23/11/1975 - Ritiro di Avvento Adulti

Montechiarugolo 23/11/1975
Ritiro spirituale avvento

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I MEDITAZIONE

Fil 3, 7-15

“Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo.”

Dobbiamo preparare con questo ritiro l’avvento.

In fondo cos’è l’Avvento? Non riteniamo ancora di essere giunti: dimentichi del passato siamo protesi verso il futuro.

Noi abbiamo la promessa di Dio; il Natale ci dirà che Cristo è venuto per adempiere alla promessa, ma il compimento non è ancora giunto, non abbiamo ancora il Cristo completo. Anche adesso, dunque, siamo in un periodo di attesa, l’umanità aspetta la “pienezza dell’età di Cristo”: per cui la nostra condizione è di essere nell’avvento.

La nostra virtù è la speranza.

Spesso il Signore insiste su questa idea, questo regno di Dio nell’attesa: ricordate in Luca 12, i servi che aspettano perché deve venire il padrone e non si sa quando verrà, ma deve venire. Gesù dice: “Voi siate simili a questi servi”. Il concetto è espresso ancora nella parabola delle vergini stole e prudenti: siamo in attesa. L’attesa è un fatto fondamentale, il cristianesimo, se autentico, dev’essere nell’attesa. Non si dà un regno adesso, per quanto facciamo il mondo sarà sempre da rifare: noi stiamo aspettando. Del resto è un fatto essenziale, perché è un fatto essenziale dell’amore aspettare. La parabola insiste: le vergini devono aspettare e devono saper essere previdenti.

Sicché, il nostro amore a Cristo dev’essere vissuto nella speranza, in un’attesa fiduciosa, l’attesa di una Persona, per cui, se cessassimo di sperare, evidentemente cesseremmo di amare.

S. Atanasio, un padre della Chiesa, diceva: “Non dite che Cristo è venuto tardi, non doveva essere solo la rugiada del cielo, il dono dall’alto: doveva anche essere il frutto della terra, doveva germinare dalla terra”; si riferiva a Is 4,2 e Is 14,8: cioè la nostra speranza non è passività, la speranza che noi dobbiamo imparare nell’Avvento non è metterci così in una illusione, ma la speranza è collaborazione perché la storia è una relazione con Dio.

Negli Esercizi parlavamo della Chiesa come la sposa di Cristo: è un matrimonio, un lavoro fatto insieme. La Chiesa si deve porre proprio nell’atteggiamento biblico che è atteggiamento di speranza e di lavoro, che è posizione d’invocazione e nello stesso tempo posizione di conquista. Il salmo dice: “Non ha fatto questo il mio braccio, ma l’ha fatto il Signore”, ma soggiunge, “Signore io sono con te”.

C’è una corsa che tu devi fare, dice l’apostolo nel testo che abbiamo visto, c’è la tua collaborazione piena e umile.

La speranza allora è attesa di lui ed è vigilanza nostra, ed è lavoro nostro. Ma in che senso può diventare lavoro nostro? Lo può diventare, quando noi ci realizziamo bene nella nostra precisa posizione, quando noi ci poniamo col cuore aperto, quello che vuole il Signore.

Vorrei che in questo avvento soprattutto potessimo meditare sul valore della povertà, della povertà evangelica, del distacco, perché quanto più noi abbiamo la speranza vera, tanto più siamo distaccati e il distacco ci concede di poter essere disponibili al suo regno.

Avere la speranza vuol dire non confidare proprio in nulla, assolutamente in nulla di quello che esiste qui: dice l’elogio del giusto: “Non sperò nella ricchezza e nei tesori”. Il povero evangelico è colui che ha l’unica ricchezza in Dio.

Io vorrei che noi vedessimo l’esempio della nostra povertà, il simbolo, il significato della nostra speranza nella Madonna, povera che percorre le strade, Lei che dopo l’annunciazione va da Elisabetta: Maria che porta Gesù è il grande esempio dell’avvento.

Guardiamo allora in quale condizione siamo noi adesso per potere entrare bene nell’Avvento. Povertà è allora confidenza totale: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. Povertà è umiltà: riconoscere la nostra insufficienza. Povertà è rinuncia: assolutamente nulla.

E’ facile dire: “Tu Signore sei il mio tutto”, ma molte cose ci prendono, troppe cose ci occupano, troppe e allora non è vero quello che diciamo: siamo sempre affannati, siamo sempre preoccupati, con molta facilità siamo attaccati a tante piccole cose. E allora c’è tanto difficile che, se non ci poniamo in una assoluta disponibilità, l’opera del Signore in noi resta inefficace; allora non entriamo nel clima dell’attesa, cioè non entriamo bene nell’Avvento perché Avvento è aspettare tutto da Lui, è porre la nostra sicurezza solo in Lui, è non avere altro desiderio che la sua gloria, è essere a disposizione per tutto quello che la provvidenza vuole dalla nostra vita. Allora dopo diciamo delle belle parole, facciamo anche delle cose devote, ma camminiamo poco.

Mi pare che il problema nasca proprio di qui: da una considerazione di ciò che abbiamo fatto. Nel testo di S. Paolo, Paolo non considera il bene passato, ma è teso all’avvenire. Quel poco del nostro bene passato! Abbiamo promesso molto al Signore, abbiamo osato parlare di santità, abbiamo creduto molte cose quando eravamo più giovani: quanto la nostra vita è fallimento? E’ un interrogatovi molto duro: quanto è fallimento? Dio ci ha donato in un’abbondanza meravigliosa la sua parola, abbiamo fatto migliaia di Comunioni ed è vero che siamo andati avanti? Siamo andati almeno avanti quanto ci proponevamo?

Mi pare che il nostro esame di coscienza debba bruciare un po’ dentro di noi, perché è molto facile che il ritmo continuo della nostra vita ci impedisca di pensare fino in fondo, di decidere, di compiere, di tenere una gerarchia di valori: tante volte è proprio così perché siamo poco distaccati, non siamo poveri nel senso evangelico, abbiamo delle altre cose, non rinunciamo a certe soddisfazioni, ci poniamo in una posizione che non è la rinuncia, ma che è piuttosto una forma di equilibrio che sa di filosofia greca più che di cristianesimo. Il cristianesimo è la religione senza misura, è il dare senza tenere.

Ecco perché dobbiamo porre questa parola nell’anima nostra, quella che è segnata a conclusione di tutta la Bibbia (Apocalisse 22, 20): “Vieni Signore Gesù”, ma come dirlo in verità? Come sentirlo fino in fondo? Bisogna avere questa precisa presa di coscienza: abbiamo bisogno di Lui, abbiamo bisogno di salvezza. Ricordate la parola di Gesù: “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto”. Bisogna che entriamo bene in questa idea di ciò che abbiamo perduto, di ciò che non abbiamo fatto, bisogna che entriamo nell’idea di buttare via molte e molte cose per entrare così nel suo raggio d’azione. E’ venuto a cercare e salvare.

L’Avvento non è tanto ricerca nostra, quanto piuttosto ricerca sua: Lui ci previene sempre, è venuto a cercare e salvare. Più uno è distaccato e più si lascia cercare, più uno rinuncia e più è salvato.

Lo Spirito della liturgia dell’Avvento mi pare che sia ben precisato così: dobbiamo rifare la storia e porci nelle precise posizioni di coloro che riconoscevano la loro estrema carenza, che avevano bisogno di Lui. Noi abbiamo bisogno di Lui: “Vieni Signore Gesù”. Noi ci lasciamo cercare, proprio perché non vogliamo avere altri appoggi.

Voi ricordate la stesura comune del salmo è proprio in questo concetto: non si riesce, non è possibile, sei tu Signore. “Splendido tu sei, o Potente, sui monti della preda. Furono spogliati i valorosi, furono colti dal sonno” (salmo 75); “Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto. Avrà pietà del debole e del povero e salverà la vita dei suoi miseri”: per essere questi poveri di Iahvè del salmo 71, per entrare così è necessario che ci poniamo dunque in attesa umile e attesa povera.

Possiamo scendere a un esame di coscienza, possibilmente molto preciso: la mia attesa condizione della sua venuta. Viene solo per quelli che lo aspettano. La mia attesa è illusoria se è confidenza divisa, divisa tra le cose di questo mondo e Dio. Che cosa allora mi resta da fare? Come posso mettermi in disposizioni buone? Quali sono le cose che mi dividono?

Lo spirito della povertà evangelica riguarda i beni materiali: come attuo il distacco? Poi riguarda il distacco dalle soddisfazioni che non sono di Lui, troppo umane, troppo terrene, soddisfazioni non adatte al cristiano. Sentire la nostra relatività non colmabile da tutte le cose terrene, dalla stima degli altri, non colmabile da un seguito di piccole cose che ci siamo costruiti. “Tu solo sei la mia ricchezza, o Signore”.

Uno spirito di povertà allora che ci deve investire individualmente e ci deve investire come comunità: la Chiesa povera è la Chiesa che confida solo nel suo Signore, che non confida nelle ricchezze, nel potere, che non confida nella scienza dei suoi uomini, nella furbizia dei suoi uomini, ma confida solo in Lui. “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi delle tue ricchezze” (salmo 64). Vivere la nostra esperienza di Chiesa è allora vivere fino in fondo la realtà profonda che è comunione con Cristo. La Chiesa è sacramento di salvezza, proprio perché è unita a Cristo: non può essere in un’altra maniera. La Chiesa è unita a Cristo: la sua gloria è lì, la sua potenza di santificazione sta lì. Il resto non vale.

L’Avvento vissuto così, la Chiesa che prende coscienza della sua ricchezza, che è ricchezza di comunione con Cristo nel Padre. L’accettazione della purificazione che Dio vuole dalla sua Chiesa: “O Dio tu ci hai messo alla prova, ci hai passati al crogiolo come l’argento, ci hai fatto cadere in agguato, hai messo un peso ai nostri fianchi. Hai fatto cavalcare uomini sulle nostre teste, ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua. Ma poi ci hai dato sollievo”. Ecco la Chiesa che soffre, la Chiesa che tribola, questo momento della Chiesa che si traduce proprio nell’immagine del crogiolo. “Hai fatto cavalcare uomini sulle nostre teste”.

La fiducia della Chiesa è la fiducia in questa realtà di comunione con Cristo, non nelle altre cose. Cosa siamo noi di fronte alle potenze del male, se ci guardiamo solo con un occhio terreno? Come possiamo resistere alle tentazioni sempre più forti? C’è solo Lui: il Signore è la mia ricchezza, la speranza è la mia virtù. Torna il salmo 36: “Spera nel Signore e segui la sua via. Ti esalterà e tu possederai la terra. Ho visto l’empio trionfante ergersi come cedro rigoglioso, sono passato e più non c’era, l’ho cercato e più non si è trovato”.

Ognuno di noi, poi, può scendere in particolare per se stesso, per la sua famiglia (famiglia cristiana posta unicamente nella fiducia: alleverai i tuoi figli, non nella tua sapienza, ma nella sua misericordia), sia per l’azione apostolica, come testimonianza. Noi ci dobbiamo richiamare a questi fondamenti biblici: la nostra potenza è il Signore. Dice il salmo 37: “In te spero, Signore”; questa è la nostra gloria. Paolo dirà: io non mi glorio di nulla, mi glorio solo della croce di Cristo nel quale è la mia salvezza e la mia forza. L’abbiamo fatto? Troppa fiducia in cose sbagliate, abbiamo costruito su una fiducia sbagliata. “Beato l’uomo che teme il Signore”. Il salmo 129, un grande salmi dell’avvento, dice: “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora. Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui è la redenzione”.

Trovare allora ciò che ci manca a un esercizio autentico, concreto di povertà evangelica, a un esercizio che allora è sicurezza del Signore e della sua opera (la speranza), che è distacco da ciò che mi impedisce la pienezza di questa attesa e di questa speranza, è la disponibilità a lavorare insieme col Signore che ci dirige nelle sue vie, è poter ripetere in verità: “io spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua parola” anche se ci sono le colpe, ma “se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere?”.

Attesa di amore, attesa che esprime fino in fondo questo amore sponsale di Chiesa: Lui ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa e immacolata.

Noi amiamo Cristo per essere un’unica cosa con Lui, per lasciarci condurre. Perciò quando nell’Avvento ripeteremo tante volte: “Vieni Signore Gesù, vieni…i cieli diano la loro rugiada”: ripetendo questo, vorremo porci in un’assoluta disponibilità. Troppe cose si accumulano ancora su di noi e il grano di cui parla il Vangelo è soffocato dalle spine e le spine, dice Gesù, sono le ricchezze e le ricchezze sono tutte le altre cose al di fuori del Signore che ci prendono, che ci soffocano, si parte bene e poi si resta impegolati così in mezzo a un mucchio di cose.

“Beati i poveri perché di essi è il regno dei cieli”.

II MEDITAZIONE

Os 2, 16-25

Oracolo del Signore.

Perciò, ecco, la attirerò a me,

la condurrò nel deserto

e parlerò al suo cuore.

Le renderò le sue vigne

e trasformerò la valle di Acòr

in porta di speranza.

Là canterà

come nei giorni della sua giovinezza,

come quando uscì dal paese d’Egitto.

E avverrà in quel giorno

- oracolo del Signore -

mi chiamerai: Marito mio,

e non mi chiamerai più: Mio padrone.

Le toglierò dalla bocca

i nomi dei Baal,

che non saranno più ricordati.

In quel tempo farò per loro un’alleanza

con le bestie della terra

e gli uccelli del cielo

e con i rettili del suolo;

arco e spada e guerra

eliminerò dal paese;

e li farò riposare tranquilli.

Ti farò mia sposa per sempre,

ti farò mia sposa

nella giustizia e nel diritto,

nella benevolenza e nell’amore,

ti fidanzerò con me nella fedeltà

e tu conoscerai il Signore.

E avverrà in quel giorno

- oracolo del Signore -

io risponderò al cielo

ed esso risponderà alla terra;

la terra risponderà con il grano,

il vino nuovo e l’olio

e questi risponderanno a Izreèl.

Io li seminerò di nuovo per me nel paese

e amerò Non- amata;

e a Non- mio- popolo dirò: Popolo mio,

ed egli mi dirà: Mio Dio.

E’ insistente: c’è un prodigio, un prodigio di amore, di dono, una nuova creazione che si verifica nel deserto. “La condurrò nel deserto, parlerò al suo cuore”.

Il deserto è sottolineato, di solito, come il luogo dell’abbandono di Dio, è il simbolo della terra non benedetta. Ecco però il prodigio di Dio: il deserto è il luogo dove Dio compie i suoi miracoli, dove si manifesta meglio il suo amore. Torna il testo d’Isaia: “Ecco, il deserto fiorirà, fiorirà pieno di gigli”.

Questa insistenza del deserto come luogo di misericordia è ripreso da Gesù e Gesù si ritirerà nel deserto quaranta giorni e quaranta notti, Gesù periodicamente tornerà nel deserto. E veramente tante volte nel suo spirito la Chiesa è fiorita nel deserto, dalle solitudini dell’alto Egitto, alle solitudini dei luoghi rupestri dove sorgeranno quei monasteri che si chiameranno con i nomi più belli e più dolci, proprio perché è il luogo dove si trova Dio.

Un altro aspetto dell’Avvento è l’invito al deserto, al silenzio. Sentiremo molte volte il testo di Isaia al capitolo 40: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via del Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio” (Is 40, 3).

Tutta la Chiesa è chiamata a rivivere l’esperienza del deserto, ogni anima, per quanto le è possibili, deve fare deserto. Questo perché c’è un’assoluta esigenza, l’esigenza di far tacere le altre voci per poter ascoltare la sua voce più profondamente: direi che in questo senso il deserto è una forma di povertà. Perciò possiamo continuare il discorso di prima.

Il deserto in casa nostra, il deserto nella nostra povera vita così frastornata, il deserto in fondo al nostro cuore: sembrano posizioni assurde, eppure noi siamo invitati. E’ lo Spirito che parla alla Chiesa e dice: “Sta col tuo Dio per quanto ti è possibile, per quanto tu vuoi mettere qualcosa di vigoroso e di forte in te”.

C’è una mistica del deserto, è una mistica che non è solo per i monaci: è per tutti gli uomini di buona volontà. La Chiesa deve sentire la voglia di deserto.

1 Cor 10, 1-5

“Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma della maggior parte di loro Dio non si compiacque e perciò furono abbattuti nel deserto.”

C’è una storia che noi dobbiamo ripetere, quella storia dell’esodo: quegli avvenimenti, osserva la Scrittura, sono stati un preannuncio, hanno avuto un significato di segni. Dice l’apostolo:

“Ora ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. Non diventate idolàtri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. Non abbandoniamoci alla fornicazione, come vi si abbandonarono alcuni di essi e ne caddero in un solo giorno ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come fecero alcuni di essi, e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di essi, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.” (1 Cor 10, 6-11).

C’è un esodo nel quale dobbiamo entrare, che è la nostra conversione, che è la nostra esperienza di vivere nella continua assistenza di Dio, un un’unica speranza, Lui. Perché in questo esodo non avevano alcun sostegno, perché in questo esodo non avevano nessuna prospettiva umana: avevano solo Dio, solo Lui. La maggior parte di loro non furono fedeli, Dio non si compiacque in loro, proprio perché non riuscirono a vivere in questo abbandono, in questa continua e unica fiducia. “Mormorarono” è la parola che dice tutto: ribellione, stanchezza, volontà di tornare indietro; “perché non ci hai lasciati in Egitto e dobbiamo morire in questa solitudine?”: il nostro esodo questa speranza continua in Dio nella solitudine, nell’ascoltare la sua voce, nel dipendere dalla sua voce. Avete notato come nell’Esodo si arriva insistentemente al punto di rottura, come si arriva insistentemente a dire che si è sull’orlo, che è la fine, restano sempre sospesi come a in filo: questo filo li deve provare. Non ci dobbiamo meravigliare che anche questo avvenga per noi. C’è un deserto che sembra la negazione della presenza di Dio, c’è una solitudine terribile, come dice il Deuteronomio, ma proprio perché terribile e inospitale questo deserto totalmente secco lì troviamo la possibilità di un incontro profondo col Signore.

Sicché, noi, se vogliamo realizzare questi avvenimenti tipici della storia biblica, dobbiamo creare le condizioni di un deserto pieno di fiducia, di speranza, di dipendenza. La preghiera che è richiesta a noi è preghiera essenzialmente di abbandono: abbandonarci a Dio. E’ quello che poi diciamo, quando diciamo: “sia fatta la tua volontà”. Questo abbandono di ogni momento senza sapere quello che ci porterà il domani, senza sapere quello che comporterà il domani, facendo tacere tutto.

Più difficile per noi nel silenzio è proprio far tacere quello che è dentro di noi. C’è una certa fatica a fare tacere ciò che è attorno a noi, ma perché è possibile anche per noi il deserto? Perché è possibile far tacere tutto il rumore che è nel nostro cuore, che alle volte è molto più rumoroso di una piazza.

“Per questo, come dice lo Spirito Santo:

Oggi, se udite la sua voce,

non indurite i vostri cuori come nel giorno della

ribellione,

il giorno della tentazione nel deserto,

dove mi tentarono i vostri padri mettendomi alla prova,

pur avendo visto per quarant’anni le mie opere.

Perciò mi disgustai di quella generazione

e dissi: Sempre hanno il cuore sviato.

Non hanno conosciuto le mie vie.

Così ho giurato nella mia ira:

Non entreranno nel mio riposo.

Guardate perciò, fratelli, che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente. Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi, perché nessuno di voi si indurisca sedotto dal peccato. Siamo diventati infatti partecipi di Cristo, a condizione di mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio. Quando pertanto si dice:

Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nel giorno della ribellione,

chi furono quelli che, dopo aver udita la sua voce, si ribellarono? Non furono tutti quelli che erano usciti dall’Egitto sotto la guida di Mosè? E chi furono coloro di cui si è disgustato per quarant’anni ? Non furono quelli che avevano peccato e poi caddero cadaveri nel deserto ? E a chi giurò che non sarebbero entrati nel suo riposo, se non a quelli che non avevano creduto? In realtà vediamo che non vi poterono entrare a causa della loro mancanza di fede.” (Eb 3, 7-19)

Allora, sintetizzando: gli elementi del deserto che dobbiamo cercare di attuate particolarmente nell’Avvento.

Il deserto è un ascoltare Lui, fuggendo le altre voci, facendole tacere dentro di noi. Il deserto è possibile per ognuno di noi, se c’è una dipendenza continua da Dio, particolarmente nella preghiera di adesione al piano di Dio (“sia fatta la tua volontà”) e nella preghiera d’invocazione. Siamo nel deserto perciò misuriamo meglio come tutto viene da Lui, come non riusciamo ad essere nel suo amore senza di Lui. Essere nel deserto comporta vivere di quello che ci dà Lui, dei suoi “rifornimenti”: “diede loro la manna da mangiare. Essi si lamentarono e dissero: siamo stanchi di questo cibo leggerissimo.” Realizzare il deserto vuol dire andare incontro a Lui con pienezza.

Cosa vuol dire andare incontro a Lui?

I sacramenti sono azioni di Cristo, tutta la Chiesa è sacramento di Dio. Realizzare il deserto vuol dire restare in una chiara valutazione delle cose che abbiamo e che possiamo compiere, di cui possiamo vivere: quindi una gerarchia di valori. Vivere nel deserto vuol dire scartare molte cose che ci sembrano necessarie e sono solo ingombranti. Il testo della lettera agli Ebrei lo sottolinea: è il peccato, è il cercare qualcosa che ci pone fuori da ciò che è indicato dalla “colonna di nubi”; è la fede che ci introduce in un riposo, il riposo di Dio.

Allora deve maturare un nostro proposito: ascoltare l’invito della liturgia, guardare gli esempi che ci sono proposti. Giovanni Battista, il profeta Elia hanno avuto il coraggio di fuggire il mondo, di ritirarsi in una solitudine per farla fiorire, Se noi non ci possiamo ritirare materialmente, dobbiamo ricreare queste chiare condizioni e quindi stimare molto la preghiera, valutare molto i momenti della preghiera, rendere la nostra preghiera fervorosa e attenta. La nostra preghiera molte volte vale poco, perché non riusciamo a uscire da noi stessi. Vivere la nostra vocazione di Chiesa assumendo gli interessi della Chiesa, le istanze della Chiesa, i desideri della Chiesa, uscire dalla nostra preghiera troppo gretta, egoistica, interessata, dare alla nostra preghiera una dimensione diversa, restare così nella volontà di una preghiera nuova, fervida, proprio perché preghiera di attesa e di speranza.

L’Avvento allora diventerà un silenzio che preludia alla creazione, il silenzio di educazione, che ci educa, perché possiamo fare una nuova esperienza di Cristo nel Natale, nuova cioè a livello diverso, proprio perché più attenti, proprio perché più aperti, proprio perché ci siamo superati.

Distaccati dalle cose è il primo gradino e l’essere attenti è il secondo.

Qui ci possiamo proporre il clima che vogliamo realizzare nell’Avvento, la nostra vita intima in fondo alla nostra anima e nelle vostre famiglie. Curare di più la preghiera, curare di più la riflessione su quanto Lui ci comunica, comunitariamente essere più assidui nell’ascoltarci. Il deserto non è fuga dagli altri, il deserto nella nostra condizione è armonizzarci meglio anche con gli altri: la sua voce giunge anche attraverso i nostri fratelli. Una vita di comunità più generosa e più aperta ci dà indubbiamente questa facoltà.

La Chiesa intera si pone nel deserto: la nostra comunità vuole vivere questa esperienza per potersi arricchire di più, per potere far sì che ognuno si trovi meglio nell’incontro col suo Dio.

Fare il deserto è veramente una grande cosa.

C’è un culto esteriore, dice il profeta, che Dio respinge, non importa un culto esteriore:

“Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto per quarant’anni, o Israeliti?”(Am 5, 25).

“Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne” (Am 5, 21-24).

Ecco, vorrei che questo invito al deserto diventasse un’occasione per rivedere le nostre liturgie, per rivedere le nostre celebrazioni esteriori. C’è un rimeditare quello che è la giustizia, quello che è il cuore, c’è un rimeditare la validità di cose esteriori non accompagnate dai sentimenti interiori.

“Scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne”: cosa vuol dire silenzio? Vuol dire colloquio interiore. Cosa vuol dire deserto? Vuol dire porsi davanti a Dio come se si fosse da soli.

Dobbiamo rivedere le nostre preghiere per renderle veramente una voce forte.

Sicché fa deserto, cioè costruisci in te un’attenzione forte e viva, fa della tua preghiera un qualcosa estremamente ricco di amore: “Ti condurrò nel deserto e parlerò al tuo cuore”.

Riformare la nostra preghiera, perché sia una preghiera da deserto, non preghiera frastornata, assemblee liturgiche vuote interiormente, assemblee liturgiche che possono meritare un rimprovero e non un’accoglienza. Interiorità, sensibilità.

E’ la seconda cosa che noi dobbiamo cercare di mettere per fare un po’ meglio l’Avvento.

III MEDITAZIONE

Gal 1, 12-17

“Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.”

Il tempo d’Avvento è tempo di esercizio di povertà, è tempo di esercizio di preghiera, è tempo di esercizio di carità.

E’ sulla carità, sulla carità forte e vigorosa che sta un punto basilare del nostro incontro col Signore, dove tutta la nostra condotta non può essere modellata su cose umane, ma dev’essere modellata sulla sua parola, sulla sua indicazione.

L’Avvento è attesa di redenzione e la redenzione trova uno dei frutti maggiori nella carità, nell’esercizio della carità soprannaturale. Amarsi.

Vorrei che il nostro Avvento fosse particolarmente intenso. La catechesi di quest’anno, su indicazione dei nostri Vescovi, è sul matrimonio, evangelizzazione e matrimonio. Il valore del matrimonio come sacramento che unisce, del matrimonio come sacramento della carità. Il precetto del Signore è ben particolare: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli”. Il precetto è tanto più urgente quanto più questa carità dev’essere profonda e unitiva e tra due sposi la carità ha la sua base, la sua grazia, ha la sua ricchezza nel sacramento matrimonio. Sarebbe inutile una spoliazione (povertà), sarebbe inutile un clima di preghiera se fosse un itinerario individuale.

Bisogna che cominciate l’anno liturgico vivendo la vostra vocazione matrimoniale con grande generosità, con grande slancio, con grande forza. Noi non abbiamo ricevuto, per usare ancora le parole di S. Paolo, non abbiamo imparato da uomini: il valore del matrimonio come sacramento l’abbiamo imparato da Lui e la carità nel matrimonio, la bontà, la comprensione, l’appoggio vicendevole l’abbiamo imparato da Cristo. E’ in Cristo che si deve realizzare una novità e ogni matrimonio cristiano dev’essere una magnifica novità di fronte al mondo.

La grazia dell’Avvento è grazia di rivedere: il Signore ci dà una grazia speciale, la grazia del tempo, ci dà una grazia speciale per potere buttare via quello che non è andato e cominciare di nuovo.

Nella vita matrimoniale bisogna sempre cominciare di nuovo, perché è tale la consuetudine di vita che si rischia di cadere in schemi e uno schema è sempre qualcosa di duro. E’ necessario rinnovarsi continuamente: ecco l’Avvento come grande grazia di rifare di nuovo il discorso, di porsi come se si fosse ancora all’inizio, un discorso aperto, un discorso sincero, un discorso forte. Perché più i difetti restano lì e più diventano difficili, ma mai impossibili, perché la grazia di Dio è onnipotente. Si parlerà tanto nell’Avvento, la liturgia ne è piena, di liberazione: “Viene a liberarci”. Il discorso sulla liberazione è molto frequente adesso: vi suggerirei di porre l’accento sulla liberazione dai nostri difetti, da questi nostri condizionamenti che vengono da una miriade di cose, che vengono da piccole dissonanze che rischiamo poi di fermare un mucchio di bene.

Direi che l’Avvento, inizio di anno liturgico, sia una nuova tappa anche nella vostra vita di sposi. Un discorso quindi sereno che tocchi la vera sostanza delle cose, senza prevenzioni e senza preclusioni, perché il vostro matrimonio sia sempre più come lo vuole il Signore, una fonte di santità. La vostra spiritualità è lì che deve prendere, è lì dove si deve affermare, lì, proprio lì. Chi non ha lo stato del matrimonio ha altre strade, altre possibilità: voi avete quella e su quella bisogna insistere, Troppo spesso la vita porta lontano, porta a polarizzarsi su proprie posizioni.

Bisogna rifare nuovo il clima della preghiera, il colloquio, l’aiuto vicendevole e quanto più siete occupati, quanto più siete frastornati tanto più dovete cercare la preghiera insieme e il colloquio, tanto più dovete sentirvi unisoni nelle decisioni e nelle cose.

Ciò che vi proponevo negli Esercizi l’avete senza dubbio fatto: so di preziosi primi giovedì del mese, di preziosi primi venerdì del mese, per qualcuno ha sentito di preziosi primi sabati del mese; c’è stato addirittura chi ha fatto non solo il giovedì ma anche il venerdì: c’è stata proprio una sovrabbondanza. Ma torno a richiamarvi: avvento come un nuovo incontro, una spiritualità insieme. La vostra spiritualità dev’essere insieme, perché altrimenti la spiritualità non è autentica, perché il Signore vi ha visto insieme, vi ha chiamato insieme, vi ha visto insieme: “Essi non saranno più due ma saranno una sola cosa”.

Del resto rientra in tutto il nostro discorso di quest’anno sulla Chiesa: se il vostro matrimonio è segno dell’amore di Cristo e della Chiesa, se il vostro matrimonio dev’essere segno dell’alleanza di Dio col suo popolo, se il vostro matrimonio deve esprimere la pienezza della vita nel Mistero Pasquale, il vostro matrimonio dev’essere mantenuto sempre così, vivo, fervido, operante.

La parte pratica la lascio a ognuno di voi: rivedere ciò che può non essere andato del tutto bene. Rivederlo, chiedersi perché, proporsi determinati propositi insieme: cominciare l’anno liturgico insieme per viverlo con pienezza e con grande fede.

CODICE 75MOR083
LUOGO E DATA Montechiarugolo 23/11/1975
OCCASIONE Ritiro spirituale avvento
DESTINATARIO Gruppo adulti
ORIGINE Registrazione
ARGOMENTI La speranza e la povertà/ Il deserto / Rivedere il matrimonio: avvento tempo propizio
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  • “È evidente come Don Pietro abbia vissuto il suo sacerdozio
    tra la vita delle persone, condividendo tutto. 
    In fondo, forse, è il segreto più prezioso che ci ha svelato.”
    Umberto Roversi

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