolfiera che si libra oltre le nubi.

1. Come dolce prima dell’uomo Doveva andare il mondo.

L’uomo ne cavò beffe di demoni, La sua lussuria disse cielo, La sua illusione decretò creatrice, Suppose immortale il momento […]2.

Da ciò che dura a ciò che passa, Signore, segno fermo, Fa’ che torni a correre un patto.

Oh! Rasserena questi figli, Fa’ che l’uomo torni a sentire Che, uomo, fino a te salisti Per l’infinita sofferenza.

Sii la misura, sii il mistero.

Purificante amore, Fa’ ancora che sia scala di riscatto La carne ingannatrice. Vorrei di nuovo sentirti dire Che in te finalmente annullate Le anime s’uniranno E lassù formeranno, Eterna umanità, Il tuo sonno felice.

(Giuseppe Ungaretti3)

2 Omissis operato da don Pietro. 3 Giuseppe Ungaretti, poeta e scrittore italiano (1888-1970). Da: Sentimento del tempo, La preghiera (1928).

2. Via alla Croce

Stazione Prima

È finita. Abbiamo tenuto giudizio di Dio e l’abbiamo condannato a morte. Non vogliamo più Cristi con noi, perché essi ci impacciano. Non abbiamo ormai altro re che Cesare, altra legge che il sangue e il denaro. Appiccatelo alla croce, se vi pare, ma cavatecelo dagli occhi: qualcuno lo conduca via! Tolle, tolle! Tanto peggio: poiché è necessario, che lo si scanni e a noi si rilasci Barabba! Pilato sta seduto nel luogo detto Gabbatha. Hai niente da dire? – dice Pilato. E Gesù non risponde. Io non trovo alcuna colpa in quest’uomo – dice Pilato – ma bha! Che egli vada a morte, poiché vi sta tanto a cuore. Io ve lo do. Ecce Homo. Eccolo, con la corona in capo e la porpora sulle spalle. Un’ultima volta su di noi quegli occhi pieni di lacrime e di sangue. Cosa possiamo farci? Non vi è alcun modo di tenerlo con noi più a lungo. Come era uno scandalo per i Giudei, egli è in mezzo a noi una cosa che manca di senso. La sentenza d’altra parte è data, non manchevole in niente, in lingua ebraica greca latina. E si vede la turba gridare e il giudice che si lava le mani.

Stazione Seconda

Gli danno ancora i suoi abiti e gli portano la croce. Io ti saluto – dice Gesù – o Croce da tanto tempo bramata. E tu guarda, cristiano, e fremi. Ah, momento solenne, quando il Cristo per la prima volta prende la Croce eterna! Consumazione in questo giorno dell’albero del Paradiso! Guarda, peccatore, e contempla a che cosa è servito il tuo peccato. Ormai nessuna colpa senza un Dio al di sopra e nessuna croce senza il Cristo. Certo la sofferenza dell’uomo è grande, ma niente abbiamo da dire. Poiché Dio è ormai al di sopra, Egli non è venuto per dichiarare ma per compiere. Gesù prende la Croce come noi prendiamo la Santa Eucarestia. Noi gli diamo del legno per pane – come è detto dal profeta Geremia4. Ah, come è lunga, enorme e malagevole la croce.

4 Cfr NOVA VULGATA: “Caedamus lignum in vigore eius et eradamus eum de terra viventium, et nomen eius non memoretur amplius – Venite, diamo a lui il legno in luogo di pane, e sterminiamolo dalla terra dei vivi e non sia rammentato il suo nome” (Ger 11,19). Come è dura e inerte, come è grave il peso del peccatore infruttuoso. Come è lunga da portare passo a passo fino a morire sopra! Sei tu che devi portare questo, da solo, Signore Gesù? Fa’ anche me paziente al legno che tu vuoi portare. Poiché noi dobbiamo portare la croce prima che la croce ci porti.

Stazione Terza

In cammino! Vittima e torturatori insieme, il gruppo si istrada verso il Calvario. Dio trascinato per la gola all’improvviso barcolla e casca a terra. Cosa dici, Signore, di questa prima caduta? E poiché, ora, sai, che cosa ne pensi? Questo momento. Quando si casca e il mal portato carico abbatte di schianto. Come la trovi, questa terra che tu stesso hai creata? Ah, non soltanto la strada della giustizia è scabra, Quella del male, ugualmente, è perfida e traditora. Non si ha solo da camminare di filato, bisogna impararla pietra a pietra, E il passo spesso tradisce, mentre il cuore è ostinato. Ah, Signore, per i tuoi ginocchi benedetti, questi due ginocchi che ti sono mancati di botto, Per il soprassalto improvviso e la caduta al principio dell’orribile strada, Per il mal passo che ti ha tradito, per la terra che hai assaggiata, Salvaci dal primo peccato che ci prende di sorpresa.

Stazione Quarta

Madri che avete veduto morire il primo ed unico figliuolo, Ricordate quella notte, l’ultima accanto alla piccola creatura che si lamenta, L’acqua che si tenta di dare a bere, il ghiaccio, il termometro, E la morte che si avanza lenta né si può ormai disconoscere. Mettetegli le sue povere scarpe, mutatelo di panni e di pannolini. Qualcuno viene che sta per portarmelo via e metterlo dentro la terra. Addio, figliolino dolce! addio, carne della mia carne! La quarta stazione è Maria che ha accettato tutto. Sta in un canto della strada ad attendere il Ricco di ogni Povertà. I suoi occhi sono asciutti, la bocca senza umidore. Ella non dice niente e guarda Gesù venire. Ella accetta. Ella accetta un’altra volta. L’urlo È contenuto severamente nel cuore forte e torchiato. Ella non dice niente e guarda Gesù Cristo. La Madre guarda il Figliolo, la Chiesa il Redentore. La sua anima con violenza si butta verso di lui come l’urlo di un soldato moribondo. Ella sta diritta davanti a Dio e gli dà a leggere la sua anima Niente nel suo cuore che dica di no o riprenda. Nessuna fibra nel suo cuore forato che non accetti e consenta. Come Dio stesso che è là, essa è presente. Ella accetta e guarda il Figliuolo che ha concepito nelle sue viscere. Non dice niente e guarda il Santo dei Santi.

Stazione Quinta

Viene il momento che non ce la fa più e non si può avanzare. A questo punto, noi abbiamo parte e tu permetti Che siamo adoperati anche noi, magari colla forza, intorno alla tua Croce. Così Simone il Cireneo che viene attaccato a questo tronco di legno. Egli lo impugna saldamente e avanza dietro a Gesù, Affinché niente della Croce strascichi e vada perduto.

Stazione Sesta

Tutti i discepoli sono fuggiti, Pietro stesso rinnega con foga. Una donna nel colmo dell’insulto e nel cerchio della morte Si butta e trova Gesù e gli prende il volto tra le mani. Insegnaci, o Veronica, a sfidare il rispetto umano. Poiché quegli per il quale Gesù Cristo non è soltanto una figura, ma è vero, Agli altri uomini subito diventa odioso e sospetto. La sua norma di vita è capovolta, i suoi motivi sono ormai diversi dai loro. Qualcosa in lui, sempre, sfugge ed è altrove. Un uomo grande e grosso che dice il rosario e va, l’impudente, alla confessione, Che fa di magro il venerdì e si mostra in mezzo le donne alla messa, È cosa che mette il riso e urta, diverte e anche irrita. Stia guardingo su ciò che fa, perché gli occhi si appuntano sopra di lui. Stia guardingo su tutti i suoi passi, perché egli è un segno. Perché ogni cristiano del suo Cristo è figura vera, anche se indegna. E il volto che egli mostra è il riflesso triviale Di questa Faccia di Dio nel suo cuore, abbominevole e trionfale. Lasciala a noi guardare ancora una volta, Veronica. Sul lino dove tu l’hai raccolta, la faccia del Santo Viatico. Questo mantile di pio lino dove la Veronica ha nascosto La faccia del Vendemmiatore nel giorno della sua ebrietà, Affinché per sempre la sua immagine si stampasse, Intrisa del suo sangue, delle sue lagrime e dei nostri sputi.

Stazione Settima Non è il sasso sotto il piede, né la cavezza Tirata troppo rudemente, è l’anima a crollare di schianto. O meriggio della nostra vita, caduta cosciente! Quando il magnete non ha più forza e la fede non ha più cielo, Perché la strada è lunga e la meta è lontana, Perché intorno a noi è la solitudine e manca ogni consolazione. Lunghezza del tempo, ripugnanza segreta e crescente Della rigida ingiunzione e di questo compagno di croce! Perciò si allargano tutte e due le braccia come uno che nuota. Non si casca più sui ginocchi ma col volto in avanti. È il corpo a cascare, ma anche l’anima nello stesso momento ha detto di sì. Salvaci dalla seconda caduta che l’uomo fa colla volontà piena per il tedio.

Stazione Ottava

Prima di salire un’ultima volta sulla montagna, Gesù alza il dito e si volta verso il popolo che lo accompagna, Alcune povere donne in pianto con i lor figli in braccio. E noi, non guardiamo solo, ma ascoltiamo Gesù perché è là. Non alza il dito un uomo dentro quella povera stampa, È Dio il quale per la nostra salvezza non ha patito soltanto sopra una tavola dipinta. Quest’uomo era il Dio Onnipotente, è dunque vero! Vi ha un giorno nel quale Dio ha patito questo per noi, realmente! Che pericolo è dunque quello dal quale siamo stati salvati a tal prezzo? La salvezza dell’uomo è cosa così da poco che il Figlio Per effettuarla deve cavarsi a forza dal seno del Padre? Se così è per il Paradiso, che cosa è dunque l’Inferno? Che si farà della legna secca, se si fa a questo modo della legna verde?

Stazione Nona

«Sono caduto ancora e questa volta è finita. Vorrei rialzarmi, ma non vi ha più maniera. Perché sono stato torchiato come un frutto e l’uomo che porto sulle spalle è troppo pesante. Ho fatto il male e l’uomo morto con me è troppo pesante. Moriamo dunque, perché è più facile giacere sul ventre che rimanere diritto, Morire più che vivere, restare sotto la croce che sopra». Salvaci dal terzo peccato che è la disperazione. Niente è perduto fino a che resta la morte da gustare. È finita con questo legno, ma vi rimane il ferro. Gesù casca la terza volta ma in vetta al Calvario. Stazione Decima

Ecco l’aia dove il grano di frumento celeste è battuto. Il Padre è nudo, il velo del Tabernacolo si sdruscia. La mano si abbatte su Dio, la Carne della Carne sussulta, l’Universo colpito nella sua radice trema fino al fondo delle sue entragne. Noi, poiché essi hanno tolto la tunica e la veste inconsutile5, Alziamo gli occhi e prendiamo ardimento a guardare Gesù il puro. Così non ti hanno lasciato niente, o Signore, hanno preso tutto, Sino il vestimento che sta a contatto colla carne, come oggi Si spoglia il monaco del suo saio e la vergine consacrata del suo soggolo6. Hanno preso tutto, non gli resta più niente da coprirsi, Non ha più alcuna difesa, è nudo come un bruco. È dato in balìa a tutti gli uomini e denudato. Che è codesto il vostro Gesù! Mette addosso il riso. È tutto pesto e insozzato. È un soggetto da alienisti e da questura, Taures pingui obsederunt me. Libera me, Domine, de ore canis7. Egli non è il Cristo. Non è il figlio dell’uomo. Non è Dio. Il suo vangelo è bugiardo e suo Padre non è nei cieli. È un matto! È un inganna-popoli! Parli! Taccia! Il servo di Anna lo colpisce con una guanciata e Renan lo bacia. Hanno preso tutto. Ma egli resta il sangue scarlatto. Hanno preso tutto. Ma egli resta la piaga che folgora. Dio è nascosto. Ma egli resta l’uomo dei dolori. Dio è nascosto. Egli resta il mio fratello in pianto! Per la tua umiliazione, o Signore, per la tua vergogna, Abbi pietà dei vinti, del debole superato dal forte! Per l’orrore di questo ultimo vestimento che ti tolgono, Abbi pietà di tutti quelli che sono lacerati! Del bambino operato tre volte che il medico incoraggia, E del povero ferito a cui si rifà la fasciatura, Dello sposo umiliato, del figlio accanto alla madre moribonda, E di questo tremendo amore che dobbiamo sterparci dal cuore.

Stazione Decima Prima Dio, ecco, non è più in mezzo a noi. È per terra. Il branco serrato lo ha preso alla gola, come un cervo. Tu sei dunque venuto. Tu sei veramente con noi, o Signore! Chi si è messo a sedere sopra di te, chi punta il ginocchio sopra il tuo cuore. Questa mano che il carnefice torce è la destra dell’Onnipotente. Si è legato l’Agnello per i piedi, si configge l’Onnipotente.

5 Composto di un pezzo unico di stoffa, senza cuciture. 6 Striscia di velo o di tela che fascia il collo e, circondando il viso, si ricongiunge alla sommità della testa. 7 “Mi circondano tori numerosi. Liberami, o Signore, dalle fauci del cane” (Cfr Sal 22 [21]). Si segna col gesso sulla croce la sua altezza e l’apertura delle sue braccia. E quando egli sta per assaggiare i nostri chiodi, noi potremo vedere tutta la sua figura. Figliuolo Eterno, circoscritto solo dalla tua Infinitezza, Ecco tra noi il breve spazio che ti sostiene, tanto bramato. Ecco Elia sul morto giacere per tutta la sua lunghezza8. Ecco il trono di Davide e la gloria di Salomone, Ecco il letto delle nostre delizie con te, grossolano e duro! È difficile per un Dio ridursi alla nostra misura. Tirano e il corpo, mezzo rotto, scricchiola e geme, È stretto come un frantoio, e orrendamente ferito in ogni membro, Affinché il Profeta sia giustificato che l’ha predetto in queste parole «Hanno forato le mie mani e i miei piedi. Hanno contato tutte le mie ossa»9. Sei preso, Signore, e non puoi fuggire. Sei inchiovellato alla croce con le mani e coi piedi. Io non ho altro da cercare in cielo con l’eretico e il folle. A me basta questo Dio che sta tra quattro chiodi.

Stazione Decima Seconda

Egli pativa, certo, fino a questo punto, ma ora sta per morire. La Grande Croce nella notte palpita un poco col Dio che respira. Non manca niente. Basta lasciare allo strumento di fare la sua opera: Esso, senza arrivare al fondo, dal congiungimento delle due nature, Dal profondo del corpo e dell’anima e dell’ipostasi, estrae e cava Tutta la possibilità di patire che è in lui. Egli è interamente solo come Adamo quando era solo nell’Eden, Egli è per tre ore solo e assapora il vino, L’ignoranza invincibile dell’uomo e l’allontanamento di Dio. Il corpo del nostro ospite diventa peso e la sua fronte si china poco a poco. Egli non vede più sua Madre e suo Padre l’abbandona. Egli assapora il calice e la morte lo intossica, adagio. Non ti basta dunque questo vino aspro e mescolato con l’acqua, Poiché all’improvviso, ti raddrizzi e gridi: «Sitio»? Hai sete, o Signore? Questa parola è per me? Sono io del quale hai bisogno o dei miei peccati? Sono io a mancare prima che tutto sia consumato?

Stazione Decima Terza Qui la Passione termina e il Compianto seguita. Il Cristo non è più sulla Croce, egli è con Maria che l’ha accolto: Come ella lo accettò, promesso, ella lo accoglie consumato.

8 Cfr 1Re 17,17-24. 9 Cfr Sal 22 [21], 17-18. 8 Il Cristo che ha patito davanti agli occhi di tutti di nuovo è nascosto nel seno di sua Madre. La Chiesa tra le sue braccia per sempre raccoglie il suo Diletto. La parte di Dio, la parte di Madre, l’opera dell’uomo. Tutto ciò stava sotto il suo mantello, con essa per sempre. Essa l’ha preso, vede, palpa, prega, piange, ammira. Essa è il sudario e l’unguento, essa è la sepoltura e la mirra. Essa è il prete e l’altare, il vaso e il Cenacolo. Qui termina la Croce e incomincia il Tabernacolo.

Stazione Decima Quarta

Il sepolcro dove il Cristo morto dopo la passione è collocato, La cavità aperta in fretta perché egli dorma la sua notte, Prima che il trafitto risusciti e salga al Padre, Non è soltanto questa sepoltura nuova, è la mia carne, È l’uomo, la tua creatura, che è più profondo della terra. Dacché il suo cuore è aperto e le sue mani sono forate, Non c’è più croce fra noi alla quale il suo corpo non si adatti. Non c’è più peccato dentro di noi al quale la sua piaga non risponda. Vieni dunque dall’altare dove stai celato verso di noi, Salvatore del mondo. Signore, come la tua creatura è aperta, e quanto è profonda!

(Paul Claudel10)

10 Paul Claudel (1868-1955), poeta, drammaturgo e diplomatico francese. 3. I Santi! Permettete che vi arresti un istante su questa parola. I Santi! Dimenticate gli uomini nel senso in cui bisogna, per ricordarvi dell’uomo. Ricordatevi di voi stesso. Guardate il vostro abisso. Perché un uomo diventi un Santo, sognate a quello che vi deve passare. E pur tuttavia questo fatto si è compiuto. Se si fosse compiuto una sola volta, l’attenzione sarebbe forse più facilmente fissa su di lui. Ma è una cosa che è avvenuta spesso. Sovente! che parola per una tale cosa! E si può dire dei santi come degli astri! Assiduitate reluxerunt11. Uno dei grandi errori del mondo consiste a figurarsi i Santi come degli esseri completamente stranieri all’Umanità, come delle figure di cera, tutte colate nel medesimo stampo (…). Il Mondo soprannaturale, come il mondo naturale, contiene l’unità nella varietà, e tale è il senso della parola: Universo (…). Uno dei caratteri della Chiesa Cattolica è la sua invincibile calma. Questa calma non è freddezza. Essa ama gli uomini, ma non si lascia sedurre dalle loro debolezze. In mezzo alle mitraglie e ai cannoni, Ella celebra l’invincibile gloria dei Pacifici e la celebra cantandola. Le montagne del mondo possono crollare le una sopra le altre. Se in quel giorno è la festa di un piccolo pastore, di San Germano, per esempio, ella celebrerà il piccolo pastore con la calma immutabile che le viene dall’Eternità. Qualunque rumore che facciano attorno ad essa i popoli ed i re, ella non dimenticherà uno dei suoi poveri, uno dei suoi mendicanti, uno dei suoi martiri. I secoli non fanno niente, non di più delle mitraglie. Mentre le mitraglie gronderanno, risalirà il corso dei secoli per celebrare la gloria immortale di qualche giovinetta sconosciuta durante la sua vita, e morta da più di mille anni. Invano il mondo crolla. La Chiesa conta i suoi giorni con le sue feste. Ella non dimenticherà uno dei suoi vecchi, né uno dei suoi fanciulli, né una delle sue vergini, né uno dei suoi solitari. (Ernest Hello12)

4. Mi pare che Dio con la sua voce interna non chiami soltanto i profeti, ma parli a tutti i bambini, come d’altronde, a tutti gli uomini. Oggi so che il maggiore scandalo della vita presente, e della educazione falsa, impartita dal mondo al fanciullo, è questo: genitori e maestri, per lo più gli insegnano, o direttamente o no, che Dio non parla. Fissano l’occhio del bambino ai libri, ed il suo orecchio alla parola articolata. Certo, libri e parola articolata son buoni e necessari. Ma noi dimentichiamo di dire al bambino ciò che gli diceva il sommo sacerdote: «Va’; e se ti chiamano ancora, rispondi così: Parla Signore che il tuo servo ti ascolta»13. Invece, i più tra gli educatori proibiscono al bambino di ascoltare. Si burlano della guida interna, e dell’angelo (Angelus qui loquebatur in me14) e di ogni altra traccia di cielo, scoperta nel bambino; poiché bisogna schiacciarlo ben bene, bisogna farlo diventare proprio terrestre, proprio

11 Risplendettero per la costanza. 12 Ernest Hello (1828-1885), scrittore e critico letterario francese. 13 Cfr 1Sam 3,19. 14 “L’angelo che parlava con me” (Zac 1,14). conforme al tipo comune. Il genere umano, oggi ancora, opera come quelle tribù selvagge, che mettono un peso sulla testa dei neonati, per ottenere un cranio piatto. (Gratry15)

5. È un breve passo dall’infanzia alla morte; è un giorno che finisce presto, è un sogno. Dunque è così la vita! tutti gli uomini nascono e muoiono così! Dal principio alla fine del mondo; sarà così! le generazioni s’incalzano e passano presto; ciascuno vive un momento e sparisce. Allora vedevo quelle generazioni passare e sparire come armenti che vanno al macello senza pensarci; come le onde d’un fiume che s’accosta alle cateratte, ove discendono ognuna alla sua volta, ma per restare sotto terra, senza riveder più il sole. In quel fiume vedevo qualche piccola onda sorgere e scorrere un momento, e, durante un batter d’occhio, riflettere un raggio di sole, poi affondare. Quest’onda sono io; quelle che luccicarono lì vicino sono coloro che amai; ma già tutto è ripiombato nella voragine. (Gratry)

6. Noi siamo nell’egoismo. Chi può fingere d’ignorarlo? Per negare l’egoismo, si deve negare il male: c’è infatti chi ci prova. I sofisti contemporanei hanno scritto che «il bene ed il male non sono tanto opposti quanto si crede». Così, per negar l’egoismo come vizio, bisogna negare il male. Ma viceversa, per negare il male, bisogna negare l’egoismo come fatto. Poiché, se l’egoismo non si può definire se non come l’amore dell’«io» spinto fino al disprezzo d’altrui, dell’ordine e della giustizia, e se, infatti, l’uomo ama sé stesso con disordine, si deve concludere che almeno l’egoismo è un male, come implica la sua definizione. In quanto poi al fatto dell’egoismo, non importa provarlo. Un fatto si mostra e si descrive. Descriviamolo. Posso io non vedere che preferisco me ad altrui, all’ordine, alla giustizia ed alla verità, quindi a Dio; che non solo preferisco me ai miei simili, ma che accetto per un po’ di felicità, una gran sofferenza altrui? […]16. Scenda ciascuno nel proprio cuore: Chi non ha avuto nella sua vita qualche ora di passione feroce in cui avrebbe accettato la distruzione del genere umano per vivere nella propria concupiscenza soddisfatta a questo prezzo? Dunque tutti gli uomini han potuto sentirsi, un giorno almeno, fratelli di Nerone, che bruciava Roma per suo piacere o di Caligola, quando desiderava che il genere umano avesse una testa sola, per tagliarla. In quasi tutti i cuori c’è un Nerone, se non sviluppato, almeno in germe. L’egoismo nostro è così cieco e contrario all’ordine in tutto, che non solo l’uomo preferisce sé a Dio e all’umanità, ma inoltre preferisce sé a se stesso, sé nella sua gioia presente, parziale, passeggera e vergognosa, a se

15 Joseph Gratry (1805-1872), scrittore, teologo e presbitero francese. 16 Omissis operato da don Pietro. stesso nella sua gioia durevole. Non solo gli uomini che credono fermamente alla vita futura e alle sue condizioni la sacrificano mille volte e quasi costantemente alla felicità della vita presente, ma quelli che, ad esempio, vedono, al termine della passione e della gioia d’un momento, la sofferenza, il rimpianto eterno, la malattia, forse la morte; quelli che sanno come la vittoria sulla passione sarebbe la gioia duratura, la felicità, la salute, l’onore, la rigenerazione morale e intellettuale; quelli stessi amano sé con tanto disordine, accecamento e pazzia, che spesso li vediamo arrischiare la vita per un momento di gioia, e possiamo dire che in ciascun uomo c’è il germe di quei furori che costringevano gli amanti di Cleopatra a dire: «Voglio morir domani!». Son dubbi questi fatti? Forse qui non c’è disordine, né egoismo, né male? «Noi nasciamo ingiusti – scrive Pascal – perché ciascuno tende a se stesso. Ciò è contro ogni ordine; bisogna tendere al generale; e la china verso se stesso è il principio di ogni disordine, in guerra, in politica, in economia». «È cieco davvero chiunque non odia in sé questo amor proprio e quell’istinto che lo porta a collocarsi più in su di tutto». Pascal, come Platone, come Malebranche, e come tutti i veri filosofi, ha veduto che nasciamo e siamo in uno stato di egoismo, assurdo e mostruoso, che consiste nel volerci far centro, principio a tutto in ogni cosa. «Dio – dice Pascal – ha voluto fare degli esseri che componessero un corpo di membri pensanti. Tutti gli uomini sono membri di questo corpo; e, per essere felici, debbono conformare la loro volontà particolare alla volontà universale che governa l’intero corpo. Nondimeno avviene spesso che crediamo essere un tutto, e che, non vedendo il corpo da cui si dipende, crediamo dipendere solo da noi stessi, e vogliamo farci noi centro e corpo. Ma in tale stato ci troviamo come un membro separato dal proprio corpo; che, non avendo in sé il principio di vita, altro non fa che smarrirsi e meravigliarsi nell’incertezza del suo essere. Finalmente, quando uno comincia a conoscersi, è, per così dire, tornato a casa sua. Sente di non essere corpo; capisce di non essere se non un membro del corpo universale; capisce che il membro non ha vita né essere, né moto se non dallo spirito del corpo e per il corpo; che una creatura separata dal corpo cui appartiene non ha più se non un essere che perisce e muore. Capisce che deve amare sé soltanto per il corpo, o piuttosto amar lui solo, poiché amandolo, ama se stesso, non avendo l’essere se non in lui, da lui e per lui». Noi vogliamo farci centro, farci tutto, farci principio; c’isoliamo dall’universale e dall’insieme; ci separiamo tanto da Dio quanto dal genere umano. Queste cose le vede anche il Malebranche e dice: «Come daremo ad ogni cosa il luogo che le spetta, se la stimiamo solo in relazione con noi stessi? Certo se uno considera sé come centro dell’universo, tutto l’ordine si capovolge, tutte le verità cambiano natura. Una torcia diventa più grande d’una stella, e un frutto più stimabile della salute dello Stato. La terra, considerata dagli astronomi come un punto in rapporto all’universo, è l’universo stesso. Ma quest’universo poi non è se non un punto in confronto col nostro essere stesso. In certi momenti, quando parla il corpo e le passioni sono commosse, saremmo pronti, se potessimo, a sacrificare anche quell’universo alla gloria ed ai piaceri del corpo nostro».

7. Un giovane costantemente allegro, un’anima pura e ridente, quale tesoro inestimabile per una famiglia e per la società. Nell’America del Nord vi è una pianta interessante, chiamata candela della notte. I suoi fiori, di un giallo pallido, assorbono durante il giorno la luce del sole e, per così dire, l’accumulano nell’interno delle proprie fibre. Durante la notte la fanno irradiare attorno a sé, così che gli animalucci notturni possono trovare in fondo al calice il dolce nettare. Ecco l’immagine del giovane ideale. Egli in sé rispecchia il raggio del sole, la gioia e l’amore; la sua anima esuberante di bontà e di virtù irradia attorno a sé tesori di bene. Amico mio, sii sempre, nell’intimità del focolare domestico e fuori, affabile, compiacente, allegro con tutti; coi tuoi genitori in modo particolare, sollevandoli ne le loro pene. Sii come il lieto raggio di sole, come l’uccello canoro nella tepida primavera, come la candela lucente nell’oscurità della vita. (Tòth Tihamér17)

8. Litanie dell’umiltà. O Gesù! mite ed umile di cuore! Esauditemi. Dal desiderio d’essere stimato. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio d’essere amato. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio d’essere decantato. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio d’essere onorato. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio d’essere lodato. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio di essere preferito agli altri. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio d’essere consultato. Liberatemi, Gesù. Dal desiderio di essere approvato. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere umiliato. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere disprezzato. Liberatemi, Gesù. Dal timore di soffrire ripulse. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere calunniato. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere dimenticato. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere preso in ridicolo. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere ingiuriato. Liberatemi, Gesù. Dal timore di essere sospettato. Liberatemi, Gesù. Che gli altri siano amati più di me. Gesù, datemi la grazia di desiderarlo! Che gli altri siano stimati più di me. Gesù, datemi la grazia di desiderarlo! Che gli altri possano crescere nell’opinione del mondo e che io possa diminuire. Gesù, datemi la grazia di desiderarlo! Che gli altri possano essere impiegati ed io messo da parte. Gesù, datemi la grazia di desiderarlo!

17 Tòth Tihamér (1889-1939), vescovo cattolico, scrittore religioso e professore. Che gli altri possano essere lodati ed io non curato. Gesù, datemi la grazia di desiderarlo! Che gli altri possano essere preferiti a me in ogni cosa. Gesù, datemi la grazia di desiderarlo! Che gli altri possano essere più santi di me, purché io divenga santo in quanto posso. Gesù datemi la grazia di desiderarlo! (Card. R. Merry Del Val18)

9. Una leggenda racconta: Alla prova degli angeli si formarono due partiti. Un angelo si ritirò e disse tra sé: «Per ora non mi associo ancora ad alcuna parte: voglio vedere di chi sarà la vittoria e mi metterò da quella parte». Perciò gli fu imposto il castigo di non poter entrare in cielo, finché non avesse portato dalla terra il più prezioso gioiello del mondo. Rattristato l’angelo si mise a camminare per cercare il tesoro più grande del mondo. Ecco che trovò una gemma gigantesca: «Prenderò con me questo splendido diamante» pensò; ma avvicinandosi al cielo la pietra preziosa gli si disfece tra le mani e dovette ritornare sulla terra. Mentre camminava sentì grida d’aiuto: un bambino era caduto nel torrente e veniva trasportato dai flutti. La gente accorreva ma nessuno l’aiutava. Ad un tratto un ragazzo si gettò nell’acqua e cercò di salvare il bambino. Ma le onde trascinarono con sé anche il salvatore. L’angelo prese il nobile cuore del ragazzo morto e lo portò in cielo. «Ecco il gioiello più prezioso del mondo!». Ma arrivò troppo tardi, l’anima del ragazzo vi era giunta prima ed essa vale più d’un cuore che si dissolve. Profondamente triste l’angelo s’incamminò nuovamente. Nell’assoluta solitudine del deserto trovò un eremita che piangeva i suoi vecchi peccati. Una delle lagrime cadde su una foglia e vi scintillò più bella di un diamante. Colse la foglia e la portò colla lagrima a Dio. E tosto lo lasciarono entrare e poté rimanervi, perché aveva portato il gioiello più prezioso che esiste nel mondo: la lagrima d’un uomo che piange i suoi peccati. (Tòth Tihamér)

10. L’uomo vive in una nebbia impenetrabile, vagola in una terra deserta, eternamente sconosciuta, mai pienamente scoperta, disperatamente inesplorabile; egli non conosce nulla e nessuno e tanto meno se stesso, sinché non conosce Cristo, come «Figlio del Dio vivente». Il detto di Goethe che il rispetto di sé è il primo dovere va molto a fondo nel vero segreto dell’umanità; non si può raggiungere alcuna grandezza se non si ha rispetto di sé. Goethe ha saputo quello che gli evangelisti della classe, della razza e del sangue dimenticano sempre: che la vera e naturale grandezza dell’uomo è individuale e non sociale. Se l’uomo è soltanto una formica, la sua opera, anche se viene prodotta dallo sforzo comune di

18 Rafael Merry del Val y Zulueta (1865-1930), cardinale, arcivescovo cattolico e diplomatico spagnolo. È stato Segretario di Stato dal 1903 al 1914. cento milioni di teste e di mani, rimane sempre quella di una formica, per quanto sia gigantesca. L’uomo deve avere rispetto di sé, se egli e la sua opera devono comparire dinanzi al tribunale dello spirito. (Pfleger)

11. La vera essenza di Dio viene conosciuta soltanto per mezzo del Cristo; altrimenti diventa un’idea assoluta, oppure la cieca volontà primigenia, o l’animo dell’universo, legata al corpo dell’universo, che si riversa demonicamente nell’esterno cerchio degli avvenimenti: qualcosa che per gli uomini tutt’al più può restare alla forma di mito, quando non avviene quello che Albrecht Schaeffer19 descrive così: «Ogni uomo conosce Dio; per quanto inchiodi rabbiosamente il coperchio della sua coscienza, per quanto in alcuni casi soltanto la disperazione e la paura della morte, o quel che sia, riesca a far saltare questo coperchio, mentre in altri nessuna forza vi riesce, Dio c’è» […]20. Cristo è così necessario a ogni pensiero veramente religioso, che, quando viene rinnegato, la religione decade in Ethos nazionale e l’idea della divinità in biologia. La potenza di Cristo è così insostituibile che, quando viene respinta coscientemente, tutti i più importanti campi dell’attività umana vanno a catafascio e tutte le riforme esteriori non riescono a riequilibrare i disturbati rapporti dell’esistenza. L’organismo reagisce col dolore e la malattia alle ferite, i veleni e la denutrizione. Il corpo mistico di Cristo che, secondo il profondo insegnamento di San Paolo, è rappresentato dalla Chiesa e deve essere l’intera umanità, fa sentire chiaramente attraverso un violento attacco generale di catastrofi, come la vita dell’uomo sia un mistero che ha per centro Cristo. (Pfleger C.)

12. Tutta la terra è Roma. Non levate il mio capo dal terreno insanguinato, non portate il mio corpo in Patria: Ché tutta la terra è terra romana. E io morrò in Roma. (Chesterton21, Wild Knight)

13. La morte per croce. L’inabissamento di Dio! Per ricongiungere l’umanità a sé, Dio si fece uomo; scese dal vertice della sua altezza infinita su una bassa landa, in una pozza aperta tra le costellazioni, da una grotta aperta tra magri pascoli.

19 Albrecht Schaeffer (1885 – 1950), poeta tedesco 20 Omissis operato da don Pietro. 21 Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936), scrittore, giornalista e aforista inglese. Si convertì al cattolicesimo. 15 Venuto, uomo tra uomini, volle l’umanità abbracciarla tutta, percorrerla tutta, verticalmente, scendendo allo strato più basso di essa, mediante l’ultimo, conclusivo atto della sua vita d’Uomo-Dio: la morte per croce. Si fece flagellare, si fece crocifiggere, come l’ultimo reietto, toccando la degradazione più vile, dove l’aspettava l’ultimo schiavo, sul piancito22 sassoso del più completo abbandono. Abbandonato da Dio e dagli uomini – tranne che dalla Madre! – sullo strato infimo dell’umanità versò il primo sangue, che poi, risalendo, via via investì tutti i gradi sociali. L’inabissamento non fu quindi che una penetrazione, per forza di amore, attraverso gli spazi celesti e la crosta umana, dal più alto al più basso; una caduta volontaria, che ripeté per amore il crollo degli angeli caduti per superbia; un inseguimento dell’uomo inabissatosi; e arrivò, attraverso la crosta terrestre, sino agl’ipogei dell’inferno, per rilevare alla dignità di cittadini del cielo i remiganti23 sotto le volte della terra e sopra la zolla glabra. La croce fu un’ancora a cui s’aggrapparono dai fondi più bui, a grappoli le anime, levandosi con essa sino ai troni dell’interminabile gloria. (I. Giordani24, Da “Fides”, 3. ’38)

14. Mater Dolorosa. I peccati nostri e le colpe degli altri e le ostilità della natura ci intridono l’anima di noia. Dentro l’involucro di tristezza, l’anima dopo aver reagito inutilmente per i continui crolli, si abbandona. Se in quel punto, contempla Te, Figlio dell’Uomo crocifisso, piano piano si riprende. I bracci della croce sono segmenti di linee che attingono, in altezza, l’Eternità, e traversano in larghezza l’umanità; e hanno in sé lo slancio delle due direzioni. L’anima contemplante è presa in quell’impulso d’ascensione e di dilatazione, e dalle incrostazioni, onde è impacciata e torta, si divincola via via; sino a che, in un ultimo strappo d’amore, si trova sciolta. È nel mondo, e non è più nel mondo: è col corpo nel carcere, ma collo spirito circola negl’infiniti spazi, non intralciati dalle piccole inferriate della terra, non recinti dalle grandi mura dell’idiozia. E Maria… Tanti epiteti di lode accumuliamo per dirne la bellezza, e più sappiamo che essa non si dice. Ed è una bellezza che si fa tutt’uno con la sua purezza. Dicono: è una creazione sublime dell’uomo. Ma no, ché per millenni prima di lei l’uomo era stato in contemplazioni idolatriche di deità femminili; ma per quanto si sforzasse d’alleggiadrirle, non aveva mai potuto elevarle sino alla propria grama e scarsa purezza, ché erano nate con troppe tare, maculate nella nascita, equivoche nell’apoteosi.

22 Pavimento. 23 Coloro che remano, o coloro che si muovono nell\'aria con movimento ritmico simile a quello dei remi. 24 Igino Giordani (1894-1980), scrittore, giornalista e politico italiano, direttore della Biblioteca Apostolica Vaticana e cofondatore del Movimento dei Focolari. Ci volle una bellezza e una purezza superiore all’ideale umano perché l’uomo salisse sino a contemplare Maria. Fu lei che lo tirò su; e in quella contemplazione sbocciarono le aspirazioni più belle dell’anima, che cercarono di fermarsi in espressioni d’arte, le più alte mai raggiunte. La maternità, la tenerezza muliebre, la rassegnazione e la pietà trovarono in Maria un modello e un alimento; e l’umanità ne nutrisce la sua passione più bella, nei momenti che più si solleva oltre la brutalità, per un impeto di divinizzazione. Orbene, proprio per quel che aveva di purezza e di misericordia, La trafissero di sette spade e quel suo Figlio, spietatamente lo crocefissero. Ma quelle sofferenze l’unirono, più che ogni altra creatura, alla Passione, e quindi all’opera della Redenzione: ciò che rende più grande il nostro debito di riscattati. (I. Giordani, Da “Fides”, 1938)

15. L’infinito, l’infinito! ecco il sogno del nostro cuore, ancor più che il bisogno della nostra intelligenza: l’infinito che noi cerchiamo nei nostri affetti, che ne forma, ahi! la fragilità e la chimera! Giacché, qual creatura può apportarci l’infinito? Invano Iddio ci ha dotati del dolce istinto di trovare perfetto l’oggetto del nostro amore, invano noi lo adorniamo di tutte le bellezze ideali vagheggiate nei nostri sogni; noi troppo domandiamo alla creatura, troppo le promettiamo: assai più di quello che essa e noi possiamo mantenere! Per questo quando il velo divino cade e la creatura si manifesta misera ed imperfetta dietro queste nubi d’incenso, noi rimaniamo spaventati dalla nostra illusione: gemiamo, soffriamo e qualche volta ci ribelliamo; sino al giorno nel quale, meglio edotti delle caducità delle cose della terra, illuminati e purificati, cerchiamo nell’amore infinito il supplemento dei nostri amori perituri, e l’aroma dove Dio ha voluto, per rispetto alla nostra grandezza, che i medesimi trovassero l’immortalità. (E. Bougaud)

16. Maria Maddalena ha trionfato delle fatalità della carne. L’amore non potendo essere nato che dall’amore, ella ha acceso il contro-fuoco. Alla stessa maniera che il giorno in cui la creatura era tutta la sua vita, il mondo intero si oscurava attorno a un unico essere, oggi sul Cristo si riversa questa follia. Ancora una volta il mondo scompare, ma intorno ad un uomo che è Dio. La purità e l’adorazione si riconciliano in quel cuore placato. Maria Maddalena entra nella stanza dove Gesù è a tavola e va diritta a lui senza guardare gli altri convitati. Non vi è più Gesù nel mondo, e lei che ama Gesù. (Mauriac25)

25 François Charles Mauriac (1885-1970), scrittore e giornalista francese. 17. Se c’è una cosa evidente è la realtà del mistero. Data la posizione che l’uomo occupa nella scala gerarchica degli esseri, egli non può aprire gli occhi senza scorgere un qualche mistero. Aprire gli occhi, mi servo a bella posta di questa espressione. Per non accorgersi affatto del mistero l’uomo ha bisogno di chiudere gli occhi e di chiuderli ermeticamente. Allora il mistero sparisce perché la luce è sparita. Poiché secondo me questi due termini – mistero, luce – che la ignoranza crede contraddittori sono invece agli occhi della scienza due termini correlativi. Più la luce cresce per l’uomo, più il mistero ingrandisce con essa. Ogni verità che appare, si nasconde nell’atto stesso in cui appare, poiché essa non appare totalmente e più l’uomo la vede, più egli vede che non la vede. Più s’avanza sulla strada, più la strada è lunga davanti a lui. Più l’orizzonte si stende davanti ai nostri occhi, più le cose che sono dietro a noi diventano lontane e più profonde, diventano importanti per noi e quando noi ci siamo profondamente immersi nell’abisso della luce, una delle ricompense che abbiamo è quella di poter chiudere gli occhi e d’ammirare di là delle grandezze viste le immensità che non si vedono. Tanto che la lingua umana, che sa ogni cosa, considera quasi come sinonime queste due parole: Mistero, Verità. (Hello)

18. Per Crucem ad Lucem. Negli ultimi istanti della Passione di Cristo, mentre egli colle mani ed i piedi trafitti, dopo aver sparso sul suolo umano a fecondarlo tutto il suo prezioso Sangue, viveva le sue ultime ore ed era penoso dell’umano patire ad un grado che noi non potremo mai intendere, il Vangelo ci dice che la terra si ricoprì di tenebre… Signore anche nella nostra vita e nell’anima nostra si hanno certe ore così avvolte tutte di tenebre; ore dolorose, nelle quali il velo gettato sul nostro cuore gli nasconde la stessa vista delle cose atte a calmare; ore nelle quali soffriamo senza che nulla quaggiù ci possa consolare. Beati quelli che in tali ore ed in mezzo alle tenebre esteriori possono almeno contemplare te, o solo Vivente, o Gesù! Beati coloro che possono stringere con le stanche braccia i piedi della croce, appoggiare la loro fronte appenata sulle tue mani trafitte e riposare il loro cuore spezzato dal dolore su quel Cuore che tanto soffrì e che sa compatire ed amare. Io credo che il patire sia stato concesso da Dio all’uomo in un grande pensiero di amore e di misericordia. Credo che Gesù Cristo abbia trasformato, santificato e divinizzato il patire. Credo che il patire sia per l’anima il grande artefice di redenzione e di santificazione. Credo che il patire sia fecondo quanto, e qualche volta più, che le nostre parole e che le nostre opere. Credo che le ore della passione di Cristo siano state per noi più potenti e più grandi presso il Padre che gli stessi anni della sua predicazione e della sua terrena attività. Credo che fra le anime, fra quelle di quaggiù, quelle che espiano nel Purgatorio e quelle che sono giunte alla vera vita, circoli una vasta e perenne corrente formata dai patimenti, dai meriti e dall’amore di queste anime, e che i nostri più infimi dolori, i nostri più leggeri sforzi possano arrivare coll’azione divina fino ad anime o care, o lontane, e recar loro la luce, la pace e la santità. Credo che nell’eternità ritroveremo le dilette persone che conobbero ed amarono la croce, e che i loro ed i nostri patimenti si confonderanno insieme nell’infinità dell’Amor divino e nella gioia della definitiva riunione. Credo che Dio sia amore e che il patire sia nelle sue mani il mezzo che adopera il suo amore per trasformarci e salvarci. Credo nella Comunione dei Santi, nella resurrezione della carne e nella vita eterna. (Elisabetta Leseur26)

19. Compendio delle disposizioni necessarie per fare bene la Santa Comunione. Il pane eucaristico ha sette proprietà che eziandìo27 il comunicando dovrebbe possedere accostandosi al banchetto eucaristico. Detto pane: I. È candido. Anche il comunicante deve essere candido, cioè senza macchia di peccato mortale, deve possedere quella purezza d’animo che si oppone alla lussuria. II. È tritico. Il tritico è la parte più dolce del frumento. Anche il comunicante sia dolce, cioè scevro dell’amarezza del fiele e del rancore; abbia quella pazienza che si oppone all’ira. III. È tenue28. Per significare che chi si accosta a ricevere il Corpo di Cristo deve essere macilente per l’astinenza. Sia mortificato dalla penitenza cristiana, la quale si oppone agli sregolati desideri della gola. IV. L’ostia è piccola. Così il comunicante deve essere umile e non superbo; deve possedere quel basso sentimento di sé opposto alla superbia. V. L’ostia è rotonda. La figura rotonda, come possiamo osservare nella ruota e nel globo, è più atta al moto che qualsiasi altra forma. Così il comunicante non deve essere accidioso, ma agile e veloce nel servizio di Dio; deve possedere quella fervorosa devozione che è contraria all’accidia. VI. L’ostia non deve essere fermentata. Anche il comunicante deve essere privo del fermentum malitiae29, di cui parla San Paolo. Deve cioè possedere quella santa generosità così opposta al vizio dell’avarizia.

26 Elisabetta Leseur (1866-1950), serva di Dio. 27 Anche. 28 Sottile, di limitato spessore. 29 Cfr 1Cor 5,8. VII. L’ostia non deve essere amara. Così chi la riceve sia senza l’amarezza dell’invidia; possegga quell’ardente carità che è contraria al vizio dell’invidia. Il comunicante che vuole degnamente cibarsi del Corpo del nostro adorabile Salvatore deve, in una parola, possedere tutte le prefate30 sette sante disposizioni e virtù che hanno il loro opposto nei sette vizi capitali. ([…]31 Sermo de Corpore Christi da un sermone del secolo XVIII)

20. Risoluzioni. Sono tuo, assolutamente tuo, o Gesù; per l’Ostia viva e la Croce, per il tuo Cuore Eucaristico. Noi siamo un sangue e un cuor solo. Io non sono che le cave esili vene che tu riempi di vita, di grazia, di Te. Ego mutor in Te32. Nel tuo bacio, Gesù, imprendo33 la vita verace. Oggi è una prima comunione: io vivo del Signore, ed Egli riempie tutte le cose mie. Non più le labbra ma le ore mi esprimono il santo grido: Voglio essere un santo. Inveni nec dimittam34! Ma quanta attesa, quale resistenza!… Oggi sono un avanzo di sconfitte, ma domani sarò un santo. Lo posso, lo voglio e nel tuo Cuore l’imprendo. Dunque un bel calcio, come diceva Don Bosco, un bel calcio a quello là: oggi ebbe aspetto d’accidia, talvolta d’impazienza, spesso di rabbia, di vergogna. Oh! sempre all’erta! O Gesù mio, contro il nemico sempre in guardia e su me stesso; in vigilia sempre di Te. Che non ti perda io mai, in Comunione continua con Te, che mai mi dilunghi, mi separi da Te. Orate! Opere, azioni, pensieri, tutto di mia vita iscruto, scelgo, compongo al tuo Fiat. (Guido Negri35)

21. Il Prete. All’età in cui i giovani, per la maggior parte, raccolgono le vele dai viaggi della fantasia e dell’eroismo e si riconducono a una casa, dove restringono gli affetti su una donna e uno, tre, dieci figli – società perfetta ma breve – una minoranza di giovani esce dalla solitudine di una comunità breve, staccata dal mondo, chiusa in un palazzo che pare un castello e apre la vela alla conquista dell’infinito; l’infinito della cattolicità. Son questi i giovani preti. L’uomo che si sposa è raggiante, perché trova la casa. L’uomo che è ordinato prete è raggiante, perché lascia la casa, e gli diviene casa il

30 Nominate in precedenza, di cui si è parlato poco prima. 31 Autore non comprensibile. 32 Sono trasformato in Te. 33 Intraprendere, dare inizio ad una cosa nuova; apprendere, comprendere. 34 “L’ho trovato e non lo lascerò” (Cfr Ct 3,4). 35 Guido Negri (1888-1916) combattè durante la prima guerra mondiale; era soprannominato “il Capitano santo”. mondo; suo padre, sua madre, i fratelli non sono più soltanto o non sono tanto quelli con cui ha comune il sangue, ma quelli con cui ha meno comune la condizione dell’anima e dell’intelletto: diseredati, ignoti, selvaggi mai visti, miseri che nessuno mai scorge. Si scioglie dalla famiglia particolare per divenire il ministro della famiglia totale. Ma è raggiante più interiormente che esternamente. La sua festa si celebra tutta nello spirito. Quando esce dalle mani del vescovo ordinante come plasmato in creatura nuova, egli ci appare pallido, quasi sfinito: esce da un lavacro di esercizi spirituali, in cui lo stesso corpo, si direbbe, si è spiritualizzato, e da un rito che ha teso dagli angoli più remoti le fibre tutte della sua anima, come arpa apparecchiata per il canto del salmista. La coscienza del grande atto compiuto lo soverchia, e sta sull’altare come se si fosse immolato, con Cristo, anche lui, sua copia; e dando le mani a baciare, appare consapevole vittima offertasi per amore. Da quel momento non si appartiene più. È ministro, cioè servitore della comunità innumerabile della Chiesa. Quella consacrazione lo distacca dal resto degli uomini; ma lo distacca, perché egli sia sempre ben visibile, come fiaccola sopra il moggio, e chiunque ne abbia bisogno faccia presto a vederlo, e a chiamarlo. E lo chiama solo chi ha bisogno. A differenza degli altri, egli sta tra gli uomini, come l’immolato, che appartiene a tutti: uno schiavo pubblico, a uso della comunità. Per questo gli è stata conferita una dignità tremenda che lo mette sopra agli angeli in cielo e sopra l’imperatore – come dicevano i Padri dell’antichità e i dottori del Medio Evo – nel mondo. Incarna il paradosso sociale del cristianesimo, nel quale il più umile è il più alto e chi più comanda più serve. Come il primo prete, Gesù, immolato per tutti: ché nel sacerdote si onora Cristo – disse per tutti Raterio, vescovo di Verona36 nel fosco secolo decimo. Non si può rimirare questo fratello che si separa nel fiore degli anni da noi, per darsi a noi, senza provare un’angosciosa ammirazione e una tenerezza che dà le lagrime, per la sua audacia, la serena eroicità, con cui a quell’ora affronta il calvario sotto il peso d’una responsabilità, per la quale ogni momento pare dover cadere faccia alle pietre schiacciato. Egli sta in mezzo a noi, ma da noi non ha aiuto, o ne ha scarsi e radi; noi gli chiediamo un gesto rituale alla nascita, alla morte, e sapendoci in diritto d’averlo ci esimiamo dal mostrargliene la gratitudine dovuta; ed egli quando ciascuno di noi se n’è tornato alla sua casa, per smaltire tra i suoi la pena o la gioia, ha da restare al suo posto a sorridere agli uni, a piangere con gli altri, a benedire tutti, a perdonare sempre, cioè a ridonare in energie di vita le lagrime che deve inghiottire, le ingiurie patenti37 o nascoste che deve ricevere, le rinunzie quotidiane, a cui deve sottostare. La sua anima si

36 Raterio (890 - 974 circa), nobile liegese, divenne vescovo di Verona. Fu una delle più significative figure del secolo X. 37 Manifeste. mette nel centro, come un prodigioso filtro che prende grumi di morte e dà tesori di vita, che sottrae tossine d’odio e propaga correnti d’amore. Messo a confortar tutte le solitudini, per sé è solo come Cristo nell’orto. Mandato in una parrocchia periferica o di campagna, o in missione, trova che attorno, spesso, fin dove arrivano i suoi piedi o le sue competenze, non son che indifferenti o anticlericali o pagani; e forse i ragazzi, vedendolo passare, gli tirano sassi e ingiurie, e le donne ghignano e gli uomini lo designano con gesti di minaccia, odiandolo per quanto più è puro. Lo serra spesso una popolazione impaganita che pensa al pane e al companatico, alla terra e al sesso, e rissa per interesse e beve per far politica, e si tortura per le malattie e le vanità, ma a Dio non pensa. A pensare a Dio, per sé e per gli altri, non c’è che lui. (…). Il laicato ha la sua grave, diuturna fatica da compiere: trovare il pane ai figli e altre operazioni nobilissime. Il prete attende che tutta quell’attività non s’assorba tutta nell’economia o nella politica; apre, ogni giorno, lembi di cielo per mostrare ciò che sovrasta; spalanca orizzonti e toglie via barriere. Coltiva nell’economia l’eroismo dell’ascesi, aggiunge alla città dell’uomo la città di Dio. Gli altri scrivono volumi di poesia o inventano macchine o innalzano case; il prete integra le loro operazioni, scrive volumi di teologia, inventa nuove risorse per l’amore violentato e innalza chiese: e le mette di traverso, come dighe, alla furia della materialità. Così strappa di continuo l’uomo comune alla piccola ossessione del solo pane, o del solo godimento o del solo partito; gli alimenta, vicino, assiduamente, una vena di poesia; gli riaccende la speranza quando ogni luce da terra si spegne; gli restituisce energie sovrannaturali quando quelle naturali, troncate, stramazzano. E allora, nella nostra giornata uniforme nel corso delle nostre anguste illusioni o delusioni, si riaccende, per una parola o un gesto di lui, una visione nuova: ci si trova di fronte a un’altra svolta, e si riprova. Vestale d’un tempio che sconfina oltre la volta celeste, mantiene acceso, fra la distrazione e l’oblio, il fuoco dell’anima per una comunità, cui non recingono mura. E ognuno va da lui, quando più fa freddo, e d’ogni intorno tutte le porte gli son chiuse in faccia, perché sa che, comunque volti il mondo, qualunque sia la sua indegnità, una fiamma c’è pure per lui; e data per carità; data anzi quasi con gratitudine; ché nella casa del sacerdote, il dare è come il ricevere nelle dimore degli uomini: atteso, gradito e ricercato; e ognuno poi con quella lingua di fuoco può tornarsene alla propria casa e dare nuovo alimento al proprio focolare deserto. Noi siamo presi dai nostri affari sì che quasi tutti, travolti, finiremmo col dimenticarci della fratellanza verso gli uomini in terra; e bisogna essere destituiti d’immaginativa e d’ogni responsabilità per non vedere che cosa capiterebbe se quella dimenticanza divina e umana ci prendesse totalmente, una volta che, pur con l’azione d’una Chiesa viva, succedono quei grandi orrori che odio e stupidità scatenano a intervalli. Ma per nostra salute, c’è chi s’incarica di continuamente richiamarci all’Assoluto, ghermendoci al vortice delle cose piccole, delle cose tristi, delle cose mortifere; ci richiama alla vita, e ricostituisce, in mezzo al sistema terreno, i capisaldi d’un sistema eterno. (Igino Giordani, Da “Cattolicità”)

22. Il Dolore. Più procedo nella vita, e maggiormente soffro e sempre più vedo che ogni anima soffre, e maggiormente sento che, per non so qual mistero, è un bene per lei soffrire. Il dolore ha salvato il mondo pagano; il dolore è stato come un cristianesimo interno per i gentili, una preparazione evangelica e sempre il dolore, anche al presente, salva gli uomini del mondo; il dolore impedisce loro di accecarsi interamente, di abbruttirsi negli affari; il dolore ammollisce e intenerisce i loro cuori; il dolore mantiene gli uomini dolci e buoni; il dolore apostolo segreto predica loro quando più nessuno osa farlo! E proprio per questo, all’ora della morte, ci meravigliamo della facilità con la quale ritornano a Dio. «O uomo tu non sei che un sogno rapido e doloroso, tu non esisti che per la sventura; tu non sei qualche cosa se non per la tristezza dell’anima tua e per l’eterna melanconia del tuo pensiero» (Chateaubriand). Sì, è questa eterna melanconia che rende eterna la Religione. Distruggete la prima se volete distruggere la seconda. Voi non impedirete mai che gli occhi pregni di lacrime si rivolgano al Cielo. Vorrei dunque meditare sul dolore. Perché il dolore? Ecco il primo grido dell’anima. L’uomo colpito da malattia, accasciato per la morte di un padre, di una madre, di un figlio, non ha che un grido: Perché?… e cade nel silenzio… il suo sguardo diventa immobile… fisso!… Si direbbe che tenta di vedere nell’abisso dove si è seppellita la sua felicità… Poi, di tratto in tratto, solleva il capo, e, in atto supplichevole, guarda agli amici e ripete la medesima parola, giacché il dolore ne ha una sola: «Perché? perché? Oh! ditemi, perché?». Ahi! perché? Chi lo sa? Niuno lo sa dire, né la scienza, né la filosofia; l’amicizia stessa e il cuore tacciono impotenti! Gli amici di Giobbe, quando lo videro oppresso da sì immani dolori, restarono muti sette giorni, non osando aprir bocca, né sapendo in qual modo consolarlo. E alla caduta di Troia, Virgilio dipinge le donne, assise sul lido del mare, tristi, silenziose, con gli occhi in lacrime, con un lungo sguardo fisso sui flutti. Ecco l’uomo sotto i colpi del dolore. Perché il dolore sotto un Dio buono? domandavo un giorno ad un vecchio; né dimenticherò mai l’accento col quale mi rispose: «Figlio, precisamente perché Dio è buono!». Fui tentato di ribellarmi; oggi più non mi ribello e dico: Può essere. Altrimenti, sareste crudele, o mio Dio!… Voi avete creato l’uomo; è vostro figlio; Voi l’amate, e per qual’altro fine l’avreste creato? Poi, Voi siete grande, immenso, infinito… l’uomo è debole, non è che un soffio; e Voi vi compiacereste di stritolarlo?! Io non recherei il più piccolo male a un fanciullo; son troppo forte; e arrossirei di abusare, così della mia forza. Qual bestemmia, adunque, immaginare che Voi abusiate della Vostra, mio Dio, percotendoci senza scopo, senza ragione, e abbandonandoci freddamente in balia di leggi fatali che ne lacerano! O mio Dio, avete mai creato un anima per altro fine che per la felicità? E se la Vostra mano la tocca dolorosamente, non è da confessare che Voi così operate solo perché siete mosso da bontà? per quale disegno misterioso che un giorno comprenderemo? Sento uomini del mondo che levano clamori a questa parola. Affermare che i dolori e le afflizioni di questo mondo provengono dalla bontà di Dio, loro sembra un insopportabile paradosso. Tuttavia riflettiamo ponderatamente: «Non può forse uno volontariamente, a caso pensato e con proposito deliberato, far soffrire una persona teneramente amata? Anzi in certe occasioni, non può uno tanto maggiormente farla soffrire quanto più l’ama?». Tutta la questione è qui. Ecco un fanciullo che si trastulla sul ciglio di un abisso; vuol cogliere un fiore, inseguire una variopinta farfalla! Si inchina, trabocca nel fondo! […]38 a un tratto, due violenti braccia lo traggono; tanto più violenti quanto più teneri. Egli grida…; soffre! Donde procede questa sofferenza? Certamente dal cuore e dall’amore della madre. Guardate a quest’altro fanciulletto. Egli si balocca con un coltello; e si ferisce. Arriva il padre, lo sgrida, gli strappa il ferro, e qualche volta con violenza, e anzi lo punisce, perché non ripeta il fatto doloroso. Il fanciulletto grida, e sottovoce accusa il padre…; ma a torto e lo vedrà più tardi. Altro esempio. Ecco un fanciulletto ammalato. La mamma lo prende fra le sue braccia, ed ella medesima lo sottopone al coltello del chirurgo. Il fanciullo grida…; respinge da sé il medico; e sarebbe tentato di percuotere la propria madre. Si dirà perciò che la madre è crudele? Sì, potrà dirlo il fanciullo, nell’accesso del dolore; ma io che guardo da più in alto, io compassiono, chi? il fanciullo? sì, ma più la madre; so che chi soffre maggiormente qui è il cuore della mamma. Ciò che è così bello sopra la terra, così fulgido, quando si considera nelle viscere della paternità, trasportatelo in Dio e comincerete a capire. Oh! senza dubbio, se voi non credete in Dio, se ignorate che noi siamo formati per Lui e in via per raggiungerlo, se riguardate questo vasto mondo come un campo chiuso dove sono il lotta forze fatali, certamente il dolore non ha senso. Ma uscite da cotesto oscuro antro!!!... Respirate quest’aura balsamica e vitale, nella gran luce vivissima della Religione e della ragione. Credete in Dio; in un Dio saggio, potente e buono; in un Dio che ha creato gli uomini per Sé, e li ha collocati per un minuto, nel tempo, affinché si rendano degni dell’eternità, affinché la loro intelligenza, il loro cuore, la loro personalità, il loro amore siano cose loro proprie, siano come l’opera delle sue mani; in un Dio, il quale, mentre gli uomini si adoperano intorno a questa grande opera, li vigila, li aiuta, rimove da essi i pericoli, li eccita e li solleva, perché attraversino la terra senza fermarvisi, il mondo senza serrarvisi e collocarvi affetto, avvilirsi, corrompersi; credete ciò, e voi comincerete a presentire, in una luce divina che già sarà un principio di consolazione, donde procede il dolore e perché Dio lo permette. È Dio che ha creato questo mondo e avvertitamente lo ha creato troppo ristretto per noi, talmente che non possiamo fare movimento di sorta

38 Omissis operato da don Pietro. senza soffrire, senza trovare, ogni istante, limiti e confini, nei quali diamo del capo, con dolore. Dico che lo ha creato così a bella posta, affinché questi limiti ci spingano ad aspirare a qualcosa di meglio: ma io veramente ignoro se Dio avrebbe potuto crearlo altrimenti. Quando, un giorno noi saremo nell’infinito, noi vi ci spazieremo a nostro grandissimo agio; noi non ci abbatteremo mai né in limiti né in confini, né in stecconate, né in termini. Oh! saremo felici! Ma in qualunque modo Dio ordinasse questo povero mondo, esso era necessariamente troppo stretto per noi. Un’anima non poteva cadervi senza soffrire, non poteva adagiarsi su questo letto di Procuste39 senza trovarlo troppo corto, non poteva spiegare al volo le sue ali senza trovare ostacoli, né muoversi senza ferirsi. Ecco la terra quale è fatta per nostra prova, affinché sempre impacciati, aspirassimo a maggiori spazi e vagheggiassimo gli orizzonti infiniti. Supponete ora una creatura, che invece di spiegar le ali, le ripieghi, che invece di elevarsi volontariamente negli spazi, si metta a terra, che non trovi questo letto di Procuste troppo stretto, anzi al contrario vi si adatti e vi si trovi come a suo bell’agio, supponete una grande aquila della montagna, che invece di gemere nella stretta gabbia dove è chiusa, ne ammiri le sbarre perché sono d’oro o d’argento, colorate in azzurro o in verde, finalmente immaginate un essere immortale, che più non spieghi le sue forze infinite, che si chiuda nella terra, vi si trovi bene, vi si barrichi, vi si trinceri, vi si degradi, e sia sul punto di disonorarsi e di perdersi; perché Dio non interverrebbe? Questi limiti e impacci si dimenticano! perché Dio non agirebbe sopra di essi in modo da renderli sensibili? perché non li renderebbe dolorosi, per forzar l’uomo a levare il capo? perché non strapperebbe il coltello dalle mani di questo fanciullo? poiché imprudentemente si trastulla sul ciglio di un abisso, perché Dio nol torrebbe, con mano paterna, da quel precipizio dove sta per traboccare? perché finalmente se è ammalato, Dio che è padre e madre, non lo sottoporrebbe al coltello del chirurgo? E se così Dio adoperasse, perché l’uomo intormentito e stordito da prima, immerso nel pianto e accecato dalle proprie lacrime, non gli direbbe, dopo: Padre, voi avete ben operato? Ecco il significato del dolore, il principio essenziale, fondamentale del suo trattamento divino. Ai «perché» dell’anima che soffre, la Religione non ha che una risposta da dare, ma tenera e consolante: Uomo, tu sei fatto per Dio. Se dunque, tu avessi avuto tanto coraggio da attraversare questo triste mondo senza arrestarti, e uno slancio di cuore tanto vivo e un movimento d’amore tanto grande da elevarti sino a Dio attraverso il velo delle creature, il dolore mai non sarebbe esistito. Il dolore è stato creato che per supplire alle debolezze del tuo amore!... Infatti, da principio, sotto gli alberi dell’Eden non vi era che l’amore; e l’amore bastava. Ciò che al presente opera il dolore, allora lo operava, e assai meglio, l’amore. Il dolore illumina, il dolore purifica, il dolore distacca

39 Soprannome di un leggendario brigante greco che attendeva i viandanti sulla strada da Atene a Megara. Dopo averli catturati li stendeva su una specie di letto al quale la loro statura doveva adattarsi perfettamente, e se questo non avveniva, provvedeva ad amputarli o a stirarli, secondo i casi. dalle cose che passano, il dolore eleva il cuore. Ma tutto ciò lo opera anche l’amore, e più presto e in più grandi proporzioni. Se, dunque, l’amore non fosse venuto meno sotto le ombre del paradiso; se invece di questa poca scintilla che ci resta avessimo conservato la fiamma viva dell’amore primitivo, il dolore non sarebbe mai esistito. Il dolore è come un’ala divina che ci è stata aggiunta nel momento nel quale sprofondiamo nella materia. Dio, nella sua bontà, ce l’ha accordata, perché ci fosse a guisa di ausiliario. Ecco ciò che si deve ammettere: «O questo o la disperazione!… O questo o l’odiosa fatalità che ci stritola!». Sì, nei nostri dolori bisogna assolutamente scegliere: o la fredda mano della fatalità che ci trova sotto la ruota e ne schiaccia senza pietà, o la mano tenera e paterna di Dio che ne tocca con rispetto o compassione e solo per renderci migliori. Dio buono o Dio tiranno. Non c’è via di mezzo. […]40. Si domanda: Perché il dolore? Eccolo: la terra si vela per lasciar risplendere il cielo! Sì, qui sta il grave e sublime insegnamento della Religione, ecco la prima ragione del dolore. Creati per Dio, pure noi ci sprofondiamo nelle cose del tempo; ci costruiamo un nido sopra la terra, lungi dalle brine e dal rovaio, dove brameremmo addormentarci nella felicità, dove sogniamo di non invecchiar mai, dove il coronamento e la perfezione dell’opera consisterebbe in non morir mai!… Ora proprio su questo piccolo nido, dove noi poniamo nel dimenticatoio l’eternità, Dio, di tanto in tanto, agita il dolore come una face41. Ma su questa misera terra, v’è un altro pericolo oltre chiudersi nel tempo e soffermarsi e trincerarsi nelle cose visibili; si corre pericolo – cadendo nell’avvilimento e degradandosi – di corrompersi, e di perdere al contatto del male, la bellezza dell’anima propria. Ora essendo Dio quello che è, cioè Giustizia infinita, il male anche più lieve, non potrebbe toccare un’anima senza trarsi immediatamente una punizione! La pena, diceva il vecchio Omero, sempre tien dietro al delitto, con passo lento ma sicuro. Voi oggi compite un atto colpevole; ponete così in Dio una ragione per punirvi. Voi commettete dieci atti colpevoli: gli fornite dieci ragioni di castigo. Che avverrà, dunque, se ne commettete cento, mille? se componeste della vostra vita una trama dove mille azioni colpevoli di ogni sorta si concatenassero talmente da formare una tela quasi infinita? Qualche volta, quando un vascello solca il mare, una falla, appena percettibile, si apre nella carena; l’acqua dapprima vi penetra lentamente, a goccia a goccia; supponete che non vi si provveda a tempo: tra pochi giorni il vascello sarà in fondo l’oceano. Grande e triste immagine del pericolo che corrono le anime! Esse sprofonderebbero quasi tutte lentamente, infallibilmente, negli abissi della Giustizia infinita, se non vi fosse, in qualche modo, una potenza espiatrice, una virtù purificatrice che serva di contrappeso alla moltitudine delle loro colpe. E, per questo, sempre si è creduto che di tutti i castighi per un’anima peccatrice e impenitente è di ignorare il dolore, di essere abbandonati a

40 Omissis operato da don Pietro. 41 Fiaccola. una felicità senza nubi. Vi son felicità che spaventano! non si possono guardare che tremando. Voi presentite da ciò il secondo uffizio del dolore, la sua seconda e sublime missione. Quando l’uomo ha fallito ha mancato, quando al contatto col male, ha perduto la purezza dell’anima e il gusto del bene, con lo slancio generoso che lo solleva da terra, Dio lo affida al dolore. Il dolore è stato collocato accanto al male per strappar la colpa dal cuore dell’uomo, per mezzo dell’espiazione. Il dolore prende l’uomo colpevole e lo tempera nelle sue fiamme, affine di purificarlo, come al contatto col fuoco si vede l’oro rigettar la scoria dalla sua sostanza incandescente. […]42. Io ascolto il poeta che dice: Dolor, tu formi l’uomo! E un altro poeta suo fratello di genio, che soggiunge: Nulla ci fa grandi, come un grande dolore (Alfred De Musset). E io vedo una terza e più alta ragione del dolore. Non è solamente una luce in mezzo alle oscurità e alle illusioni della vita, un rimedio di fronte alle corruzioni: ma vivifica e ingrandisce le anime; vorrei quasi affermare: «Le crea di nuovo»; almeno, almeno, le adorna di una bellezza e grandezza sì commovente, che la virtù medesima non sarebbe riuscita ad accordar loro. È solenne verità che, su questa misera terra, non vi fu mai opera grande né grande anima, senza il dolore. Per essere grande, né il genio né la gloria né la virtù furono mai sufficienti; fu sempre necessario il dolore. Invano un uomo ha raccolto, sul suo capo, tutte le corone; l’umanità lo ha guardato; ma, prima di salutarlo grande, aspetta, che casa? Che ci riceva come il battesimo del dolore. La virtù stessa, la virtù felice e fortunata, non è la cosa più grande che la terra possa contemplare. Sempre è necessario un non so che d’incomparabile e di perfetto che la sola sventura comunica alla virtù. Il dolore è come quel cerchio di carboni ardenti che i fanciulli indiani pongono attorno ad un insetto che essi credono pericoloso; l’animale tenta oltrepassarlo, ma indietreggiando davanti al dolore si ripiega su se stesso e muore. A tanto si rassegnano soltanto le anime volgari; le grandi anime si slanciano fuori dal cerchio passando attraverso il fuoco. […]43. È necessario il dolore. In coloro che non hanno sofferto, si direbbe che la vita ha sfiorato solo la superficie dell’anima; i loro sentimenti mancano d’intensità, il loro cuore di tenerezza, la loro intelligenza di orizzonte; tutto è superficiale in essi, lo spirito è volgare, e la bontà triviale. In breve: sotto ogni rispetto, solo il dolore entra abbastanza profondamente nell’anima per ingrandirla. Vi sono parti in noi molto elevate dove sonnecchia la vita, profondità molto riposte dove si nascondono tesori, e che l’energia dell’anima mal saprebbe raggiungere o scavare. È necessario il colpo di fulmine del dolore; e oserei dire che vi sono insenature del cuore che esistono appena allo stato di germi latenti e dove bisogna che penetri il dolore perché si manifestino. Vi è la statua nascosta nel marmo; è necessario farnela uscire. Lo smeraldo è sepolto nel fondo di quel masso di quarzo; non domanda che scintillare.

42 Omissis operato da don Pietro. 43 Omissis operato da don Pietro. Ma è necessario rimuovere quell’involucro di pietra, e per ciò dar mano allo scalpello e al martello per sgrossare. L’uomo tenta; ma poiché quasi mai sente il coraggio di colpire abbastanza forte, Dio per aiutarlo in quest’opera, gli manda il dolore. Per questo tutti i Santi, gli eroi, i geni, tutte le grandi anime sono stati i figli privilegiati del dolore. La corona d’alloro non si è mai riposata che su fronti solcate dal dolore. Ricordate Omero, Milton, Tasso, Dante e Camoens; vivranno eternamente per cagione della grandezza del sentimento ma questa grandezza di sentimento, questa profondità di emozioni essi le avrebbero per sempre ignorate senza il dolore. Cercate pure: e vedrete che l’uomo non è veramente sublime se non di fronte al dolore e alla morte. Ed ecco perché non vi è nulla di più sublime dei santi. Non una sola volta per caso o sopra un campo di battaglia il colpo di fulmine del dolore li elettrizza e li solleva al di sopra di se medesimi; no, ma, di loro spontanea volontà e con la grazia di Dio vivono nel dolore e lo fanno agire liberamente in se stessi. Il dolore li strappa incessantemente a tutti i limiti e del mondo e di se medesimi. E questa vita di sacrificio, di cui vanno in cerca con uno sforzo supremo, fin nelle profondità dell’anima, esala incessantemente in essi come un olocausto. È lo spettacolo più grande che la terra possa offrire al Cielo. «Voi ignorate, scriveva San Francesco di Sales, qual cosa gli angeli ci invidiano; certo nessun’altra tranne questa, cioè che noi possiamo soffrire per Dio, mentre essi nulla hanno mai sofferto per Lui». E non solamente gli angeli ambiscono questa grandezza, questa commovente beltà; ma in seno alla gloria, Dio medesimo è rapito in ammirazione davanti a ciò che l’uomo opera nel dolore; e gli ha invidiata la facoltà sublime di obliarsi, soffrire e morire per coloro che ama. E sembra che, se Dio non avesse trovato il modo di morire per l’uomo il quale soffriva e moriva per Dio, l’uomo avrebbe avuto un genere di bellezza e di grandezza di cui Dio sarebbe stato privo. Ecco perché un giorno i cieli si dischiusero e il Figlio di Dio salì sulla croce in un dolore infinito, affinché, quali che fossero i sacrifici degli uomini per Dio, essi contemplassero sempre il loro Dio nella gloria di una immolazione molto superiore alla sua. Dunque il dolore non colpisce solamente coloro che dimenticano Dio in questo povero mondo, né coloro che vi si corrompono, anco i giusti soffrono del pari e i buoni sono provati; questi soffrono per diventar ognor più giusti, quelli sono sottoposti alle prove per essere fatti migliori. Alla luce del dolore noi cominceremo a capire la vita. Quando dunque, si conoscerà egli che l’uomo è lo scultore di se medesimo? che Dio lo ha posto sulla terra allo stato di germe, precisamente perché spettasse a lui di crearsi? che da questo freddo marmo, informe, senza individualità, senza personalità, senza bellezza, Dio l’ha incaricato di trarne una statua vivente? Ma soprattutto, quando si conoscerà che, in siffatta opera, Dio gli ha accordato, per aiuto, il dolore? O uomo, tu non eri né bello, né grande, né santo; ma ora lo sei. Perché? Perché hai sofferto. Evvi44 bisogno di tempo, di prove, di dolore ben sopportati e con grande dolcezza per adornare il cuore di grazie, per fornire all’anima l’elevazione, la bellezza morale. Certe corde, le più belle, non vibrano nell’uomo se non quando sono temprate nelle lacrime. Ed ecco perché il dolore e sì sovrabbondante. Il fiotto che incalza non aspetta che il precedente sia passato. Dolori dello spirito, dolori del cuore! malattie e sofferenze d’ogni sorta! l’inesauribile amarezza scorre senza fine e inviluppa la vita. Se ne fanno le meraviglie e si chiede: Perché? Sì: perché la felicità si dilegua sempre? e perché il dolore non ha mai termine quaggiù? Perché? Per ridurci a perfezione, per renderci lisci con l’attrito, per cesellarci col lento e delicato lavorio del bulino. Agli uni i grandi colpi di folgore del dolore son simili ai forti colpi di martello coi quali Michelangelo percoteva il masso di marmo da cui doveva uscire la statua di Mosè; per gli altri son come il contatto continuo, minuzioso, penetrante, delicato del tornio che dà al diamante la bellezza, lo splendore, il fuoco. Ma negl’uni come negli altri, in tutte le anime, la stessa opera intelligente del dolore, che le aiuta a diventare e ad essere belle. Noi non intendiamo appieno l’opera intelligente del dolore. Altrimenti adoreremmo la mano invisibile e tenera che dirige il bulino. Quando uno non ama illudersi e considera la propria anima, è sempre maravigliato che il dolore abbia colto proprio nel segno e con tanta precisione. La vita è un crogiuolo dove si purificano le anime per il Cielo; e in questo crogiuolo vi è sempre la fiamma, indicata per ciascuno. O voi che intendete queste cose e aspirate all’elevazione e alla santità, lasciate operare il dolore. Colui che lo dirige conosce assai meglio di voi in qual parte applicare il bulino. […]45. Quando il rogo su cui morì Giovanna d’Arco ebbe lasciato cadere le fiamme, tutto era scomparso della nobile vittima, tutto era stato consunto, eccetto il cuore. Orbene la vita è un fuoco. Al termine di essa, non resta che il cuore, purificato, ingrandito, abbellito, trasfigurato dal dolore; degno del Cielo per il quale è stato fatto e dove oramai può salire! Ecco la nobile meta a cui mira il dolore. E voi vedete dì leggieri che, alla fin fine, il dolore non è che il supplente dell’amore. Ciò che il dolore opera, spettava all’amore di compierlo. L’amore illumina, l’amore purifica e abbellisce, l’amore rende santi e sublimi; e, se il dolore, al presente, compie siffatte opere, si è perché l’amore non è più tanto efficace da adempierle da sé solo. Ma oh! quanto l’amore è potente col dolore! E alla sua volta, il dolore è un debole artefice allorché non si associa l’amore! Il vero incastonatore e gioielliere del dolore è l’amore. Soltanto l’amore ne conosce le forze e può applicarle. Un po’ d’amore e un gran dolore è già molto; disponetevi a vederne meraviglie. Ma quando l’amore è forte quanto il dolore, oh, come l’uomo prestamente s’ingrandisce! Egli matura in un’ora: la sua anima diventa

44 Vi è. 45 Omissis operato da don Pietro. celeste; Dio si inchina per guardarla, e l’angelo delle sante speranze scende per raccoglierla. […]46. Sappiate che Dio non è solamente buono, saggio, misericordioso; sappiate che ci ama, e nutre per noi, più che bontà, amore; che questo amore, infinito come Lui, si distingue per due tratti, la passione e la gelosia; di guisa che, a confronto di questo amore, quelli della terra non sono che ombre, aride foglie che cadono dall’albero, senza vita e senza succo. E come mai potrebbe essere altrimenti? È forse un cuor morto il cuore di Dio?! un cuore che non sappia amare?! Dio è padre, Dio è madre. Ora, figuratevi un padre che fosse onnipotente, una madre il cui potere uguagliasse il cuore. Avete voi pesato e ponderato queste due parole: un Amore infinito? Ah! l’amore finito è di già sublime; omnia potest: tutto può – dice l’autore dell’Imitazione; e che sarà, dunque, dell’Amore infinito? Dio ama le anime; è quindi geloso di loro bellezza; le ha poste, per un minuto, nel tempo, affinché acquistino una grandezza di più, un non so che di perfetto, che solo la libertà può aggiungere alle opere di Dio. Con quale tenerezza, Dio vigila su la loro vita, sorregge le loro mani durante questa breve ma laboriosa opera! Gioie e dolori, amore e sofferenze, oh! come delicatamente Dio regola tutto ciò (e sol per renderle belle), a guisa di un grande artista che alterna, con mano sapiente, la luce e le ombre, per affascinare lo sguardo e appagare il gusto. Dice Lacordaire: «Quando Dio ci pesta sotto le sue verghe, non lo fa forse se non acciocché noi non cerchiamo altra testa se non la testa sanguinosa del nostro Salvatore; altri occhi che gli occhi suoi; altre labbra che le sue labbra; altre spalle su cui riposarci che le sue spalle solcate dalle percosse; altre mani e altri piedi da baciare che le sue mani e i suoi piedi trapassati da chiodi per nostro amore; altre piaghe da medicare che le sue piaghe divine e che sempre tramandano sangue». Sì, tutto è diretto a questo intento, e i sogni che svaniscono e i colpi di fulmine che atterrano. Tutto è ordinato da un amore geloso che vuol essere amato ad ogni costo. In ciò è riposto il gran significato del dolore, il significato sublime della morte. […]47. Cosa singolare! tutte le religioni hanno fatto adorare la felicità, il solo Cristianesimo ha fatto adorare il dolore. Gli Dei del Paganesimo si presentavano all’uomo, incoronati di fiori, circondati d’amori e di piaceri. «Il vero Dio miratelo eccolo qui: Egli è appeso a un patibolo». […]48. Egli ha detto: «Nessuno può offrire una più grande prova d’amore, che di morire per coloro che ama»49. Diciamo e facciamo anche noi questo. Circondiamo le nostre sofferenze, le nostre malattie, la nostra morte, con la gloria che siano un atto libero, con la gloria più grande ancora cioè che siano anche un atto d’amore. La nostra vita sia utile ai figli, ai genitori, agli amici, al paese, all’umanità, a Dio! che l’apertura o la ferita per la quale la nostra vita se ne andrà e scorrerà a stilla a stilla sia operata dall’amore! Egli disse pure: «Io muoio

46 Idem. 47 Idem. 48 Idem. 49 Cfr Gv 15,13. per espiare i peccati dell’umanità». Operiamo come Lui; portiamovi anche il nostro. Impariamo ai piedi della Croce, che, al disopra di tutte le glorie di cui abbiamo parlato, al di sopra di morire vittima immolata dall’amore, v’è la gloria di morire come redentore, di soffrire come Cristo, mettendo il proprio sangue sulla bilancia, sulla quale si libano i destini dell’umanità. […]50. O Cristo consolatore! A questo segno ti riconosco, che tutte le lacrime si asciugano sopra i Tuoi piedi, e tutti i dolori si calmano e si attutiscono sotto i tuoi baci. O mio Dio! mio Dio! che vi siano uomini i quali amano la sofferenza, che vi siano povere creature umane, coronate di spine, contuse, rotte nelle loro membra, e maggiormente nel loro cuore, le quali sovrabbondano di gioia in mezzo alle loro pene; è questa la prova più grande della Tua reale presenza in mezzo di noi. Mons. Emilio Bougaud51 Vescovo di Laval

50 Omissis operato da don Pietro. 51 Cfr LOUIS-ÉMILE BOUGAUD, Il Cristianesimo e i tempi presenti, Del divino trattamento del dolore. QUADERNO 3 – Semper excelsior! (1938) – SOMMARIO52 1. Spigolatura 2 2. Via alla Croce 3 3. Spigolatura 10 4. Spigolatura 10 5. Spigolatura 11 6. Spigolatura 11 7. Spigolatura 13 8. Litanie dell’umiltà 13 9. Spigolatura 14 10. Spigolatura 14 11. Spigolatura 15 12. Spigolatura 15 13. La morte per croce 16 14. Mater Dolorosa 16 15. Spigolatura 17 16. Spigolatura 18 17. Spigolatura 18 18. Per Crucem ad Lucem 18 19. Compendio delle disposizioni necessarie per fare bene la Santa Comunione 19 20. Risoluzioni 20 21. Il Prete 21 22. Il Dolore 23 52 Inserito in fase di redazione. Si segnala che i titoli in corsivo sono stati adottati discrezionalmente. 32

Condividi su
MOVIMENTO FAMILIARIS CONSORTIO
Via Franchetti, 2
42020 Borzano
Reggio Emilia
Tel: + 39 347 3272616
Email: info@familiarisconsortio.org
Website: familiarisconsortio.org
  • “È evidente come Don Pietro abbia vissuto il suo sacerdozio
    tra la vita delle persone, condividendo tutto. 
    In fondo, forse, è il segreto più prezioso che ci ha svelato.”
    Umberto Roversi

© 2022 Movimento Familiaris Consortio | Via Franchetti, 2 42020 Borzano (RE) | info@familiarisconsortio.org |Privacy Policy | COOKIE POLICY | SITEMAPCREDITS