Est 14,1.3-5. 12-14; Mt 7,7-12
La meta che dobbiamo raggiungere è una meta che è al di sopra delle nostre forze, per definizione è una meta soprannaturale. È necessario perciò che ci imprimiamo bene nella mente, che non la possiamo raggiungere con le nostre forze, ma solo con la grazia onnipotente di Dio. Dobbiamo imprimercela bene questa verità, perché siamo portati a sopravvalutarci, a credere che bastino i nostri sforzi, la nostra intuizione, che bastino le nostre astuzie per vincere. Non bastano. Non bastano.
Il peccato di presunzione è il peccato che va contro la speranza, va in un errore, l’errore di credere che noi costruiamo la nostra salvezza, ma la salvezza ci viene solo da Lui. Quando parliamo di salvezza intendiamo, con questa parola, tutto: il raggiungimento dell’equilibrio nella nostra vita, la nostra felicità terrena e celeste. Noi siamo radicalmente incapaci, ma non ce ne rendiamo sufficientemente conto, salvo poi a cadere paurosamente nell’eccesso opposto, nell’avvilimento e nella disperazione, per tornare, passato quello che diciamo un brutto momento, ancora alla nostra presunzione.
Di qui la raccomandazione che ci fa il Signore: il senso della preghiera, il senso della nostra creaturalità, la precisa posizione del nostro niente. Dobbiamo sforzarci come tutto dipendesse da noi, dobbiamo confidare perché tutto viene da Dio. Cioè la nostra confidenza non deve essere una passività, un incrociare le braccia. Il Signore ha condannato questa posizione, più volte, e l’operaio che non vuole lavorare è colui che si ritira in disparte. Lui stesso ci ha dato l’esempio di santificare la stanchezza. Lui ha provato tutto di noi, ha provato anche ad essere stanco: “Stanco”, dice l’Evangelista san Giovanni, “Stanco dal viaggio, si sedette” (Gv 4, 6). Stanco. Dobbiamo provare la rude fatica, dobbiamo impegnarci fino in fondo, sapendo però che se il Signore non interviene, non conta nulla. È una dimostrazione della nostra buona volontà, ma la grazia ci arriva solo da Lui. E perciò dopo l’impegno, la fatica, il provare, il riprovare, il non stancarci, sta la preghiera come invocazione e come abbandono filiale; sta la preghiera, alla quale dice il Signore di non dire mai di no. Quella porta si apre, sembra sprangata forte, sembra che il nostro grido risuoni invano, sembra che alla nostra supplica il cielo sia sordo: non è vero. Il Signore ci assicura che al momento giusto quella porta si apre.
Ecco perché nel conquistare la virtù, nel voler essere buoni, dobbiamo tanto insistere nella preghiera. Questa Quaresima è evidente la preoccupazione della Chiesa nella sua Liturgia: imparare questo senso di dipendenza da Dio, del bisogno di Lui, di un bisogno che non è di ogni tanto, ma è del sempre, di ogni giorno, di ogni ora, di ogni momento.
Abbiamo bisogno di Lui. Impariamo dunque questo prezioso e grande ausilio, impariamolo, impariamolo. Ricorriamovi sempre. Se siamo fedeli alla preghiera, ogni giorno diventa un giorno di salvezza, ogni giorno diventa un giorno in cui abbiamo il pane, perché il Padre dà al figlio il pane.
Sì, diciamolo sempre con profondo senso di responsabilità: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, questo pane dello spirito che ci è più necessario ancora del pane del corpo.
CODICE | 78BFQ01340N |
LUOGO E DATA | Sant’Ilario d’Enza, 16/02/1978 |
OCCASIONE | Omelia, Giovedì I Settimana Tempo Quaresima |
DESTINATARIO | Comunità parrocchiale |
ORIGINE | Registrazione |
ARGOMENTI | Impegno nostro e grazia di Dio per salvarci |
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