216. Una «vera» pastorale
La vita di cui la Chiesa è nutrita dal suo Dio, perché vita di Dio non sua proprietà, essa deve comunicarla al mondo con un movimento detto «pastorale». Detto così, perché deve tener conto anche della vita degli uomini a cui si rivolge.
Ma la pastorale non può essere declassata a scienza dell’efficienza, tabella programmatica per mettere a disposizione sociale gli oggetti di Dio, trasformandosi così in sociologia religiosa e in didattica comunitaria.
“Questo non ti è stato rivelato dalla carne né dal sangue, ma dal Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17).
L’umanità del Cristo è un segno, ma non basta; ci vuole anche la luce dall’alto.
Così anche per noi. È necessario offrire dei segni ma da soli non sono conclusivi.
La Chiesa deve essere segno e non di più. L’uomo non può presumere di integrare con i propri mezzi e la propria azione una presunta insufficienza dell’agire di Dio. Non è suo compito coprire interamente l’itinerario di conversione degli altri; c’è la luce che il Padre fa scendere dall’alto.
Abbiamo il compito di essere credibili e non creduti. Il «creduti» dipende da Dio, il «credibile» dipende dalla comunità cristiana.
Credibilità: Cristo è stato interamente Gesù, uomo del tutto, presente in una umanità senza eccezioni e senza parentesi. Perciò ricerca di una dimensione umana che non permette né l’evasione, né l’astrazione.
Non vale giustificarsi dicendo che il dono viene da Dio.
La condizione è umana e deve essere riconoscibile.
Vi appartiene il processo di secolarizzazione e di desacralizzazione. I segni appartengono alla storia e devono possedere intera la carica delle manifestazioni umane. Se passano al di sopra degli uomini, cui sono indirizzati, inaridiscono il messaggio di Dio.
Un processo di incarnazione, non un processo per ridurre Dio come nell’attuale orizzontalismo che diminuisce Dio a favore dell’uomo, riduce il messaggio evangelico a messaggio sociale, declassa la Salvezza in teoria del riscatto socio-politico.
Nel verticalismo non si prende sul serio l’umanità di Cristo e sembra si voglia purificare sacralizzando il compito e le forme della pastorale nel timore che Cristo diventi troppo uomo e la Chiesa troppo umanità. Tende a nascondere sotto la tunica inconsunta di Cristo una umanità evanescente e perciò sacralizzata, ieratica e rituale.
Il problema della libertà. Parabola del Prodigo1.
Il padre ama talmente questo figlio da rispettare la libertà della sua scelta, perché l’amore non può costringere nessuno.
L’intera vita pastorale della Chiesa deve riflettere l’atteggiamento fondamentale del Padre verso il mondo.
Disponibilità del Padre, disponibilità di ogni intervento pastorale. Evitare eccesso di preoccupazione per chi fugge. Non credere di capire la disattenzione rispettosa di Dio. Avere il coraggio dell’amore di Dio. Non temere la libertà e non circuirla per salvare l’uomo da se stesso. La libertà è il primo bene da tutelare. Non tendere a sostituire l’uomo coprendolo con la nostra responsabilità.
La libertà è la radice stessa della condizione umana e caratterizza il volto adulto dell’uomo davanti all’uomo e soprattutto davanti a Dio.
Rispettare però la libertà non significa abbandonarsi all’inerzia e alla disattenzione. Un impegno d’amore vissuto fino in fondo perché non la nostra, ma la volontà di Dio si compia. L’uomo lontano deve avvertire che i cristiani lo amano al punto tale che la sua libertà non può essere violata. Ciò è possibile solo se i cristiani amano talmente Dio da credere che solo l’amore è generatore della libertà.
Dialogo nella convinzione che ognuno ha da dare come ognuno ha da ricevere. Ricerca di ciò che unisce per superare insieme ciò che divide. Superamento del paternalismo e della tutela. Non dialogo come tecnica del consenso, dato il fallimento della tecnica del dissenso.
Pastorale nel nuovo concetto di Chiesa. Superata dal Concilio la concezione Bellarminiana della Chiesa, che di fatto faceva coincidere la Chiesa con la Gerarchia e il Sacerdozio ministeriale a concezione sociologica che parte dai ministeri permanenti.
Il Vaticano: la Chiesa è prima e soprattutto una comunità e solo in seguito vengono specificati i compiti e le responsabilità dei ministeri gerarchici e laicali. Una inversione di prospettiva.
Prima, dall’alto in basso, dalla Gerarchia ai fedeli, dalla istituzione alla comunità. Con il Concilio dal basso all’alto, dal popolo di Dio alla Gerarchia, dai carismi alla istituzione. Così per la Chiesa locale: tutti gli organismi nati dopo il Concilio devono riflettere veramente questa corresponsabilità per non decadere in organi tecnici di consultazione. Bisogna riconoscere al popolo di Dio la sua condizione di comunità responsabile non per una sorta di democrazia. Riconoscere ai laici quanto è loro dovuto per il battesimo, non per una sorta di benevolenza o di necessità.
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